La rivalsa dell’IVA accertata
(di Debora Mirarchi)
1. Introduzione
L’art. 93 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. Decreto liberalizzazioni) ha riscritto il comma 7 dell’art. 60 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, introducendo il diritto del cedente/prestatore di rivalersi nei confronti di cessionari di beni/committenti di servizi, dell’imposta o della maggiore imposta pagata a seguito di un avviso di accertamento o rettifica.
Lungi dall’essere frutto di un ripensamento dettato dagli evidenti effetti distorsivi prodotti dalla norma, la modifica de qua è stata introdotta al fine di chiudere la procedura di infrazione n. 2011/4081, instaurata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia.
E di ciò non è stato fatto alcun mistero.
Nella stessa Relazione di accompagnamento al Decreto n. 1/12 si dà atto che la modifica in parola ha l’obiettivo di risolvere la contestazione sulla legittimità della previsione normativa dalla quale è scaturita la predetta procedura di infrazione.
Prima dell’instaurazione della procedura di infrazione nessun dubbio era stato sollevato sulla legittimità o conformità del settimo comma dell’art. 60 rispetto a generali principi che governano l’IVA.
Il non diritto alla rivalsa è rimasto, infatti, operativo per più di quarant’anni avallato da consolidata giurisprudenza che, in più occasioni, aveva escluso la rivalsa dell’IVA accertata, contribuendo così al consolidamento di un sistema che, di fatto, cagionava una sorta di “inceppamento” alla base dell’imposta.
2. Il non diritto alla rivalsa dell’IVA accertata
Anteriormente all’intervento normativo il settimo comma dell’art. 60 del D.P.R. n. 633/1972 prevedeva espressamente che “il contribuente non ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta pagata in conseguenza dell’accertamento o della rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi”.
In buona sostanza, nell’originaria formulazione il cedente/prestatore, destinatario di un avviso di accertamento o di rettifica, non aveva diritto di rivalersi nei confronti del cessionario/committente dell’IVA o della maggiore IVA pagata e, pertanto, nei suoi confronti poteva gravare, in via definitiva, l’onere tributario.
L’originario settimo comma dell’art. 60, esprimendosi in termini di “non diritto” del cedente/prestatore, non prevedeva un vero e proprio divieto assoluto.
Infatti nulla vietava alle parti di accordarsi preventivamente in senso contrario.
Ma, in assenza di tale accordo, il cessionario/committente poteva validamente opporsi al riaddebito dell’IVA pagata dal cedente/prestatore sulla base di un avviso di accertamento o di rettifica.
In tal senso autorevole dottrina aveva ritenuto corretto parlare di un non diritto più che di un vero e proprio divieto.
La ratio della norma de qua era spiegata nella Relazione governativa di accompagnamento al decreto istitutivo dell’IVA che giustificava la previsione del non diritto “oltre che da intenti sanzionatori anche da valutazioni pratiche, data l’impossibilità e, comunque, l’inopportunità di porre le premesse legislative per la riapertura dei rapporti contrattuali allo scopo di recuperare, a posteriori, l’imposta a suo tempo non addebitata”.
La duplice finalità della norma animata, da un lato, da intenti sanzionatori e, dall’altro, da esigenze di garantire la certezza dei rapporti giuridici sottostanti, era stata giudicata preminente rispetto alla salvaguardia di principi generali di matrice comunitaria.
Tale impostazione aveva trovato ampio conforto nella giurisprudenza di legittimità che, in più occasioni, aveva ritenuto che il fine di non mettere in discussione rapporti giuridici ormai chiusi dovesse essere tutelato anche a discapito del più generale principio di neutralità dell’IVA[1].
3. Verso la riforma
3.1 Le evidenti criticità dell’originaria formulazione
Gli intenti e, soprattutto, le finalità dichiarate dalla Relazione governativa non hanno, però, mai effettivamente convinto.
