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La monetizzazione del debito pubblico

In economia, il deficit pubblico (disavanzo di bilancio) è quella condizione macroeconomica per cui le entrate fiscali, ovvero il gettito fiscale incassato dallo Stato, risultano inferiori alla spesa pubblica, ovvero la spesa necessaria al funzionamento della pubblica amministrazione e dell’apparato statale.
Il Tesoro, per reperire le risorse necessarie a colmare lo squilibrio finanziario, può, essenzialmente, inasprire la pressione fiscale, con ovvie ripercussioni sul risparmio privato di cittadini e imprese, o incrementare l’indebitamento statale, emettendo titoli del debito pubblico che verranno sottoscritti da investitori e risparmiatori esteri e domestici.
Entrambe le misure hanno, a livello economico e finanziario, effetti depressivi e recessivi dal momento che deprimono la domanda aggregata interna, andando a sottrarre risorse al consumo e agli investimenti privati.
Il ricorso all’indebitamento è una misura che, ovviamente, ripaga particolarmente in termini elettorali, in quanto vi è l’erronea convinzione, da parte dei cittadini, di non doverne sostenere direttamente il costo e gli oneri finanziari associati, traslando e riversando gli effetti recessivi sulle generazioni future.
Un inasprimento fiscale, invece, comportando un esborso diretto di maggior liquidità, viene mal visto dai cittadini nonostante, in termini economici, l’onere sia lo stesso di un ricorso all’indebitamento.
Si parla di monetizzazione del debito pubblico quando il Governo, disponendo del controllo e di una piena influenza sull’operato della Banca Centrale del Paese, riesce ad indirizzarne la politica monetaria al fine di perseguire determinati obiettivi sociali e politici.
Il Governo, infatti, può imporre alla Banca Centrale di acquistare i titoli del debito pubblico, finanziando cosi il disavanzo di bilancio del Paese. In questo modo la Banca Centrale, in cambio dei titoli di Stato offerti, carica liquidità sul conto di tesoreria del Ministero dell’Economia acceso presso di essa.
L’emissione di moneta genera, per lo Stato, il cosiddetto “signoraggio” in quanto, la Banca Centrale, ha un costo pressoché nullo nell’emettere moneta e, grazie ad essa, acquista i titoli del debito pubblico che offrono rendimenti positivi.
Qualora lo Stato volesse finanziare il proprio disavanzo attraverso l’emissione di titoli di Stato sul mercato, dovrebbe corrispondere interessi crescenti agli investitori, rinnovando anche i prestiti giunti a scadenza.
La monetizzazione, o signoraggio del debito, invece, permette al Governo di finanziare la spesa pubblica senza dover elargire tassi d’interesse, dal momento che essi, una volta nelle casse della Banca Centrale, rientrano nelle disponibilità del Tesoro.
Tale operazione di politica economica, dunque, può essere particolarmente utile per Paesi caratterizzati da un elevato debito pubblico, e da un rischio concreto di non poter accedere al finanziamento dei mercati che iniziano a dubitare circa la sostenibilità del debito stesso.
Se un Paese non gode della fiducia dei mercati finanziari, affinché possa ottenere prestiti e finanziamenti dai mercati, dovrà corrispondere interessi nominali crescenti sui titoli di Stato e ciò, nel lungo periodo, comprometterà seriamente la stabilità e sostenibilità delle finanze pubbliche domestiche.
La monetizzazione del debito, però, può seriamente minare la stabilità e credibilità della valuta del Paese nei mercati internazionali, innescando tensioni inflazionistiche particolarmente pericolose.
L’aumento dell’offerta di moneta, da parte della Banca Centrale, per sostenere la spesa pubblica del Governo può, qualora l’offerta di liquidità nel sistema economico non rispettasse le esigenze dell’economia, creare inflazione.

