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IVA

Corte di Giustizia UE: esdebitazione applicabile anche all’IVA

di Claudio Melillo

Oggetto di trattazione è la procedura disciplinata dalla legge fallimentare italiana a tutela degli imprenditori che versino in gravi difficoltà economiche: l’esdebitazione.

L’esdebitazione è un istituto giuridico disposto dagli art. 142 e 143 della legge fallimentare che ammette, per le persone fisiche, la possibilità di beneficiare della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, a condizione che siano rispettati alcuni requisiti.

Nuovi adempimenti in materia di IVA: il paradosso della mancata semplificazione annunciata

di Claudio Melillo

In prossimità delle scadenze utili alla presentazione delle dichiarazioni annuali IVA 2017, si delinea un quadro critico avente ad oggetto le modifiche apportate dal legislatore. Il paradosso consiste nel fatto che, con l’obiettivo (dichiarato ma mai del tutto attuato) di semplificare il rapporto Fisco-Contribuente, il legislatore fiscale introduce costantemente nuovi e rilevanti oneri in capo ai professionisti.

La dichiarazione annuale IVA non rappresenta un mero riepilogo di tutte le operazioni attive e passive poste in essere nel periodo d’imposta. Permette al contribuente di effettuare la riliquidazione del tributo riferita all’intera annualità rendendo definitiva la sua posizione rispetto all’Erario, con conseguente determinazione di un debito o credito d’imposta.

(di Andrea Orabona)

Con Sentenza n. 100 del 13 maggio 2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di legittimità, sollevate con le Ordinanze della Corte d’Appello di Milano, del Tribunale di Verona e del Tribunale di Forlì, in ordine alla asserita incostituzionalità dell’art. 10-bis D. Lvo 74/2000 nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento di ritenute certificate, dovute in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad Euro 103.291,38.

Infatti, la questione di legittimità costituzionale oggetto delle suddette Ordinanze si incentra sulla presunta violazione dell’art. 3 Cost. (principio di uguaglianza) da parte della norma penal-tributaria di cui all’art. 10-bis D. Lvo 74/2000.

Invero, in relazione ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, i Giudici remittenti evidenziano l’irragionevole ed ingiustificata disparità di trattamento sanzionarorio della fattispecie di omesso versamento delle ritenute certificate – sia rispetto ai più gravi delitti di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione (ex art. 4 e 5 D. Lvo 74/2000) sia rispetto alla fattispecie criminosa dell’omesso versamento dell’I.V.A. (ex art. 10-ter D Lvo 74/2000) – quale risultante a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale della Corte Costituzionale con Sentenza n. 80 del 2014.

A tal riguardo, giova ricordare che, con quest’ultimo arresto, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost, dell’art. 10-ter del D. Lvo. 74/2000 nella parte in cui – con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011 – puniva l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad Euro 103.291,38.

In particolare – veniva primariamente ritenuta lesiva del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) – la previsione, all’interno dell’art. 10-ter D. Lvo 74/2000, di una soglia di punibilità (Euro 50.000,00) inferiore a quelle stabilite per i reati di dichiarazione infedele (art. 4 D. Lvo 74/2000) ed omessa dichiarazione (art. 5 D. Lvo 74/2000), prima delle modifiche introdotte dal D.L. 138/2011 convertito in L. 148/2011 – rispettivamente per Euro 103.291,38 ed Euro 77.468,53 -.

Ciò detto, con riferimento alla Sentenza in commento, i Giudici remittenti sostengono che si dovrebbe giungere alla medesima conclusione anche con riferimento al delitto di omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10-bis D. Lvo 74/2000 trattandosi di fattispecie analoga a quella testé esaminata dell’omesso versamento I.V.A. ex art. 10-ter D. Lvo 74/2000 – già oggetto di dichiarazione di incostituzionalità per effetto della Sentenza n. 80/2014 -.

L’art. 10-bis D. Lvo 74/2000, dunque, violerebbe l’art. 3 Cost. sia nel raffronto con le soglie di punibilità previste dagli artt. 4 e 5 D. Lvo 74/2000 (omessa ed infedele dichiarazione) – prima della riforma apportata dal D.L. 138/2011 convertito in L. 148/2011 – sia in relazione all’analoga fattispecie criminosa dell’omesso versamento dell’I.V.A. ex art. 10-ter D. Lvo 74/2000 così come risultante a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla summenzionata Sentenza n. 80/2014.