Da subito la dottrina maggioritaria ha rilevato come, di fatto, la previsione di un non diritto alla rivalsa celava ingiustificati ed impropri intenti sanzionatori in evidente contrasto con il principio di tassatività delle sanzioni previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
Ma, ancor più gravi erano le criticità della originaria disposizione normativa rispetto al principio di neutralità dell’IVA.
Come ben noto, l’imposta in parola ha ad oggetto il valore aggiunto che ogni singolo operatore economico apporta durante l’intero ciclo produttivo. Lo strumento della rivalsa consente al contribuente di traslare il peso del tributo ad un altro soggetto che può rimanere esso stesso inciso, divenendo, di fatto, il soggetto obbligato a corrispondere l’imposta, ovvero, può addebitare, a sua volta, il tributo sino al consumatore finale che versa definitivamente l’IVA.
Attraverso il meccanismo della rivalsa-detrazione si realizza la c.d. neutralità dell’IVA e si colpisce solo il soggetto consumatore finale che è obbligato a versare l’imposta proporzionale al prezzo.
In tal senso si comprende l’imperatività dell’obbligo di rivalsa di cui all’art. 18 del D.P.R. n. 633/72 e la nullità di qualsiasi patto contrario.
La disposizione contenuta nel vecchio settimo comma dell’art. 60 incideva proprio su tale meccanismo attuando, in sostanza, una deroga, peraltro non giustificata, al principio dell’obbligatorietà della rivalsa e, di conseguenza, di neutralità dell’IVA.
Ciò in quanto, non consentendo al soggetto passivo IVA di traslare il tributo a seguito della notifica dell’atto impositivo dell’Amministrazione finanziaria, si impediva la traslazione del tributo al consumatore colpendo i singoli operatori economici intermedi.
Quindi, in caso di accertamento, l’IVA da imposta sui consumi si tramutava in imposta sui singoli passaggi produttivi, cagionando potenziali ipotesi di doppia imposizione in quanto lo Stato incassava l’imposta una prima volta dal soggetto che operava la messa in consumo dei beni e dei servizi e, una seconda volta, dal consumatore finale che non poteva operare la rivalsa.
Ma ulteriori dubbi erano stati sollevati in merito all’ambito applicativo della originaria norma.
Il non diritto alla rivalsa trovava applicazione soltanto a seguito dell’emissione dell’atto impositivo.
Sullo specifico momento a partire dal quale diveniva operante il non diritto si è espressa anche l’Amministrazione finanziaria che, con la circolare del 12 settembre 1986, n. 131 e con la più recente nota del 31 gennaio 2006, n. 17074, aveva chiarito che il venir meno del diritto di rivalsa si verificava soltanto dopo la notifica dell’avviso di accertamento o di rettifica.
Ciò significava che fino a quel momento era, quindi, sempre possibile correggere l’errore emettendo una fattura integrativa ai sensi dell’art. 26 che legittimava la rivalsa dell’IVA o della maggiore IVA non applicata con la fattura originaria.
La possibilità di riparare all’errore si estendeva sino in sede di verifica fiscale purché il contribuente non fosse stato raggiunto da un atto di natura impositiva.
Ma, come più volte statuito dalla Corte di Cassazione, con l’emissione dell’atto impositivo non vi erano margini di deroga: il non diritto diveniva un divieto assoluto.
3.2 Le prime proposte di riforma
Dell’illegittimità della previsione di cui al settimo comma dell’art. 60 si è, dal principio, occupata l’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (AIDC) che, con la nota di comportamento n. 179/2010, aveva rilevato un vulnus nel previgente sistema.
La predetta norma conteneva la seguente massima: “l’imposta sul valore aggiunto dovuta sulle operazioni imponibili, oggetto di rettifica in aumento da parte dell’Amministrazione finanziaria, può essere addebitata in via di rivalsa nei confronti del destinatario dell’operazione sotto la condizione che l’operazione sia stata oggetto di rilevazione contabile nel momento della sua effettuazione e sempre che l’IVA non sia stata già corrisposta direttamente all’Erario, in dipendenza degli atti impositivi derivanti da accertamento o rettifica. Il cessionario/committente ha diritto di esercitare la detrazione della maggiore imposta dovuta e addebitata nei limiti, del periodo decadenziale prescritto dall’art. 19, primo comma, secondo periodo, del D.P.R. n. 633/1972, sempre che non abbia preventivamente regolarizzato l’operazione ai sensi dell’art. 6, ottavo comma, del DLgs. N. 471/1997 versando direttamente all’Erario la maggiore imposta dovuta”.
