Il concetto greco di limite come orizzonte di senso per una vera politica
(di Fabio Gabrielli, Massimo Cocchi, Lucio Tonello e Alfredo De Filippo)
Premessa
Il concetto di limite (peras)ha nel pensiero greco una forte valenza non solo ontologico-metafisica, ma anche etica, estetica e politica. Il recupero, e la ricontestualizzazione, del limite si impone come autentica ingiunzione nell’età della potenza tecnologica a cui la stessa politica è asservita.
Peras, per esempio, nel Filebo platonico, è uno dei quattro generi supremi della realtà (Limite, Illimite, Mescolanza di limite e illimite, Causa della mescolanza), la quale ha una struttura bipolare, nel senso che è un misto di limite (peras) e illimite (apeiron). Di più, l’essere è ordine, proporzione, misura, ovvero de-terminazione, unificazione del molteplice, dell’illimite da parte del Limite-Uno-Bene.
La concezione della realtà quale mirabile mistura di limite e illimite, molteplicità e unità, calibrazione armonica della diversità, emerge con assoluta trasparenza dal seguente passo platonico: “Noi diciamo in un certo modo che l’identità dell’uno e dei molti stabilita nei ragionamenti ricorre dovunque e sempre in ciascuna delle cose che si dicono, ora e in passato. E questo non cesserà mai, né ha avuto inizio ora; ma una cosa di questo genere, come sembra, è una proprietà dei ragionamenti medesimi, immortale e non soggetta a vecchiaia […]. Gli antichi, che erano migliori di noi e stavano vicini agli dèi, ci hanno trasmesso questo oracolo: che le cose che si dice che sempre sono costituite di uno e di molti, ed hanno per natura in se stesse limite e illimitatezza” (Filebo, 15 d -16 e, tr. it. G. Reale).
La determinazione dell’illimite da parte del limite produce ordine: “E i sapienti dicono, o Callicle, che cielo, terra, dèi e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza e dalla giustizia: ed è proprio per tale ragione, o amico, che chiamano questo intero universo «cosmo», ordine, e non, invece, disordine o dissolutezza. Ora mi sembra che tu non ponga mente a queste cose, pur essendo tanto sapiente, e mi sembra che ti sia sfuggito che l’uguaglianza geometrica ha un grande potere fra gli dèi e fra gli uomini. Tu credi, invece, che si debba perseguire l’eccesso: infatti trascuri la geometria!” (Gorgia, 507 e-508 a, tr. it. G. Reale).
Il celebre passo del Gorgia rinvia alla dimensione apollinea, diurna, razionale del pensiero greco, che vede nel cosmo l’ordine e, soprattutto ad opera dei pitagorici, il mondo stesso come espressione numerica, armonica, misurata. Il concetto di limite, di giusta misura, diventa in Platone, grazie anche alle intuizioni pitagoriche, «misura esattissima», metretica assiologica, vertice metafisico assoluto, protologia, dove il Limite si impone a tutto tondo come Uno-Bene, Origine fondativa, insieme alla Diade illimitata di grande e piccolo, di ogni realtà[1].
Il cielo, gli enti, gli uomini e gli dèi hanno una comune tangenza (koinonia) che, grazie al vincolo di philia (amicizia) e kosmiotes (ordine), li armonizza, nel senso che riconduce ad unità le loro distinzioni, che sono tali proprio perché koinonia ne permette quel distinguersi che trova inveramento nell’intero (holon): il numero, il bello, il bene, in sintesi l’Uno-Bene, garantiscono, quale Armonia originaria, l’ordine, espressivo di giustizia (dikaiotes) e temperanza (sophrosyne), in cui le determinazioni-disgiunzioni sono legittimate in quanto finalizzate all’Armonia di ogni armonia, che è poi il loro inveramento nell’intero.
Su questo punto sono particolarmente pregnanti le pagine di Valagussa[2] dedicate al sublime: «Il bello è davvero uno di quei «punti di appoggio o di slancio per arrivare a ciò che è immune da ipotesi, al principio del tutto». Bellezza in greco si dice kalón molto simile al verbo kaléo che significa chiamare; da qui nasce la persuasione degli antichi secondo cui la bellezza «chiama» il Bene, l’Uno inesprimibile […].