Tuttavia, nella sentenza n. 100/2015 la Corte Costituzionale rileva le profonde diversità intercorrenti tra i reati di omesso versamento delle ritenute certificate ex art. 10-bis D. Lvo 74/2000 e di omesso versamento I.V.A. ex art. 10-ter D. Lvo 74/2000, tali da rendere la prevista disparità di trattamento sanzionatorio del tutto conforme al precetto costituzionale di uguaglianza sostanziale ex art. 3 Cost.

Invero, i Giudici Costituzionali sottolineano che – a differenza della disciplina in materia di I.V.A. – la dichiarazione di sostituto di imposta, nella quale devono essere indicati i compensi erogati ai sostituti e le relative ritenute operate, non integra – secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale – gli elementi costitutivi oggettivi delle fattispecie delittuose di omessa dichiarazione (art. 4 D. Lvo 74/2000) e dichiarazione infedele (art. 5 D. Lvo 74/2000) invocate come tertia comparationis.

Infatti, l’omessa o infedele dichiarazione del sostituto di imposta integra il solo illecito amministrativo di cui all’art. 2 D. Lvo 471/1997, non essendo quest’ultime condotte rilevanti sotto il profilo penale.

Inoltre, precisa la Corte, il reato di omesso versamento delle ritenute certificate ex art. 10-bis D. Lvo 74/2000 – diversamente da quanto accade per la fattispecie di omesso versamento I.V.A. – non richiede che le ritenute non versate risultino dalla dichiarazione fiscale del sostituto (rilevante ai soli fini della determinazione del termine di consumazione del reato) bensì che esse appaiano dalle sole e relative certificazioni rilasciate ai medesimi sostituti d’imposta.

Pertanto, il sostituto di imposta che omette di versare le ritenute certificate può essere imputato esclusivamente del delitto di cui all’art. 10-bis D. Lvo 74/2000 che, all’occorrenza, concorrerà con l’illecito amministrativo di omessa o infedele dichiarazione del medesimo sostituto allorquando quest’ultimo non abbia adempiuto ai propri obblighi dichiarativi.

Inoltre, le previsioni punitive di cui agli artt. 10-bis e 10-ter D. Lvo 74/2000 sottendono la riscossione di tributi profondamente differenti – le imposte sui redditi, nel primo caso, l’I.V.A nel secondo – rivolgendosi, altresì, a soggetti le cui posizioni tributarie non risultano in nessun caso equiparabili, ovvero, rispettivamente, il sostituto di imposta ed il contribuente.

Infatti, il sostituto di imposta viene incaricato di adempiere all’obbligazione tributaria in luogo del soggetto in capo al quale si realizza il presupposto impositivo; il contribuente è invece colui in capo al quale sorge la pretesa tributaria e pertanto il soggetto sui cui grava il peso finanziario dell’imposta.

Per le suesposte ragioni, la Corte Costituzionale con la Sentenza in commento n. 100/2015 ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis D. Lvo 74/2000 sollevate dalla Corte d’Appello di Milano, dal Tribunale di Verona e dal Tribunale di Forlì, in relazione alla presunta violazione dell’art. 3 Cost..

In conclusione, le ipotesi di reato di omesso versamento delle ritenute certificate ex art. 10-bis D. Lvo 74/2000, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.L. 138/2011 convertito in L. 148/2011, ossia prima del 17 settembre 2011, continuano ad essere sottoposte alla soglia di punibilità di Euro 50.000,00 – a differenza delle ipotesi di reato di omessa versamento dell’I.V.A. che, per effetto della dichiarazione di incostituzionalità parziale di cui alla Sentenza 80/2014, per i fatti commessi entro lo stesso termine, rimangono soggette al superamento della maggiore soglia di Euro 103.291,38.

(di Serena Giglio e Roberta Dorotea Roscigno)

Con il presente contributo ci proponiamo di approfondire alcuni aspetti concernenti il contratto di leasing immobiliare, il quale è stato analizzato dalle Corti di merito romane, con particolare riguardo agli Avvisi di Accertamento, sempre più frequenti, emessi dall’Agenzia delle Entrate per contestare la deducibilità dei canoni di locazione finanziaria, ai fini delle imposte dirette e la detraibilità della correlativa IVA, in relazione a quelle fattispecie caratterizzate da una doppia e contestuale cessione del bene immobile a valori crescenti, seppur di mercato, con concessione finale dello stesso in leasing ad un’impresa utilizzatrice.

