Il ne bis in idem tributario al vaglio della Corte costituzionale
(di Federico Tosone)
L’ordinamento giuridico italiano si caratterizza per la diffusa previsione normativa di concorrenti sanzioni penali ed amministrative per gli illeciti in materia tributaria e dei mercati finanziari (c.d. doppio binario sanzionatorio).
L’ammissibilità di siffatta scelta legislativa è uno dei temi più controversi in ambito nazionale e comunitario in relazione alla compatibilità della stessa con il principio del ne bis idem previsto all’art. 4, Prot. 7, CEDU.
Sul punto, è opportuno rilevare come al prevalente orientamento della Suprema Corte di cassazione – storicamente volto ad escludere che il concorso di sanzioni penali e amministrative per i medesimi fatti possa determinare una violazione del principio del ne bis in idem – si contrapponga l’indirizzo interpretativo della Corte dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) che, postulando la natura prettamente penale/afflittiva delle sanzioni amministrativo/tributarie, giunge a conclusioni esattamente contrarie.
In tema di doppio binario punitivo, invero, stiamo assistendo ad un tendenziale cambio di rotta interpretativo da parte dei tribunali nazionali nonché della Suprema Corte di cassazione stante le molteplici questioni – vuoi interpretative del Trattato UE vuoi di legittimità costituzionale rimesse rispettivamente alla Corte di Giustizia Europea ed alla Corte Costituzionale – di cui si attendono ancora gli esiti -.
Invero, il Tribunale di Torino, con Ordinanza del 27 ottobre 2014, aveva già sollevato formale questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE avanti la Corte di Giustizia Europea – con particolare riguardo alla conformità all’ordinamento comunitario della coesistenza all’interno dell’ordinamento nazionale di una norma penale disciplinante l’omesso versamento annuale delle ritenute certificate (art.10-bis D. Lvo 74/2000) e di una sanzione amministrativa relativa all’analoga omissione su base periodica (art. 13 D. Lvo 471/1997) -.
Successivamente, la Corte di cassazione (Ord. Cass., Sez. Trib. Civ., del 6 novembre 2014; Ord. Cass., Sez. Pen., del 10 novembre 2014) rimetteva alla Corte Costituzionale la questione sulla legittimità costituzionale – per presunta violazione dell’art. 117 Cost. in relazione agli artt. 2 e 4 Prot. 7 CEDU – della duplicazione punitiva penale ed amministrativa contenuta nel T.U.F. in materia di market abuse, con particolare riferimento alla manipolazione del mercato (artt. 185 e 187-ter T.U.F.).
Da ultimo la Suprema Corte, con Sentenza n. 19334 dell’11 maggio 2015, ha ribadito che, in materia di duplicazione sanzionatoria per le violazioni tributarie, l’unica via percorribile per dare effettiva attuazione al diritto convenzionale del ne bis in idem è necessariamente quella che passa attraverso una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost.
Siffatta apertura esegetica della Corte di cassazione si pone in netta controtendenza rispetto al consolidato indirizzo interpretativo da sempre fermo nel sostenere l’ammissibilità del suddetto doppio binario sanzionatorio.
Sicché, recentemente, nell’ambito di un procedimento penale – chiamato per la presunta commissione del reato di cui all’art. 10-ter D. Lvo 74/2000 (omesso versamento I.V.A.) – il Tribunale monocratico di Bologna, dichiarando rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata nei suesposti termini, ha disposto con Ordinanza del 21 aprile 2015 l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale per la decisione in merito.
Invero, la questione interpretativa concerne l’asserita illegittimità dell’art. 649 C.p.p. (divieto di un secondo giudizio) nella parte in cui non prevede l’applicabilità del principio del ne bis in idem nel caso in cui all’imputato sia già stata comminata, per il medesimo fatto, una sanzione amministrativa avente natura penale.
Viene, dunque, contestata la presunta violazione da parte dell’art. 649 C.p.p. dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU).
Preliminarmente – è opportuno svolgere un brevissimo excursus normativo sul doppio binario sanzionatorio (penale e amministrativo) in materia tributaria -.
L’art. 13 D. Lvo 471/1997 prevede la sanzione amministrativa pari al 30% di ogni importo non versato a carico di chiunque non esegue, in tutto o in parte, nei termini prescritti, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo, dell’imposta risultante dalla dichiarazione.
Inoltre, la medesima norma stabilisce che per i versamenti effettuati con ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui sopra è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo.
Come è noto, il legislatore italiano con il D. Lvo 74/2000 ha previsto delle autonome e concorrenti figure delittuose per le medesime omissioni su base annuale.
In particolare, l’art. 10-ter del D. Lvo 74/2000 – oggetto di giudizio avanti il remittente Tribunale di Bologna – disciplina la fattispecie delittuosa di omesso versamento annuale (I.V.A.).
Tale norma prevede la pena della reclusione da sei mesi a due anni per chiunque ometta di versare l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo – purché l’imposta evasa sia superiore ad Euro 50.000 -.
Lo stessa dicotomia sanzionatoria si configura anche per il reato di omesso versamento delle ritenute certificate (art. 10-bis D. Lvo 74/2000) – la qual norma punisce con la pena della reclusione da sei mesi a due anni chiunque ometta di versare, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti per un ammontare superiore ad Euro 50.000,00.
Anche in quest’ultimo caso – la sanzione penale concorre con la medesima sanzione amministrativa tributaria ex art. 13 D. Lvo 471/1997 – sopra richiamata.