Bellezza è lo sparire delle differenze: per un attimo «le cose si fanno uno», questo il significato del termine «ar‑monia»: il «fare uno», si tratta di un fare autenticamente divino; sembra quasi che in esso possa essere rievocata la creazione del mondo, in cui i molti vennero composti e congiunti in unità, quell’unità che si chiama cosmo»(Valagussa fa riferimento ai passi platonici tratti da Repubblica, 511 B, e poco sotto ricorda, oltre all’armonia nascosta di Eraclito e alla bellezza capace di rivelare all’uomo un principio trascendente, il celebre passo del Simposio –187 B – dove Platone sottolinea il concetto di armonia come consonanza, ovvero come consenso).
La valenza protologica del Limite come Misura originaria del reale, e, quindi, come Uno-Bene, era stata intuita da Pohlenz[3] prima ancora dell’imporsi a livello ermenutico delle «Dottrine non scritte», grazie alla Scuola di Tubinga con Hans Krämer[4] e Konrad Gaiser [5], poi con il prosieguo di Szlezák[6], e alla Scuola di Milano con Giovanni Reale[7].
Ecco il passo di Pohlenz: “A noi riesce strana l’importanza attribuita alla misura, messa al vertice della scala dei valori: ma per misura Platone intende in realtà l’Assoluto, e sceglie questa denominazione perché l’Assoluto include in sé non solo il bene inteso in senso finalistico, ma anche il bello, e quindi un principio d’ordine e di proporzione, che costituisce la causa prima del loro concreto esistere e la norma della loro esatta mescolanza”[8].
1. Il limite come cifra della grecità: la versione esistenziale
La cultura greca, come ha ben evidenziato Paula Philippson[9] (1944), ha una profonda natura polare: “La forma polare del pensiero vede, concepisce, modella e organizza il mondo, come unità, in coppie di contrari […]. Queste coppie di contrari della forma polare del pensiero sono fondamentalmente diverse dalle coppie di contrari della forma di pensiero monistica o di quella dualistica, nell’ambito delle quali esse si escludono, oppure, combattendosi a vicenda, si distruggono, o, infine, conciliandosi, cessano di essere contrari […]. Nella forma di pensiero polare invece i contrari di una coppia non sono soltanto tra loro indissolubilmente collegati, come i poli dell’asse di una sfera, ma essi, nella loro più intima essenza logica, precisamente cioè polare, sono condizionati dalla loro opposizione: perdendo il polo opposto, essi perderebbero il loro stesso senso”. Questa polarità o duplicità costituisce l’essenza della potente tragedia attica: la vita umana non è univoca, ma contrassegnata dalla dualità di bene e male, ovvero dal riconoscimento – da non confondersi con il pessimismo – della precarietà del vivere[10]. Curi riporta, a conferma della duplicità esistenziale greca, due emblematiche testimonianze:
– “Niente dura per gli uomini, non la notte lucente, non il male, non la ricchezza, ma tutto scompare in un momento e subito ad altri toccano la gioia e la privazione” (Sofocle, Le Trachinie, I, 130-135).
– “Nella dimora di Zeus vi sono due grandi orci che dispensano l’uno i mali, l’altro i beni; li mescola il dio delle folgori, e colui a cui ne fa dono riceve ora un male ora un bene” (Omero, Iliade, XXIV, 526-533).
Il riconoscimento della strutturale caducità delle cose germina dalla consapevolezza del limite che, secondo i Greci, abita gli uomini quali mortali (brotoi, thnetoi) e, per questo, de-stinati a non oltrepassare il confine originario che li separa dagli dèi, gli immortali (athanatoi).
L’uomo che non rimane fedele al metron, alla misura, al limite invalicabile, commette hybris, tracotanza, in quanto cerca di imporsi come semplice determinazione su quel tutto originario, inglobante tutte le determinazioni, che è la Natura. Nel perpetuo avvicendarsi dei cicli naturali, scanditi dalla physis che presiede ad ogni produzione e dissoluzione, il dolore fa la sua irruzione come evento inatteso, come sorte che impone, improvvisamente e con forza, l’ineluttabilità del soffrire[11] la cui debordante caoticità oltrepassa la misura umana e intercetta ogni biografia come possibilità sempre aperta e mai determinata (e per questo paralizzante proprio perché smisurata, dis-ordinata).