Per inquadrare la questione e prima di analizzare le conclusioni a cui sono pervenute la Commissione Tributaria Provinciale di Roma e la Commissione Tributaria Regionale del Lazio nelle diverse sentenze meglio specificate di seguito, occorre, anzitutto, definire cosa sia un’operazione di leasing immobiliare, prima, secondo la disciplina del codice civile, e poi, secondo il legislatore tributario. Tale analisi, a parere di chi scrive, è tanto più interessante considerata la rapidissima diffusione del contratto in esame dovuta alla grande convenienza che questo strumento di finanziamento presenta nei confronti di altri più tradizionali e la possibilità per l’impresa utilizzatrice di dedurre sia ai fini Ires sia ai fini Irap i costi relativi ai canoni di locazione sostenuti nonché di beneficiare della detrazione ai fini IVA.

Ci si limita a ricordare, ai fini che qui ci occupano, che la figura contrattuale del leasing, introdotta negli Stati Uniti per poi essere importata in Europa, risulta dal combinato disposto degli artt. 1523 (cd. vendita con patto di riservato dominio) e 1523 (cd. contratto di locazione) del codice civile. In particolare, il leasing immobiliare è un contratto di leasing finanziario avente ad oggetto beni immobili, con il quale una banca o un intermediario finanziario (concedente), su scelta ed indicazione del cliente (utilizzatore), acquista o fa costruire da un terzo fornitore i beni de quo, al solo fine di concederli in uso al cliente stesso per un determinato periodo di tempo e dietro il pagamento di un canone periodico. Alla scadenza del contratto è prevista per l’utilizzatore la facoltà di acquistare il bene stesso, previo l’esercizio dell’opzione di acquisto, con il pagamento di un prezzo che nel linguaggio comune prende il nome di prezzo di riscatto oppure può decidere di restituirli al concedente. Nel contratto di locazione finanziaria il fornitore e l’utilizzatore potrebbero anche coincidere: in tal caso si parla di operazione di sale and lease-back, con la quale un’impresa vende un bene strumentale ad una società finanziaria, la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione finanziaria alla stessa impresa venditrice, verso il pagamento di un canone e con possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto per un prezzo normalmente molto inferiore al suo valore.

Sotto il profilo fiscale, l’ unica definizione del contratto in esame è quella prevista dall’art. 17, comma 2 della legge n. 183 del 2 maggio 1976, a mente del quale “Per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili e immobili, acquistati o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore, che ne assume tutti i rischi, e con facoltà per quest’ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito”. Peraltro, si deve rammentare che ai sensi dell’art. 102, comma 7, del d.P.R n. 917 del 1986 “Per i beni concessi in locazione finanziaria l’impresa concedente che imputa a conto economico i relativi canoni deduce quote di ammortamento… Per l’impresa utilizzatrice che imputa a conto economico i canoni di locazione finanziaria…. la deduzione è ammessa…”. Secondo quanto testè riportato ne consegue, quindi, che i canoni di locazione finanziaria rappresentano per l’utilizzatore (impresa o lavoratore autonomo) un costo deducibile in sede di dichiarazione dei redditi.

Vale la pena evidenziare che nella sentenza n. 9944 del 2000, gli Ermellini hanno chiarito che il contratto in esame “risponde ad una specifica esigenza di finanziamento”, stante la ratio sottesa, che è quella di “fornire i mezzi finanziari necessari a chi abbia interesse ad utilizzare un bene (strumentale o di consumo), ma non intenda acquistarlo immediatamente (immobilizzando risorse) e preferisca, invece, rinviare tale opportunità ad un momento successivo, dopo avere utilizzato il bene per un determinato periodo di tempo”[1].

Chiarito cosa sia un’operazione di leasing immobiliare ed i tratti essenziali, bisogna ora interrogarsi se sia legittima la deducibilità integrale dei canoni di locazione sostenuti dall’impresa utilizzatrice nell’ipotesi in cui l’Amministrazione contesti una sproporzione tra il prezzo di acquisto del complesso immobiliare da parte della società di leasing ed il suo valore di mercato.

Giova, al riguardo, analizzare un particolare caso sottoposto all’esame della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma, riguardante un accertamento in materia di Irpef, Iva e Irap, emesso proprio in ragione di una sostanziosa sproporzione tra il prezzo di acquisto di un complesso immobiliare da parte della società di leasing ed il suo valore di mercato, che, ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, faceva supporre l’esistenza di una volontà simulatoria in capo ai partecipanti volta ad occultare un finanziamento.