La citata Associazione aveva rilevato come l’assenza di una norma comunitaria preclusiva della rivalsa in ipotesi di accertamento e il generale principio di neutralità dell’IVA deponessero a favore della tesi secondo cui l’IVA, dovuta sulle operazioni imponibili oggetto di accertamento o rettifica in aumento da parte della Amministrazione finanziaria, potesse essere addebitata al destinatario della operazione a condizione che:
– l’operazione sottostante fosse stata rilevata contabilmente al momento dell’effettuazione;
– l’imposta non fosse stata già corrisposta direttamente all’Erario, in dipendenza degli atti impositivi derivanti da accertamento o rettifica in aumento;
– il cliente non avesse provveduto in via autonoma alla regolarizzazione della fattura.
In conclusione per l’Associazione la rivalsa “da accertamento” non era condizionata dall’emissione dell’avviso di accertamento bensì solo ed eventuale pagamento dell’imposta da parte del soggetto cedente.
Ma la vera spinta verso la riforma di tale sistema è arrivata solo con la procedura di infrazione rimasta “in sospeso” per diversi anni. L’organo comunitario aveva sollevato dubbi di compatibilità del non diritto alla rivalsa rispetto all’art. 1, paragrafo 2, comma 3, della Direttiva 2006/112/CE, contestando, altresì, l’inadempimento di obblighi comunitari.
4. Il nuovo diritto alla rivalsa dell’IVA accertata alla luce dei chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con la circolare del 17 dicembre 2013, n. 35/E
4.1 Caratteri generali
Il novellato settimo comma dell’art. 60 del D.P.R. n. 600/72, in netta antitesi rispetto alla previgente formulazione, prevede che “il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi”.
Il nuovo comma sancisce, quindi, il diritto del contribuente di rivalersi nei confronti del cessionario/committente dell’imposta dovuta a seguito di avvisi di accertamento o di verifica.
Diversamente da quanto previsto dall’art. 18 del D.P.R. n. 633/72 la riforma normativa in parola non prevede un preciso obbligo ma una mera facoltà del contribuente di rivalersi dell’imposta accertata nei confronti del proprio cliente.
La scelta di prevedere una facoltà in capo al contribuente e non un preciso obbligo, è stata percepita come retaggio dell’originaria previsione normativa fondata sul radicato convincimento che valutazioni di ordine pratico, circa l’esigenza di non riaprire rapporti giuridici ormai cristallizzatesi, dovessero essere tutelate.
Queste, in sintesi, le novità introdotte dalla riforma: il cedente/prestatore può rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta pagata a seguito di avvisi di accertamento o rettifica emessi nei confronti del cessionario/committente il quale, per espressa previsione ha diritto di detrarre l’IVA addebitata in via di rivalsa.
Ma, il nuovo diritto di rivalsa e, specularmente, il diritto di detrazione sono entrambi subordinati al verificarsi di specifici presupposti: la rivalsa può essere esercitata previo e contestuale pagamento di imposta, interessi e sanzioni; la conseguente detrazione è legittima soltanto se esercitata entro il secondo anno successivo a quello in cui è stata addebitata l’IVA a titolo di rivalsa.
In relazione al diritto di rivalsa il presupposto del pagamento dell’imposta e, contestualmente, degli interessi e delle sanzioni caratterizza l’istituto in parola allontanandolo, per non trascurabili aspetti, dalla disciplina ordinaria contenuta nell’art. 18 del D.P.R. n. 633/72.
Diverso è il momento a partire dal quale è possibile addebitare l’IVA e diverso è il presupposto.