Leggiamo due preziose testimonianze:
– “Uomo, non dire mai ciò che sarà domani né fino a quando chi vedi felice lo sarà: la mosca librata meno rapida scarta” (Simonide, fr. 6 D).
– “Ahi figlio, figlio mio, una sventura s’è svelata, ed è di là dal pianto, è muta” (Bacchilide, fr 2, 11 B).
La misura si incarna nella ricerca di un ordine (kosmos) che l’uomo si ritaglia all’interno di quell’Apertura originaria che è il chaos, termine che deriva da una radice indoeuropea cha, con il significato di apertura, spalancamento (chascō, chainō, «mi apro, mi spalanco») e non tanto di disordine, mescolanza, come nella lingua greca matura: cfr. Esiodo, Teogonia, vv. 116-122.
L’ordine è elevazione del limite a categoria esistenziale per arginare l’angoscia di un’Apertura, cioè di una Natura, indifferente, inquietante, illegale, ovvero priva di quel logos, di quell’ordine rassicurante, di quella legge (nomos), di quel pensiero calcolante con cui gli uomini registrano ed archiviano la regolarità degli eventi naturali[12].
L’uomo è così parte della natura (Platone, Leggi, X, 903 c) entro il cui enigmatico orizzonte può progettare un’esistenza feconda grazie alla phronesis, alla saggezza o prudenza, alla capacità di calcolare, di decidere anticipatamente (proairesis) quale sia il giusto mezzo (mesotes) fra gli opposti e in quale tempo opportuno (kairos) vada reso operativo[13]
Rispetto alla visione giudaico-cristiana, continua Galimberti, l’uomo greco non è al centro del mondo, bensí è «signore del tempo che gli è stato assegnato, in cui può dispiegare le sue opere, secondo misura (katà métron)». Perciò: “Non una colpa originaria come nella tradizione giudaico-cristiana, ma la crudeltà dell’esistenza offusca la mente e oscura il discernimento, per cui continua deve essere quella frequentazione del sapere a cui invita Socrate, non per una propensione intellettualistica, ma in base al principio che chi sa, chi non si lascia offuscare la mente, non commette il male. Nasce qui la filosofia come terapia della mente per il miglioramento della condotta umana, dove l’accento non è posto sull’imputabilità della condotta, ma sulle condizioni che rendono una condotta saggia o insipiente, e quindi contenuta nella giusta misura o improvvida nella prevaricazione” [14].
Il dispiegamento dell’operare umano nella natura eterna e immortale, vita che sempre si riproduce (zoē), da parte dell’uomo come semplice bios, determinazione provvisoria e precaria (Natoli parla di «segmento di vita»)[15], è finalizzato alla ricerca dell’armonia. Tuttavia, avverte ancora Natoli, Armonia (termine che deriva dalla radice ar, «adattamento», da cui armos, giuntura, spalla: mettere insieme, far combaciare i pezzi, insomma dare forma, unità, ordine, misura) è figlia di Ares, la guerra, e di Afrodite, l’amore, cioè è punto di equilibrio tra forze antagoniste. Ne discende che l’armonia non è un fatto, un’evidenza di natura, un’acquisizione per il sempre, ma una dura conquista, una continua tensione dell’anima che scalpella codici esistenziali misurati, capaci cioè di offrire un’articolazione di senso alla originaria polarità del mondo. In altri termini, l’uomo cerca di reperire un ordine all’interno dell’enigmaticità della natura, oppure di svelare questo stesso ordine immanente alla physis.
2. Il limite come cifra della grecità: la versione etica
L’etica greca, intesa come vissuta coerenza tra pensiero e azione, si configura essenzialmente come contemplazione: la rettitudine dell’agire nasce dal theorein, dalla capacità di contemplare le immutabili leggi della natura, al fine di ricavarne un’organica ed operativa conoscenza [16]. E poiché, come abbiamo visto, i limiti della natura non sono oltrepassabili, occorre che l’agire umano, per essere retto, sia improntato a «giusta misura».