In specie, l’Amministrazione finanziaria riteneva dissimulato un finanziamento – in relazione a cui disconosceva la deducibilità dei canoni di leasing ai fini delle imposte dirette e l’indetraibilità della correlativa IVA – per il fatto che, a proprio dire, attraverso una simulazione relativa oggettiva, le parti avessero dissimulato i seguenti rapporti: i) una cessione del bene immobile tra i soggetti X ed Y al valore Z (ii) una seconda cessione contestuale tra i soggetti Y e L (società di leasing) al valore Z+W (iii) la concessione da parte della stessa concedente (i.e. società di leasing) di un finanziamento nei confronti della società utilizzatrice finale K per l’importo pari a W (coincidente con la differenza tra il prezzo della seconda cessione tra Y e L concedente e quello della prima cessione tra X e Y). In altre parole, secondo l’Amministrazione finanziaria ciò che faceva presumere un intento elusivo alla base della appena citata operazione immobiliare, era il fatto che il medesimo complesso immobiliare risultava ceduto due volte nello stesso giorno con un incremento di prezzo pari a W (nel caso di specie, coincidente con svariati milioni di euro).

Nella fattispecie de quo si sono espressi i giudici della Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sezione 11, con ben tre sentenze (sentenze nn. 23099/11/14, 23100/11/14 e 23101/11/14) nelle quali hanno disatteso integralmente la tesi dell’Amministrazione finanziaria ed hanno avallato la difesa della Contribuente (i.e. società utilizzatrice)[2]. In particolare, i summenzionati giudici dopo aver brevemente ripercorso quanto osservato e disposto, a più riprese, dalla Corte di Cassazione con riferimento alla particolare tipologia di contratto atipico rappresentato dal leasing, sottolineano come: “il lease-back, nella sua configurazione di vendita di un bene strumentale dell’impresa e contestuale concessione in leasing dall’acquirente concedente al venditore utilizzatore, risponde alla specifica esigenza delle attività imprenditoriali di potenziare i fattori produttivi di natura finanziaria, ottenendo immediata liquidità mediante la alienazione di propri beni strumentali, con facoltà di conservarne l’uso e di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto a condizione dall’analisi dei dati oggettivi dell’operazione ed in particolare alla sproporzione tra il valore del bene ceduto in garanzia ed entità del debito possa essere escluso ogni intento fraudolento per eludere il divieto previsto dal citato art. 2744 cc.. Tali indicazione fanno ritenere a questa Commissione che la sopravvalutazione degli immobili oggetto dell’operazione non possa essere considerata quale elemento di caratterizzazione negativa del contratto posto in essere”. Rilevano, peraltro, che “la stessa Corte di Cassazione (Sentenza n. 9944 del 2000) esaminando il problema relativo al trattamento fiscale applicabile ai contratti di sale and lease back e se questo dovesse essere difforme da quello applicabile ai contratti di locazione finanziaria aveva respinto la tesi secondo cui tali operazioni, non avendo altra giustificazione causale se non quella di soddisfare una immediata esigenza di liquidità, debbano essere considerati sostanzialmente diverse da quelle di locazione finanziaria e che, pertanto, non avrebbero dovuto essere assoggettate allo stesso trattamento fiscale. Secondo i Giudici citati anche il contratto di leasing, risponde, infatti, ad un’esigenza di finanziamento, essendo diretto a fornire i mezzi finanziari necessari a chi abbia interesse ad utilizzare un bene (strumentale o di consumo), ma non intenda acquistarlo immediatamente (immobilizzando risorse) e preferisca, invece, rinviare tale opportunità ad un momento successivo, dopo avere utilizzato il bene per un determinato periodo di tempo. Per effetto di tale caratterizzazione il citato contratto non può essere assimilato alla vendita con riserva della proprietà: l’acquisto della proprietà del bene da parte dell’utilizzatore non rappresenta, infatti, la conseguenza indeclinabile del pagamento dell’ultima rata, ma è rimesso ad un’opzione, che può anche non essere esercitata, specie quando i beni sono soggetti ad una rapida obsolescenza. Né, d’altro canto, il contratto potrebbe essere inquadrato negli schemi della locazione, dal momento che i canoni non rappresentano il corrispettivo del godimento del bene, essendo commisurati alla somma impiegata (e quindi anticipata) per l’acquisto del bene dalla società concedente, maggiorata dei costi dell’operazione e degli interessi, e che la mancata consegna, i vizi e lo stesso perimento del bene non esonerano l’utilizzatore dall’obbligo di effettuarne il pagamento. La c.d. causa “di finanziamento”, lungi dall’assumere il ruolo di elemento distintivo dei due istituti, ne rappresenta quindi il tratto comune e ne giustifica l’uniforme trattamento sul piano giuridico”.