Non rileva più, infatti, l’effettuazione dell’operazione poiché la rivalsa potrà essere esercitata anche a distanza di diversi anni dal compimento dell’operazione a patto che il contribuente provveda al pagamento non solo dell’imposta e degli interessi ma anche della sanzione.
La previsione del versamento delle sanzioni ha destato, nell’immediatezza, forti perplessità.
A molti è sembrato irragionevole subordinare il diritto di rivalsa al pagamento delle sanzioni.
In primis perché la nuova norma, pur prevedendo il diritto di addebitare l’IVA “da accertamento”, in concreto, sembra ricordare, in qualche modo, l’originaria formulazione e la sua impropria natura sanzionatoria.
Ma, da subito, sono stati sollevati dubbi e difficoltà di ordine pratico.
L’ipotesi più dibattuta riguarda il caso in cui un contribuente decida di prestare acquiescenza alla pretesa erariale, definendo l’accertamento con riferimento alla sola imposta, contestando, invece, l’irrogazione delle sanzioni sotto il profilo della colpevolezza o per sussistenza di circostanze esimenti quali l’obiettiva situazione di incertezza circa l’ambito applicativo di una prescrizione o, ancora, per erronea applicazione del principio del favor rei o dell’istituto del cumulo giuridico.
In questi casi, applicando rigidamente il nuovo dettato normativo, dovrebbe ritenersi preclusa la strada della rivalsa.
Pur volendo riconoscere alla previsione normativa pregevoli intenti deflattivi del contenzioso[2], non si possono negare gli evidenti limiti della nuova formulazione.
Per ovviare a tali difficoltà, i primi commentatori hanno voluto intrepretare il riferimento al pagamento delle sanzioni, alle ipotesi in cui esse siano effettivamente dovute e, quindi, alle ipotesi in cui la legittimità del trattamento sanzionatorio non sia più in discussione.
Sul punto sarebbe stato utile un intervento dell’Amministrazione finanziaria che, è intervenuta recentemente sulla applicazione del nuovo diritto di rivalsa dell’IVA accertata, ha lasciato però aperti numerosi punti interrogativi.
4.2 Ambito di applicazione
L’ampio e generico riferimento all’imposta o alla maggiore imposta accertata dalla Amministrazione finanziaria, contenuto nel nuovo settimo comma dell’art. 60, fuga ogni dubbio circa l’applicabilità della rivalsa sia alle ipotesi di erronea applicazione di una aliquota diversa rispetto a quella corretta, sia alle ipotesi in cui l’operazione sia stata considerata, a torto, non rilevante ab origine ai fini IVA[3]. Sin dal principio ci si è posti l’interrogativo se, nell’ambito di applicazione della nuova rivalsa, dovessero ritenersi escluse le c.d. operazioni in nero.
Sul tema si è pronunciata dapprima la dottrina divisa su due opposte posizioni.
Secondo un primo orientamento, l’assenza di una rilevazione contabile dell’operazione sottesa impedirebbe di esercitare la rivalsa ex post. Di opinione diametralmente opposta un’altra parte della dottrina ha, invece, sostenuto che la non conoscibilità della controparte economica non costituisce un ostacolo all’effettuazione della rivalsa soprattutto laddove dall’attività di accertamento, esercitata dall’Amministrazione finanziaria, sia possibile risalire alla sua identificazione.
Sulla portata applicativa del nuovo diritto di rivalsa si è pronunciata recentemente l’Amministrazione finanziaria che, con la circolare del 17 dicembre 2013 n. 35/E, seppur con notevole ritardo rispetto all’entrata in vigore della riforma, ha tentato di chiarire i numerosi dubbi interpretativi.
La citata circolare utilizza una insolita tecnica forse poco efficace per l’analisi del nuovo istituto.
L’Amministrazione finanziaria attraverso una serie di risposte alle non esaustive domande risolve una serie di punti oscuri, scivolando su altre questioni scomode.