Leggiamo una puntuale testimonianza relativa alla preghiera del filosofo al dio Pan:
– “O caro Pan e voi altri dèi che siete in questo luogo, concedetemi di diventare bello di dentro, e che tutte le cose che ho di fuori siano in accordo con quelle che ho dentro. Che io possa considerare ricco il sapiente e che io possa avere una quantità di oro quale nessun altro potrebbe né prendersi né portar via, se non il temperante” (Fedro, 279 b-c, tr. it. G. Reale).
La temperanza, viene rimarcato nelle Leggi (V, 732 c), è «atteggiamento compassato» – una sorta di presa di distanza dal tumulto scomposto degli eventi – che va mantenuto «sia quando il demone volge stabilmente le nostre sorti verso il bello», sia quando esso ci avversa facendoci apparire le cose come fossero «ostacoli dei più alti e insuperabili».
Ma vediamo di esplicitare alcune delle tesi di fondo contenute nel passo del Fedro testé letto.
Socrate fa quattro richieste agli dèi, di cui due riguardano ciò che è «interiore» ed «esteriore» e la misura del loro rapporto; due riguardano, invece, la vera ricchezza.
Gaiser[17] ha colto con assoluto nitore la cifra del messaggio platonico ivi contenuto:
1) La bellezza interiore è di natura etica, riguarda la virtù e le dinamiche conoscitive che portano all’attuazione del bene e del bello;
2) l’armonia tra interno ed esterno riguarda la gerarchia assiologica, dei valori, con il primato dello spirituale (l’«interiore») sul corporeo (l’«esteriore»);
3) «interiore» ed «esteriore» potrebbero riguardare anche le «Dottrine non scritte» e, quindi, il rapporto tra scrittura e oralità, con il primato di quest’ultima, nella misura in cui contiene il Platone protologico, ovvero la dottrina dei principi (l’Uno e la Diade illimitata di grande e piccolo), superiore alla teoria delle Idee, contenuta, invece, nei Dialoghi;
4) la terza richiesta si snoda attraverso il termine chiave «oro»: anche sulla scorta di una consolidata tradizione culturale greca, l’oro cui fa riferimento il passo riguarda la sapienza, cioè la vera ricchezza non consiste nei beni materiali, ma nella filosofia, sapere autentico rispetto a quello apparente dei sofisti, in quanto ha natura dialettica (visione dell’intero dell’essere) e pedagogica (attuazione della bellezza interiore);
5) la quarta ed ultima richiesta è centrata su un termine fondamentale per il nostro discorso: «temperante» (σώφρων). Ebbene, il temperante è colui che può prendere e portare via l’oro nella massima quantità possibile, cioè la sapienza umana nel massimo dispiegarsi della sua potenza, ampiezza e profondità, con la ferma consapevolezza che il sapere totalizzante è prerogativa solo degli dèi. La temperanza (σωφροσύνη), che Gaiser traduce con i termini tedeschi Besonnenheit e Besonnen, cioè assennatezza, essere assennati, accorti, indica la prudenza, non intesa come mero calcolo razionale di ciò che conviene fare o non fare, ma come saggezza, autocoscienza, dominio di sé in relazione ai moti dell’anima e agli alterni eventi del mondo, riconoscimento della «giusta misura», di quanto rientra nei limiti dell’umano conoscere e agire e di quanto non debba essere oltrepassato per non commettere hybris. Gaiser sottolinea come il temperante sia misurato, poiché, riconoscendo di «non possedere la pienezza della sapienza divina», cerca di «ottenere solamente tanto quanto è possibile della inesauribile sapienza divina», cioè cerca di estendere quanto più è possibile i confini del sapere umano, ovvero divenire massimamente virtuosi.La virtù greca (areté) non va confusa con quella moderna, fortemente connotata dal cristianesimo, bensì va intesa come ciò per cui ogni cosa attua nel modo migliore la sua natura specifica: nel caso dell’uomo, ovviamente, si tratta di esplicare in modo ottimale la propria razionalità, coltivando la propria anima con ordine e misura, appunto con temperanza.