Per dimostrare la liceità del contratto di sale and lease – back i giudici della sezione 11 della CTP di Roma sottolineano che la Corte di Cassazione “in presenza di un rapporto, come nella specie trilatero (sale and lease-back) ha ritenuto irrilevante, ai fini della liceità delle transazioni, che l’impresa venditrice appartenga, come nella specie, allo stesso gruppo di quella utilizzatrice Cass.6663/97) potendosi configurare un patto commissorio vietato soltanto nel caso di interposizione fittizia dell’utilizzatrice, la quale invece nel caso di effettività del trasferimento del bene, come nella fattispecie poteva legittimamente affidare a quello schema contrattuale la garanzia del proprio debito, presentando il contratto di lease-back autonomia strutturale e funzionale (Cass.4612/98) quale contratto d’impresa, atto a realizzare un’alienazione a scopo di garanzia. Infatti il lease-back è un contratto atipico rientrante nell’autonomia delle parti ex art.1322 c.c., composto sostanzialmente da due contratti uno di vendita e uno di leasing-locazione finanziaria, cui può aggiungersi la garanzia di un terzo e ciò in quanto, se è vero che la funzione perseguita è quella del finanziamento, è vero altresì che l’utilizzatore finale vuole ottenere una somma di danaro non a titolo di mutuo (per ciò basterebbe ottenere in prestito la somma richiesta dando una garanzia ipotecaria sul bene), ma mantenere la disponibilità di un bene di cui cede la titolarità, per poi riacquistarla, ipotesi nella quale il concedente si tutela legittimamente attraverso l’intervento di un garante.

Il sostanziale disconoscimento, da parte degli uffici finanziari (…) di tale complesso negozio, che consente all’impresa liquidità immediata attraverso l’alienazione di un bene strumentale di cui conserva l’uso con facoltà di riacquistarne la proprietà, ha comportato, nello stesso periodo, la convinzione per gli stessi Uffici, che tale contratto dovesse essere visto unitariamente come contratto di mero finanziamento, esente da IVA, o comunque con IVA non detraibile, il che giustifica le ipotesi elusive prospettate a fronte di operazioni distinte, assoggettate come tali al tributo. Peraltro, nel caso in esame potrebbe prevalere la tesi dell’Amministrazione, ove fosse palese l’antieconomicità delle singole operazioni poste in essere, come nel caso di canoni di leasing ad un prezzo inferiore a quello di acquisto (cfr.Cass.11599/2007)”[3] [4] [5].

Sulla scorta di quanto sopra riportato può, pertanto, affermarsi che l’operazione di leasing immobiliare oggetto di analisi sia stata ritenuta legittima dalla Corti romane e che il prezzo crescente della seconda cessione alla società di leasing sia correlato ai valori di mercato ed alle esigenze di garantire future operazioni di smobilizzo, per cui ne consegue la integrale deducibilità dei canoni di locazione finanziaria sostenuti dalla società utilizzatrice finale.

Nell’identico senso la recentissima sentenza n. 330/22/15, depositata in data 27 gennaio 2015, emessa dalla sezione 22 della Commissione Tributaria Regionale di Roma, che sconfessa completamente, in relazione alla stessa ed identica fattispecie, la tesi dell’Amministrazione finanziaria[6].

In specie, anche con l’appena menzionata sentenza, gli aditi giudici hanno ritenuto fondate e meritevoli di accoglimento le eccezioni sollevate dalla società utilizzatrice, osservando che “l’operato accertativo dell’Ufficio, correlato, a monte, con una presunzione di abuso del diritto, si fonda su elementi inadeguati e facilmente confutabili, anche perché non opportunamente provati”. I

n aggiunta a quanto rilevato nella sentenza della C.T.P. di cui sopra, circa la presunta sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo finale versato dalla società utilizzatrice, i giudici sostengono che “appare invero quantomeno opinabile, sia perché fondata su valutazione Omi la quale ha una valenza solo indicativa e sia perché contraddetta dalla perizia di parte versata agli atti. Conseguentemente, neppure tale circostanza può ritenersi comprovante la simulazione presunta dall’Ufficio”.

Di conseguenza, ad avviso della C.T.R., “devono essere considerate le pur legittime aspettative di guadagno per la società” fornitrice “la quale certamente non poteva rivendere, se non violando il principio dell’antieconomicità, allo stesso prezzo per il quale essa stessa aveva acquistato. Altresì non può essere sottovalutato il fatto che il maggior valore della vendita ha determinato una plusvalenza che ha concorso a formare il reddito sottoposto ad immediata tassazione, a fronte dei costi deducibili nel corso della durata del contratto di leasing”.