Analizziamo, brevemente, la teoria quantitativa della moneta:
M V = P Y
In cui:
M = Quantità di moneta presente all’interno del sistema economico
V = Velocità di circolazione della moneta
P = Livello medio dei prezzi nell’economia (Inflazione)
Y = Ricchezza reale prodotta all’interno di un sistema economico (Pil)
Se M dovesse aumentare, in seguito a politiche monetarie espansive o politiche di monetizzazione del debito pubblico da parte della Banca Centrale, per poter garantire la suddetta uguaglianza, considerando V costante per semplificare il ragionamento, potrebbero verificarsi due distinti effetti:
– Incremento di P
– Incremento di Y
Nel caso in cui la ricchezza reale prodotta (Pil) rimanesse inalterata, la maggior offerta di moneta implicherebbe maggior inflazione.
Infatti, immaginando un sistema economico costituito da due beni A e B, con rispettivi prezzi pari a PA e PB, se la liquidità nel sistema aumentasse di una certa proporzione (x%) e la produzione reale rimanesse inalterata, i prezzi dei due beni (PA e PB) incrementerebbero di x%.
Per evitare, invece, un incremento del livello dei prezzi, in seguito ad una politica monetaria espansiva, la produzione reale dovrà aumentare della stessa proporzione della maggiore liquidità offerta. Infatti, a livello matematico, dovrà valere la seguente espressione:
M / Y = P
La maggior inflazione, inoltre, comporterà un ulteriore aumento della domanda aggregata poiché, a seguito del deprezzamento e della perdita di potere d’acquisto della valuta, i consumatori tenderanno ad anticipare i consumi onde evitare di acquistarli, in futuro, a prezzi crescenti.
Questo aumento della domanda aggregata, però, comporterà un ulteriore aumento dei prezzi, innescando una spirale potenzialmente inarrestabile che, nella storia economica, è stata causa di iperinflazioni che hanno, poi, portato alla comparsa di regimi politici dittatoriali.
Ricordiamo, ad esempio, la Germania della Repubblica di Weimar negli anni ‘30, in cui carriole di marchi tedeschi erano appesa sufficienti per acquistare del pane.
L’inflazione, inoltre, rappresenta una tassa occulta che il Governo impone ai cittadini, colpendo soprattutto le fasce più deboli e vulnerabili della popolazione.
L’elevata inflazione riduce anche il peso del debito, poiché erode il valore reale dei titoli di Stato in circolazione, e per lo Stato rappresenta un vantaggio economico preferibile alle politiche economiche improntate all’austerità, nonostante rappresenti un costo per coloro che hanno prestato liquidità, sottoscrivendo i titoli del debito pubblico, in quanto, in sede di rimborso, si ritroveranno con una valuta dal minor potere d’acquisto.
La leva della monetizzazione venne ampiamente utilizzata dai Governi italiani, tra gli anni ‘70 e ‘80, che, per stimolare la domanda aggregata interna e colmare il fabbisogno finanziario di deficit pubblici crescenti, soggiogarono la politica monetaria della Banca d’Italia alle decisioni politiche dell’esecutivo.
La monetizzazione, infatti, droga l’economia di un Paese, nascondendo inefficienze finanziarie nella gestione dell’economia, e rimandando nel tempo gli aggiustamenti necessari a garantire sostenibilità alla finanza pubblica.
L’Italia, infatti, ha vissuto “a debito” per molti anni, riversando il costo delle politiche economiche sulle generazioni future, disinteressandosi di garantire, e salvaguardare, il famoso “patto generazionale”, ovvero l’equilibrio economico in cui la generazione uscente tutela l’equilibrio finanziario per la nuova generazione, in modo che essa possa provvedere ai propri bisogni/necessità in modo sostenibile.
Attualmente l’Italia, e le nuove generazioni, stanno pagando l’onere finanziario di politiche economiche finanziate a debito i cui costi, non essendo stati saldati da chi ha effettivamente beneficiato di suddetti beni e servizi, rappresentano un vincolo serio alla crescita economica e al benessere delle generazioni correnti.
In Italia, la continua monetizzazione del debito pubblico da parte della Banca d’Italia, innescò tensioni inflazionistiche che sfociarono in tassi d’inflazione prossimi al 20% su base annua. Nel 1981 la Banca d’Italia, lanciando un messaggio al Tesoro circa l’urgente necessità di regolare ed equilibrare gli eccessivi disavanzi ed inefficienze strutturali della finanza pubblica, riacquistò l’indipendenza decisionale nelle azioni di politica monetaria, slegandosi dall’obbligatorietà, dettata dal Tesoro, di acquistare i titoli di Stato per finanziare il deficit pubblico.
Questa decisione implicò un consistente e repentino aumento del debito pubblico italiano, in quanto il deficit statale, finanziato in passato grazie alla politica monetaria accomodante della Banca d’Italia, andava adesso finanziato ricorrendo ai mercati finanziari internazionali e gli investitori, preoccupati circa la situazione macroeconomica italiana, per sottoscrivere suddetti titoli pretesero interessi nominali crescenti, per compensare l’inflazione crescente che erodeva il valore reale, ed il potere d’acquisto, della valuta italiana.
L’elevato debito pubblico italiano, dunque, è frutto delle politiche fiscali espansive e dei processi di monetizzazione del debito attuati, dagli esecutivi, tra il 1970 e il 1980 ed anche oggi, con l’Italia membro dell’Unione Economica e Monetaria, permangono le significative differenze, in termini finanziari e strutturali, con le altre economie europee.
E’ importante, affinché vi sia trasparenza finanziaria e buon controllo del tasso d’inflazione, che la Banca Centrale, come avviene per la BCE in Europa e per la FED negli Stati Uniti, oltre che in diverse altre economie del mondo, sia indipendente, nel suo operato, dal potere politico e agisca tutelando il potere d’acquisto della valuta , individuato in un tasso d’inflazione, generalmente, prossimo al 2% su base annua.

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