In questo consistono i platonici «incantesimi dell’anima», ovvero nella filosofia che richiama l’uomo alla «giusta misura», al senso del limite, alla temperanza come autentica espressione della cura di sé[18]:
“Zalmosside, il nostro re che è anche un dio, aggiungeva, afferma che, come non si devono curare gli occhi senza prendere in esame la testa, né la testa indipendentemente dal corpo, così neppure il corpo senza l’anima e che questa sarebbe 1a ragione per cui ai medici greci sfugge la maggior parte delle malattie, poiché essi trascurerebbero di prendersi cura della totalità dell’uomo, senza la cui piena salute, non è possibile che la singola parte sia efficiente. Infatti, tutti i mali e i beni per il corpo e per l’uomo nella sua interezza, soggiungeva, nascono dall’anima, come per gli occhi derivano dalla testa e ad essa innanzi e soprattutto bisogna rivolgere la cura, se si desidera ottenere la salute sia per la testa che per il resto del corpo. E l’anima, o caro, si cura con certi incantesimi e questi incantesimi sono i bei discorsi, da cui nell’anima si genera la temperanza; una volta che questa sia nata e si sia radicata, allora è facile ridare la salute alla testa e a tutte le altre parti del corpo” (Carmide, 156 e – 157 b, tr. it. M. T. Liminta.).
Ed ecco, a rinforzo di questa tesi e a suo suggello, lo splendido passo platonico del Gorgia, dove è espresso in modo ancora più incisivo questo concetto:
“- Noi e tutte quante le altre cose che sono buone, siamo buoni per la presenza di una certa virtù?
– A me pare che sia necessario, Callicle. – Ma la virtù di ciascuna cosa, di un attrezzo, di un corpo, di un’anima e di ogni animale, sopravviene in modo perfetto non certo a caso, ma si produce con ordine, con precisione, con arte, come confacente a ciascuna di esse. Non è così? – Sì, lo affermo. – La virtù di ciascuna cosa, dunque, è qualcosa disposto con ordine e regolato. – Lo affermo anch’io. – Dunque, un determinato ordine che è presente in ciascuno ed è peculiare di ciascuno è ciò che rende buono ciascuno degli esseri. – Pare anche a me. – Allora, l’anima che possiede l’ordine che le è proprio è migliore della disordinata. – Necessariamente. – E quella che ha ordine è anche ordinata? – E come potrebbe non esserlo? – E quella che è ordinata è anche temperante? – È assolutamente necessario. – L’anima temperante, allora, è buona? – Io contro queste cose non ho nulla da obiettare” (506 d -507 a, tr.it. G. Reale).
Aristotele, dal canto suo, ha ulteriormente tematizzato questi concetti, facendo del riconoscimento del limite, della «giusta misura», un vero e proprio caposaldo della sua dottrina morale.
In estrema sintesi, lo Stagirita fissa i seguenti punti etici:
A. l’etica è subordinata alla politica, ovvero ha una funzione architettonica, di comando;
B. l’etica conosce il bene, le azioni che lo promuovono e consentono di pervenire alla felicità;
C. la felicità, cioè la realizzazione della propria natura – il sommo bene – si consegue con l’areté, la virtù (la virtù greca, che non va confusa con quella cristiana, consistente nell’esplicitare la propria natura in modo ottimale: per esempio, il vedere per l’occhio, l’udire per l’orecchio, la corsa per il cavallo);
D. Aristotele distingue le virtù in etiche e dianoetiche: le virtù etiche derivano dalla capacità della ragione di arginare le passioni, i moti che derivano dall’anima sensitiva e concupiscibile, tramite il calcolo razionale di ciò che conviene e di ciò che non conviene sulla base del giusto mezzo, della «giusta misura». Le virtù etiche si apprendono tramite l’abitudine, il continuativo esercizio di dominio dell’anima razionale sugli impulsi; le virtù dianoetiche, invece, riguardano la componente puramente razionale dell’anima, ovvero la sua parte più elevata. Queste virtù sono la saggezza (phrónesis), che concerne la verità pratica, e la sapienza (sophía), che concerne la verità speculativa o teoretica.