Pertanto, alla luce delle argomentazioni riportate, i giudici di merito – valorizzando l’operazione nel contesto del business dei soggetti partecipanti, così da rilevare le ragioni economiche alla base della stessa – hanno concluso che un contratto di leasing immobiliare sia pienamente legittimo, ove il valore dell’immobile sia determinato “secondo una più ampia accezione dei criteri di mercato, ma non per questo fuori da ogni logica economica, come sostiene l’Ufficio, dovendosi necessariamente tener conto, per completezza dell’esame del criterio valutativo seguito dalle parti, che l’immobile medesimo era completamente locato e che i rapporti locativi venivano ceduti unitamente ad esso, talché la società utilizzatrice avrebbe incassato somme importanti”.

Oltre a quanto sopra riferito, si riscontrano le recenti posizioni favorevoli della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma, in relazione ad un caso assolutamente analogo a quello appena esaminato. In particolare, la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, nella sentenza n.198/20/2012 del 5 giugno 2012 è pervenuta alle medesime conclusioni raggiunte dalla CTR di cui sopra[7].

Ed invero, la sopracitata sentenza fa riferimento ad un accertamento in materia di IVA ed imposte dirette emesso in ragione di una sostanziosa sproporzione tra il prezzo di acquisto degli immobili da parte delle società di leasing ed il loro valore di mercato che faceva supporre l’esistenza di una volontà simulatoria in capo ai partecipanti volta ad occultare l’erogazione di un finanziamento.

In specie, l’Amministrazione finanziara riteneva dissimulato un finanziamento – in relazione a cui disconosceva la deducibilità dei canoni di leasing ai fini delle imposte dirette e l’indetraibilità della correlativa IVA – per il fatto “che quattro società, appartenenti al medesimo gruppo, nel maggio 2005, avevano acquistato i medesimi immobili ad un prezzo complessivo di Euro 118 milioni, mentre nel mese di giugno dello stesso anno, li avevano venduti al prezzo complessivo di Euro 150 milioni”.

Al riguardo, la Commissione – nonostante l’appartenenza delle società coinvolte nell’operazione addirittura al medesimo gruppo – ha concordato con l’argomento difensivo circa “la infondatezza della tesi che il maggior valore della seconda vendita sarebbe stato voluto solo allo scopo di beneficiare di maggiori oneri deducibili, perché (…) in realtà il maggior valore che l’Ufficio contesta come veritiero, ha determinato una plusvalenza (differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di cessione), che ha concorso a formare il reddito sottoposto ad immediata tassazione a fronte di costi ( i canoni), deducibili in un arco temporale di quindici anni” e ha concluso che “l’operazione (…) posta in essere è del tutto legittima e non simula un finanziamento anche parziale”.

In altri termini, il Collegio romano ha evidenziato come dalla doppia cessione a prezzi differenti si genera una plusvalenza sottoposta regolarmente a tassazione e già tanto sarebbe inconciliabile ed incoerente con la volontà del secondo cedente, in accordo con l’utilizzatore finale del contratto di leasing di dissimulare un finanziamento; a ciò si aggiunga che nel doppio passaggio vengono versate due volte le imposte d’atto (i.e. registro ed ipotecarie e catastali).

In altre parole, i giudici di merito fanno intendere che non è certo con la presenza di carichi impositivi di tal fatta, infatti, che si concertano le fattispecie elusive!