Il primo interrogativo affrontato dal documento di prassi riguarda l’ambito di applicazione dell’istituto della rivalsa con particolare riferimento alle ipotesi in cui la base imponibile di una determinata operazione, rilevante ai fini IVA, sia calcolata in via forfettaria.
L’Agenzia delle Entrate risponde a tale punto di domanda chiarendo che “l’esercizio della rivalsa dell’IVA, ai sensi dell’articolo 60, settimo comma, del D.P.R. 26 ottobre 10972 n. 633, presuppone la riferibilità dell’imposta accertata a specifiche operazioni e la conoscibilità del cessionario committente”.
Due, quindi, sono gli aspetti che rilevano, secondo l’Agenzia delle Entrate, ai fini dell’applicazione della rivalsa: la riferibilità delle operazioni per le quali è accertata l’imposta o la maggiore imposta e conoscibilità della controparte economica.
In presenza di tali presupposti la rivalsa dell’IVA trova applicazione.
Tale premessa consente all’Amministrazione di affermare l’applicabilità della rivalsa alla ipotesi in cui la base imponibile sia determinata in via forfettaria e, invece, di escluderla nelle ipotesi di accertamento induttivo.
Ma, ancor rilevante è che con tale precisazione preliminare l’Amministrazione finanziaria, indirettamente, risolve il quesito circa l’applicabilità della rivalsa alle operazioni in nero.
Poiché per l’applicazione dell’istituto è necessaria l’individuazione dell’operazione e della controparte economica, la rivalsa non è preclusa se, a seguito di attività di accertamento compiuta dall’Amministrazione finanziaria, emergono entrambi i suddetti presupposti.
Con le successive risposte la circolare delimita con maggiore precisione l’ambito di applicazione del nuovo istituto chiarendo che la rivalsa presuppone la definitività dell’accertamento.
L’anzidetto requisito della definitività dell’accertamento, non previsto dalla norma, ma “introdotto” in via interpretativa dall’Amministrazione finanziaria, permette di escludere dall’ambito di applicazione della riforma l’IVA versata in “pendenza del giudizio avverso l’avviso di accertamento che ne contiene la liquidazione” poiché l’imposta, in tali casi è pagata soltanto a titolo provvisorio.
Il presupposto della definitività dell’avviso di accertamento offre un ulteriore spunto di riflessione.
Il riferimento all’imposta accertata consente di includere nel campo di applicazione dell’istituto de quo anche le ipotesi in cui l’IVA o la maggiore IVA sia accertata in via definitiva per effetto dell’applicazione di istituti deflattivi del contenzioso.
La circolare fa espresso riferimento a tutte le fattispecie che comportano la definitività della pretesa impositiva e, in particolare, nel caso di:
– adesione ai contenuti del contraddittorio ai sensi dell’art. 5, commi 1 bis ss. del D.Lgs. n. 218/97;
– adesione ai processi verbali di constatazione, di cui all’art. 5 bis del D.Lgs. n. 218/97;
– accertamento con adesione previsto dall’art. 6 ss. del D.Lgs. n. 218/97;
– acquiescenza di cui all’art. 15 del D.Lgs. n. 218/97;
– conciliazione giudiziale di cui all’art. 48 del D.Lgs. n. 546/92;
– mediazione di cui all’art. 17 bis del D.Lgs. n. 546/92.
Degna di nota è la risposta dell’Agenzia delle Entrate in merito alla possibile rivalsa in caso di pagamento all’erario in forma rateizzata. Dopo aver premesso che la procedura di rateizzazione si perfeziona con il pagamento della prima rata, l’Amministrazione finanziaria chiarisce che la rivalsa può essere validamente esercitata con riferimento ad ogni singola rata.
Altro delicato aspetto trattato dalla circolare riguarda la decorrenza fissata per l’applicazione della nuova disciplina. L’Amministrazione finanziaria prevede la possibilità di accedere alla procedura per tutti quegli atti impositivi divenuti successivamente al 24 gennaio 2012, data di entrata in vigore della riforma.
Questo fa sì che i contribuenti siano chiamati a verificare entro la seconda dichiarazione successiva a quella di pagamento dell’imposta, l’eventuale recupero dell’IVA.