Ma leggiamo un passo eloquente di Aristotele, in cui si evidenzia come la virtù etica sia medietà tra l’eccesso e il difetto, in relazione a sentimenti, passioni, emozioni e loro agiti: “Ad esempio del timore, dell’ardire, del desiderio, dell’ira, della pietà e in genere del godere e dell’addolorarsi v’è un troppo e un troppo poco ed entrambi non vanno bene; ma se noi proviamo quelle passioni quando si deve, in ciò che si deve, verso chi si deve, allo scopo e nel modo che si deve, allora saremo nel mezzo dell’eccellenza, che son propri della virtù; e similmente anche per le azioni v’è un eccesso, un difetto ed un mezzo. La virtù dunque riguarda le passioni e le azioni, nelle quali s’incontra l’errore dell’eccesso e il biasimo del difetto, mentre il mezzo è lodato ed ha successo: e queste due cose son proprie della virtù. Dunque la virtù è una certa medietà, che ha come scopo il giusto mezzo” (Etica Nicomachea, B 6, 1106 b 18-28, tr. it. A. Plebe).
Ricordiamo che tra le virtù etiche più importanti Aristotele elenca la generosità, il coraggio, la moderazione e, in particolare, la giustizia, cui dedica il libro E dell’Etica Nicomachea (passim; nell’Etica Eudemia, B 3, la giustizia viene definita come via di mezzo tra guadagno e perdita).
In definitiva, l’etica aristotelica intercetta in modo mirabile lo spirito informatore della grecità, dalla poesia, ai sette savi, ai pitagorici, che pone nella «giusta misura», nel limite (peras), il fondamento dell’azione morale e di ogni atteggiamento esistenziale.
3. Il limite come cifra politica versus la Volontà di potenza della Tecnica
Si sta imponendo un nuovo ordine, dettato dalla Tecnica come Volontà di potenza che accresce indefinitamente se stessa, in particolare informatica e biologia, nel segno del controllo e della replica dei meccanismi evolutivi dei viventi.
L’evoluzione e il potenziamento tecnologici si sono sostituiti a quello naturale, con il rischio, accanto alle evidenti conquiste, di laceranti “controfinalità” esistenziali.
Rispetto a tutte le strutture epistemiche che hanno costellato il nostro stare al mondo, l’episteme tecnologica tende a produrre in forme sempre più pervasive quello che Anders chiama “dislivello prometeico”[19], cioè l’asimmetria tra la capacità di produzione della Tecnica e la nostra possibilità di immaginazione, comprensione, conferimento di senso.
In questo contesto si delinea a tutto tondo lo scarto tra tecnica e politica, ovvero tra legein e teukein[20], Macht ed Herrschaft [21].
In altri termini, il linguaggio della tecnica fatica a tradursi in narrazioni condivise, intersoggettive; i fatti tecnologici sfuggono, in gran parte, alle significazioni, alle articolazioni di senso, alla comprensione individuale; l’azione sporge indebitamente sul suo conferimento di significato, sulla sua valutazione.
Insomma, la potenza della tecnica (Macht) fatica ad essere istituzionalizzata (Herrschaft), quindi diviene potenza che assoggetta, senza la libera volontà dell’individuo: la tecnica impone le sue grammatiche efficientistiche e produttivistiche all’economia e alla politica, la quale ultima non si struttura più come spazio dialogico, di condivisione progettuale, bensì come mera esecutrice di una estranea volontà di potenza.
La tecnica, come espressione ultima del capitalismo anarchico, produce una civiltà consumistica, attribuendo statuto “umano” solo a chi è protagonista nel mercato, escludendo tutti gli altri (come emerge da tutto il cospicuo pensiero di Bauman). Non solo, la tecnica amplifica ad arte anche i concetti di paura, rischio, vulnerabilità, nel segno del primato del pathos indistinto sulla trasparenza del logos, del valore concettuale ed etico, giustificando, in questo modo, l’esigenza di maggiore sviluppo, di cui la tecnica stessa è, ovviamente, depositaria[22].