Da ultimo, in senso pienamente conforme a quanto appena riportato, anche nella sentenza di secondo grado n. 2731/04/2014 del 6 maggio 2014, successiva all’appena menzionata sentenza n. 198/20/2012, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio ha avuto modo di confermare, ancora una volta, che il rilievo che l’Amministrazione “solleva in relazione a detta operazione, è che l’alienazione degli immobili alle società di leasing al prezzo di 150.000.000,00 solo venti giorni dopo l’acquisto di detti immobili per il valore di € 118.350.000,00 ha costituito <una sopravalutazione sproporzionata degli stessi rispetto al valore di mercato e tale da far presumere l’intenzione di dissimulare altri rapporti ossia a far ritenere ulteriori disponibilità finanziarie al gruppo…. [di società] rispetto a quelle necessarie per riacquistare il bene, prescindendo dall’effettivo valore dello stesso. Il giudice di primo grado ha ampiamente affrontato la questione della legittimità giuridica del lease-back che la Suprema Corte ha ritenuto, dopo alcuni tentennamenti, sussistere in quanto, nella sua configurazione di vendita di un bene strumentale dell’impresa e contestuale concessione in leasing dall’acquirente concedente al venditore utilizzatore, risponde alla specifica esigenza delle attività imprenditoriali di potenziare i fattori produttivi di natura finanziaria, ottenendo immediata liquidità mediante la alienazione di propri beni strumentali, con facoltà di conservarne l’uso e riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. Pertanto, l’operazione di lease–back realizzata dalla….[società] appare legittima, in quanto è finalizzata a potenziare le proprie capacità finanziarie attraverso la cessione di un bene strumentale del quale ha interesse a mantenere la disponibilità e ad effettuare il riacquisto. La determinazione del prezzo è stata effettuata attraverso una perizia da parte di società qualificata, che ha determinato il valore del bene. Il contratto di leasing, della durata di 15 anni (la durata del contratto è uno degli indici presi in considerazione dal giudice di legittimità), indica i canoni dovuti ed il prezzo di opzione. L’Ufficio, d’altronde, non ha individuato fattori di strumentalità dei canoni pattuiti; tanto che la ripresa a tassazione viene fatta in forma percentuale sui canoni previsti, in relazione alla discrasia tra il prezzo di acquisto degli immobili e lo sproporzionato prezzo di vendita. Deve pertanto confermarsi la piena legittimità di tutta l’operazione di lease-back posta in essere, sia sotto il profilo del valore della cessione, sia sotto quello, peraltro non contestato, della coerenza dei canoni di locazione sostenuti dalla società appallata. Infatti la prima cessione (cioè quella avvenuta al prezzo di e 118.350,00) era funzionale alla richiesta delle società di leasing interessate all’operazione che avevano ritenuto, come condizione necessaria, che la proprietà degli immobili fosse in capo al medesimo soggetto titolare del debito garantita da ipoteca sugli stessi. L’aver concordato con le società acquirenti in € 150.900.000,00 il prezzo della cessione, ha peraltro determinato una plusvalenza che ha concorso a formare il reddito dell’appellata e come tale è stato tassato. Di contro la società si è creata costi deducibili, rappresentati dai canoni di locazione, per l’arco temporale della durata del contratto[8].

In conclusione, le cennate sentenze della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma appaiono pienamente condivisibili, e ad avviso di chi scrive rappresenteranno un eccellente strumento di difesa – soprattutto processuale – contro quelle azioni fortemente illegittime e lesive dei diritti del contribuente con cui l’Amministrazione finanziaria contesta, sempre più spesso, in verità, l’esistenza di un comportamento elusivo/abusivo attuata attraverso operazioni di leasing immobiliari volte a dissimulare un presunto finanziamento occulto.

In termini più pratici, allorquando il contribuente, nell’ambito di una operazione simile a quella analizzata, si veda notificato un avviso di accertamento con cui l’Amministrazione finanziaria recuperi a tassazione i costi dedotti per i canoni di leasing sostenuti, con l’accertamento di una maggiore IRES ed IRAP nonché accerti un importo a titolo di indebita detrazione dell’IVA, potrà contestare a gran voce e con rigore l’operato dell’Ufficio adducendo la piena legittimità dell’operazione stessa come sancita con orientamento univoco dalle Corti romane.

Note

[1] Cfr. Sent. Cass. n. 9944/2000.

[2] Cfr. Sent. C.T.P. Roma nn. 23099/11/14, 23100/11/14 e 23101/11/14.

[3] Cfr. Sent. Cass. n. 6663/97.

[4] Cfr. Sent. Cass. n. 4612/98.

[5] Cfr. Sent. Cass. n. 11599/2007.

[6] Cfr. Sent. C.T.R. Roma n. 330/22/15.

[7] Cfr. Sent. C.T.P. Roma n. 198/20/2012.

[8] Cfr. Sent. C.T.R. Lazio n. 2731/04/2014.

(di Paolo Ceresa e Francesco Zappia)

1. Fonti normative

Il regime di iva per cassa è stato introdotto con l’art. 7 del D.L. 29/11/2008 n. 185 convertito nella legge 28/01/2009 n. 2.

Tale regime, inizialmente previsto per i soggetti passivi con volume d’affari non superiore a 200.000,00 euro, è stato esteso ai soggetti con volume d’affari non superiore a 2.000.000,00 di euro con l’art. 32 bis del D.L. 22/06/2012 n. 83 convertito dalla legge 7 agosto 2012, 134   e con le successive norme attuative emanate con il D.M. 11/10/2012 del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

2. La normativa e le procedure concorsuali

Nell’articolo di recente pubblicato in questa rubrica sono state riassunte le disposizioni Iva in materia di emissione delle note di variazione Iva in caso di applicazione di una procedura concorsuale al debitore.

Si intende qui analizzare il caso relativo alla posizione del cedente del bene o del prestatore del servizio in regime Iva per cassa che non introita la fattura emessa in quanto il suo debitore viene assoggettato a procedura concorsuale.