4.3 Adempimenti pratici prodromici all’esercizio della rivalsa
La predetta circolare si sofferma, altresì, anche su questioni di ordine pratico.
Secondo l’Amministrazione finanziaria il contribuente deve emettere una fattura o una nota di variazione in aumento ai sensi dell’art. 26, primo comma, del D.P.R. n. 633/72, rispettando le indicazioni prescritte nell’art. 21 o nell’art. 21 bis del medesimo decreto.
La fattura (o anche la nota di variazione) deve essere annotata nell’apposito registro solo “per memoria” poiché, l’imposta recuperata a titolo di rivalsa, non rileva né in sede di liquidazione periodica, né come posta a debito nella dichiarazione annuale.
Maggiori perplessità si ravvisano con riferimento al momento a partire dal quale è possibile esercitare la detrazione dell’IVA addebitata. Ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/72 “il diritto di detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile e può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del rimborso medesimo”.
Il diritto di detrazione sorge, secondo la disciplina ordinaria, in capo al soggetto passivo indipendentemente dal fatto che il corrispettivo dovuto, comprensivo di IVA, sia stato effettivamente versato o no.
Il novellato settimo comma, in evidente contrapposizione con la disciplina ordinaria di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 633/72, prevede che “il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione”.
Ora il contrasto con la disciplina nazionale non costituisce l’unico problema di compatibilità.
Anche in merito al diritto di detrazione si ravvisa un evidente contrasto con i principi comunitari che, da sempre, subordinano il predetto diritto ai casi in cui l’IVA risulti effettivamente dovuta, indipendentemente dal previo versamento.
5. L’intervento dell’Agenzia delle Entrate ha chiarito i dubbi sul tema della rivalsa dell’IVA accertata?
Purtroppo no.
Numerosi sono i punti sui quali la circolare omette di pronunciarsi.
Ad esempio nulla è detto in merito all’irrogazione della sanzione in capo al cliente che abbia omesso di regolarizzare la propria posizione mediante l’emissione, nel rispetto dei termini, dell’autofattura nelle ipotesi in cui subisca la rivalsa e, a sua volta, eserciti la detrazione dell’imposta in seguito alla notifica dell’avviso di accertamento.
Altrettanto numerosi sono i dubbi di compatibilità della riforma con il diritto comunitario.
A distanza di due anni dall’entrata in vigore della riforma e a diversi anni dall’instaurazione della procedura di infrazione sono ancora numerose le incertezze applicative e interpretative soprattutto in punto di compatibilità con il diritto comunitario.
Le ragioni di tale incertezza devono, però, essere ricercate non nell’intervento poco risolutivo dell’Amministrazione finanziaria bensì in una non chiara formulazione normativa che, ad oggi, non convince per i numerosi aspetti irrisolti.
[1] Sul punto si richiama la sentenza della Corte di Cassazione, 26 maggio 2010, n. 12882 con cui è stato affermato che il non diritto alla rivalsa “è ispirato dall’esigenza di garantire la stabilità dei rapporti giuridici, che sarebbe compromessa da rivalse su operazioni ormai remote e dal tentativo del cessionario – se soggetto passivo d’Iva – di detrarre la relativa imposta; esigenza che prevale rispetto alle ragioni di politica tributaria ispiratrici della neutralità dell’IVA e della tassazione del solo consumo finale”. Tale principio è stato ribadito anche con la sentenza 2 marzo 2012, n. 3291 con cui la Corte di Cassazione si era spinta sino ad affermare che la previgente formulazione della norma in parola consentiva di attuare un equo contemperamento fra opposte esigenze.
[2] La possibilità di addebitare l’IVA accertata dovrebbe incoraggiare la definizione dell’accertamento e, in tal senso, si comprende la natura deflattiva del nuovo istituto.
[3] Si pensi ad esempio alle cessioni intracomunitarie o alle ipotesi in cui una determinata operazione sia stata assoggettata all’imposta di registro in luogo dell’IVA.