Come evidenzia Magatti : «Se i nostri affetti, la nostra salute, il nostro lavoro, il nostro futuro sono a rischio, occorre accelerare ancora, crescere maggiormente, svilupparsi di più »: in questo modo, il capitalismo tecnologico si legittima surrettiziamente[23].
Occorre, allora, recuperare il limite, la “giusta misura“, non più intesa, però, come platonica misura perfettissima, Uno-Bene, ma come “punto di resistenza”, gestito nella prassi quotidiana, nei confronti dell’incommensurabile, di un mondo reso dalla tecnica imponderabile, impossibilitato a essere compreso con le grammatiche del legein: « L’agire politico contemporaneo è, a differenza dei modelli moderni, ormai privo di fini ultimi, è alla costante ricerca di soluzioni intermedie e di arrangiamenti provvisori [… ]. Nella politica contemporanea, ogni parte in campo si presenta come garante dell’interesse di tutti e le differenze sembrano riguardare più i mezzi che gli obiettivi. Ma fino a che punto tutto ciò è sufficiente a orientare nelle scelte?[ …] Viene però da domandarsi se il depotenziamento dei fini non possa alla lunga produrre un’equivalenza tra gli stessi mezzi, fino al punto da privilegiare una politica rispetto a un’altra non tanto in ragione della sua qualità, quanto della sua opportunità[…]. “Più o meno Stato” oppure “più o meno libertà”, “più o meno spontaneità sociale” sono allora decisioni che si prendono a seconda della necessità o urgenza di pareggiare di volta in volta le sorti, di redistribuire il reddito evitando accumuli impropri e ineguaglianze»[24].
In questo consiste il recupero del concetto greco di limite: adattarlo ad un mondo non più retto, come quello greco, dalla regolarità della natura, ormai soppiantata dalla tecnica, conservandone , tuttavia, il messaggio di fondo, cioè il richiamo alla finitezza di cui sono intessute tutte le azioni umane.
Ecco ancora Natoli:
«Quel che però la tecnica non può fare è abolire il limite: lo può spostare all’infinito, ma non lo può annullare […]. A prova di questo basta considerare come le conquiste della tecnica nel momento stesso in cui ampliano le opportunità creino immediatamente dilemmi. Pensare questi limiti della tecnica può consentirci di sfatare il mito progressista della tecnica, l’ultimo mito moderno ancora attivo; ma non è decisa con ciò la direzione verso cui tale demitizzazione può condurci: forse ci porterà verso un nuovo immaginario ipertecnologico con tratti apocalittici o paradisiaci, forse finiremo incantati dalla rete incatenati in mondi virtuali. Ancora una volta è essenziale, allora, il richiamo alla cura di sé, alla gestione accurata e sapiente di quel limite che noi, innanzi tutto, siamo. Si tratta di un percorso fondamentalmente etico»[25].
La vera politica deve, quindi, creare i presupposti necessari alla formazione di una coscienza, individuale e civile, improntata al riconoscimento della finitezza, del limite, come cura di sé[26].
La politica deve produrre cultura, contribuire a rendere l’uomo avido di idee, non di cose, o meglio della ricerca delle cose che produce solo noia e stordimento di sé (cfr. la grande tradizione filosofica da Montaigne, a Pascal, ad Heidegger).
La capacità di dilazionare i nostri desideri – di praticare il limite, la temperanza come autentico stile di vita ( per esempio, Bouckaert, Opdebeeck, Zsolani,)[27] – ci permette di farci spazio per gli altri, ovvero, nell’età dell’iperattivismo tecnologico, di riscoprire la passività come responsabilità, fino, direbbe Lévinas[28], a diventare ostaggi dell’altro ed essere responsabili anche della sua responsabilità verso un terzo. E se è vero che siamo su questa terra non per ingozzarci di cose o per idolatrare merci, ma per umanizzare la realtà, il primo compito che ci aspetta è quello di sostituire, per usare le celebri espressioni di Buber[29], all’impersonale rapporto io-esso, fatto di possesso, di relazioni meccaniche, impersonali, il rapporto io-tu, espressivo del riconoscimento e della condivisione.