Non c’è dubbio, dunque, che l’apparato sanzionatorio tributario consente la coesistenza di sanzioni amministrative per l’omesso versamento periodico (mensile e trimestrale) dell’imposta (ritenute certificate o I.V.A.) e sanzioni penali per la medesima omissione su base annuale.
Infatti, il pagamento del debito tributario e delle relative sanzioni amministrative non costituisce né un esimente della responsabilità penale né una preclusione alla procedibilità dell’azione penale – bensì una circostanza attenuante disciplinata all’art. 13 D. Lvo 74/2000 -.
Quest’ultima norma, invero, stabilisce come il pagamento del debito tributario (comprensivo delle sanzioni amministrative) relativo ai fatti delittuosi per cui si procede penalmente determini esclusivamente la riduzione fino ad un terzo della pena prevista per i delitti disciplinati nel medesimo D. Lvo 74/2000.
L’ammissibilità del doppio binario sanzionatorio (penale ed amministrativo) è altresì avvalorato dalla riconosciuta autonomia del procedimento amministrativo di accertamento fiscale e del processo tributario rispetto al procedimento penale.
L’art. 20 del D. Lvo 74/2000, infatti, esclude espressamente la sospensione dei suddetti procedimenti per la mera pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti oggetto di accertamento fiscale o procedimento tributario.
Non solo. L’art. 21, primo comma, D. Lvo 74/2000 (“Sanzioni amministrative per le violazioni ritenute penalmente rilevanti”) stabilisce che le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato sono comminiate comunque dall’ufficio competente.
Orbene, è proprio tale meccanismo che, secondo il Tribunale di Bologna, si pone in contrasto con il principio del ne bis in idem sancito all’art. 4 Prot. 7 CEDU – stante il contenuto sostanzialmente afflittivo delle sanzioni amministrative, analogo a quello delle norme penali -.
A tal riguardo, si rende doveroso evidenziare, preliminarmente, la collocazione delle norme convenzionali/internazionali contenute nella CEDU all’interno della gerarchia delle fonti del diritto.
Invero, secondo un’ottica prettamente nazionale ed avulsa dal contesto comunitario ed internazionale, il principio del divieto di un doppio giudizio non avrebbe un rilievo costituzionale essendo esplicitamente disciplinato (nel suo contenuto sostanziale) esclusivamente da una legge ordinaria, ossia all’art. 649 C.p.p..
Tuttavia, è l’espressa previsione del ne bis in idem all’interno della CEDU che conferisce al medesimo principio una portata precettiva di rango costituzionale superiore.
A tal riguardo, è opportuno rilevare come le norme CEDU – non essendo derivanti da trattati internazionali – non assumano direttamente il rango di fonte costituzionale nel nostro ordinamento ex art. 11 Cost..
Tuttavia, come ha stabilito la Corte Costituzionale (Sent. Cost. nn. 348/2007 e 347/2007), le norme CEDU assumono il rango di fonte sub-costituzionale, ossia, di fonte integrativa del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, primo comma, Cost. – che attribuisce la potestà legislativa esclusivamente allo Stato ed alle Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali -.
Pertanto, la struttura dell’art. 117, primo comma, Cost. – con particolare riferimento all’osservanza da parte del nostro Stato degli obblighi internazionali – viene integrata e resa effettiva dalla normativa CEDU, determinando, per l’effetto, l’incostituzionalità delle norme ordinarie che siano in contrasto con quest’ultima convezione/internazionale.
Nel caso in esame, la norma convenzionale che la Corte Costituzionale dovrà prendere come parametro di riferimento per la valutazione dell’asserita incostituzionalità dell’art. 649 C.p.p. in relazione all’art. 117, primo comma, Cost., è costituita dall’art. 4 del Protocollo 7 CEDU.
Tale norma stabilisce che nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva.
Ciò premesso, è opportuno evidenziare come, sulla base del costante orientamento della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Corte EDU), la natura penale di una sanzione prescinda dal nomen juris ad essa attribuita dal legislatore nazionale rilevando invece, ai fini di siffatta qualificazione, il contenuto afflittivo sostanziale e la gravità della medesima sanzione.
Per tale ragione, non rileva il fatto che il legislatore nazionale qualifichi formalmente le sanzioni tributarie come amministrative per escludere dal nostro ordinamento l’ulteriore e doppia imposizione di natura penale a carico del reo.
Diversamente, ove il giudice delle leggi ritenga che le medesime sanzioni amministrative tributarie abbiano natura sostanzialmente penale, l’art. 649 C.p.p. potrebbe essere dichiarato incostituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., nella parte in cui non prevede l’applicabilità del divieto di un secondo giudizio nell’ipotesi in cui all’imputato sia già stata comminata, nell’ambito di un procedimento amministrativo per il medesimo fatto, una sanzione amministrativa (irrevocabile) avente natura penale.
In conclusione, a parere di chi scrive – ed a prescindere dall’attesa pronuncia della Corte Costituzionale in merito alla presunta illegittimità dell’art. 649 C.p.p. – il contrasto interpretativo tra il (precedente) orientamento della Suprema Corte nazionale e le Corti comunitarie (Corte di Giustizia) e convenzionali (Corte EDU), costituisce uno notevole spunto riflessivo per gli interpreti sull’attualità di molti precetti gius-penalistici e loro adattabilità al contesto giuridico sovranazionale.