Da qui una politica capace di “generare comunità”[30], nel segno della generosità, della magnanimità, una delle virtù etiche aristoteliche, dell’accrescimento della propria potenza, che è tale solo se unito all’accrescimento della potenza degli altri (Animi tamen non armis sed Amore et Generositate vincuntur: Spinoza, Etica, IV, App., Cap. XI).
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Reale G., Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scritte“, Bompiani, Milano 201022.
Szlezák Th., Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie , Walter de Gruyter, Berlin 1985.
Valagussa F., Il sublime, da Dio all’io, Bompiani, Milano 2007.
Weber M., Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tubinga 1922.
Note
[1] G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 1998; H. Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone con una raccolta dei documenti fondamentali in edizione bilingue e bibliografia, tr. it. Milano 1982.
[2] F. Valagussa, Il sublime, da Dio all’io, Bompiani, Milano 2007.
[3] M. Pohlenz , Der hellenische Mensch,Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1946.
[4] H. Krämer, Arete bei Platon und Aristoteles. Zum Wesen und Geschichete der platonischen Ontologie , Diss. Heidelberg, Heidelberg 1959 (Amsterdam 19672).
[5] K. Gaiser,Platons ungeschriebene Lehre. Studien zur systematischen und geschichtlichen Begründung der Wissenschaften in der platonischen Schule , Klett,, Stuttgart 19682.
[6] Th.Szlezák , Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie , Walter de Gruyter, Berlin 1985.
[7] G. Reale., Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scritte“, Bompiani, Milano 201022.
[8] Th..Szlezák , op. cit.
[9] Philippson P., Untersuchungen über den griechischen Mythos, Rhein-Verlag, Zurig, 1944.
[10] U. Curi , Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[11] S. Natoli., La felicità. Saggio di teoria degli affetti, Feltrinelli, Milano 1998; id., L’esperienza del dolore. Forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1999.
[12] U. Galimberti., La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2006.
[13] U. Galimberti, op. cit.
[14] U. Galimberti, op. cit.
[15] S. Natoli, Parole della filosofia o dell’arte di meditare, Feltrinelli, Milano 2004.
[16] U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
[17] K. Gaiser, L’oro della sapienza. Sulla preghiera del filosofo a conclusione del “Fedro” di Platone, tr. it. Vita e Pensiero, Milano 1990.
[18] G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, R. Cortina, Milano 1999.
[19] G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, Verlag C.H. Beck, München 1956; Id.,Die Antiquiertheit des Menschen, II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, Verlag C.H. Beck, München, 1980(già Marx, in Die deutsche Ideologie, 1845-1846, aveva distinto struttura e sovrastruttura, “condizioni di produzione” e “idee dominanti”).
[20]M. Magatti., Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009.
[21] M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tubinga 1922; G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007 (nuova ed. Bollati Boringhieri Torino 2009).
[22] Z. Bauman, Wasted Lives: Modernity and its Outcasts, New York 2004;U.Beck, Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus. Antworten auf Globalisierung, Suhrkamp ,Frankfurt am Main 1997.
[23] M. Magatti, op. cit.
[24] S. Natoli., Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Feltrinelli, Milano 2008.
[25] S. Natoli, op. cit.
[26] F. Gabrielli, L’uomo a due dimensioni. Anima e corpo, cura e salvezza dall’Orfismo al Platone pre-metafisico, LudesUniversity Press, Lugano 2009; id.,L’incantesimo dello sguardo. Riflessioni antropologiche e proposte educative sui giovani, LudesUniversity Press, Lugano, 2011.
F. Gabrielli , M. Cocchi , L. Tonello, La freccia dell’arciere. Ipotesi biologiche e letture antropologico-esistenziali della vita, Plumelia, Palermo 2013.
[27] L. Bouckaert, H. Opdebeeck, L. Zsolani (eds), Frugality. Rebalancing material and spiritual values in economic life, Peter Lang Publishing Group, Oxford, Bern, Berlin…, 2008.
[28] E. Lévinas, Ethique et Infimi. Dialogues avecPhilippe Nemo,Fayard, Paris 1982.
[29] M. Buber, Ich und Du,Insel-Verlag,Leipzig 1923.
[30]S. Natoli., Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio,Mondadori, Milano 2010.