Va preliminarmente ricordato che nel regime iva per cassa l’emittente della fattura beneficia della esigibilità differita dell’imposta in base alla quale l’obbligo di versamento nasce non in relazione al mese o trimestre di appartenenza della fattura ma in base al periodo di incasso della stessa, fermo restando il limite massimo previsto di un anno da conteggiarsi dall’esecuzione dell’operazione, alla scadenza del quale l’imposta va comunque versata anche nel caso in cui la fattura non dovesse ancora essere stata pagata.

Nulla questio nel caso di assoggettamento a procedure concorsuali dei debitori intervenute dopo l’anno citato. In tal caso l’iva da parte del cedente o prestatore del servizio è già stata liquidata e versata e il creditore viene a trovarsi esattamente nella stessa posizione del cedente che non applica il regime dell’Iva per cassa e che dovrà usare l’accortezza di insinuarsi nella Procedura e attendere per l’emissione della nota di variazione Iva i termini richiesti dalla normativa per dare certezza (cfr. circolare ministeriale n. 77/E de 17/04/2000) alla irrecuperabilità del tributo (e, quindi, dalla scadenza del termine per proporre osservazioni al decreto di esecutività del riparto finale -art 110 L.F.- o dalla scadenza del termine per il reclamo del decreto di chiusura del fallimento per insufficienza di attivo prima della formulazione dello stato passivo (art. 102 L. F.).

Se, invece, la procedura interviene prima della scadenza dell’anno il creditore potrà beneficiare di un effetto per così dire “allungato” dell’Iva per cassa, rimanendo l’esigibilità sospesa fino allo incasso per esecuzione del riparto.

Nel caso in cui, in sede di riparto, il creditore non trovasse soddisfazione, così come avviene alla scadenza dell’anno sopra citata nel caso del debitore in bonis, la sospensione cesserà e l’iva diverrà esigibile per l’Erario.

Ferma rimane in tal caso, comunque, la normativa di cui all’art. 26 del Dpr. 633/72 in base alla quale potrà essere emessa nota di variazione per il recupero dell’Iva non incassata dalla procedura e, per evitare il suo versamento, dovrà essere emessa nel medesimo periodo di liquidazione in cui si inserisce il debito Iva.

Va ricordato, infine, che il termine ultimo per l’emissione della nota di credito rimane quello previsto nell’art. 19, 1° c. del dpr 633/72 ossia entro il secondo anno successivo a quello nel quale è sorto il diritto alla detrazione. Non essendoci infatti un altro termine specifico relativo al diritto di emissione della nota di variazione, quest’ultimo dovrebbe essere quello da prendere come riferimento almeno prudenziale.

A tal proposito occorre considerare che il Decreto Legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali (Decreto Semplificazioni 2014) modifica il terzo comma dell’art. 26 del Dpr 633/72, riconoscendo l’estensione oltre l’anno previsto per le variazioni in diminuzione anche alle ipotesi di accordo di ristrutturazione dei debiti (di cui all’art. 182 bis L.F.) e in caso di piano attestato di risanamento pubblicato presso il Registro delle Imprese (art. 67, 3° c., lett. d).

Va anche per completezza sottolineato che, a causa di un mancato coordinamento del Decreto Semplificazioni citato tra la normativa delle imposte dirette e la normativa Iva (auspicabile nel prossimo futuro), è oggi possibile dedurre dal reddito le perdite su crediti derivanti da crediti di modesta entità senza rigorose prove formali (quindi anche in assenza di elementi certi e precisi), ma non è possibile recuperare l’Iva su tali crediti, non essendoci in tal caso una normativa ad hoc.

Occorrerà, pertanto, anche per tali crediti, sia per i creditori in regime di Iva per cassa sia per i creditori in regime normale, insinuarsi nella Procedura concorsuale al fine di beneficiare del trattamento previsto appunto nel 2° c. dell’art. 26 Dpr. 633/72.

3. Conclusione per “i non addetti ai lavori”

Molta attenzione devono porre, quindi, i creditori, sia in regime di Iva per cassa che in regime normale, ai presupposti essenziali per la recuperabilità del credito iva da rivalsa relativo ad un debitore sottoposto a procedure concorsuali, o ad un accordo di ristrutturazione, o ad un piano attestato di risanamento e, in particolare, occorrerà:

1)      effettuare l’insinuazione al passivo della Procedura concorsuale, indipendentemente dal valore del credito;

2)      attendere l’evolversi della Procedura in modo tale che diventi definitiva la certezza della irrecuperabilità del credito;

3)      emettere la nota di credito prudenzialmente entro due anni dalla data in cui sarà risultata certa l’irrecuperabilità del credito.

(di Debora Mirarchi)

Di recente la Corte di Cassazione ha sciolto diversi dubbi, dai risvolti anche pratici, in merito alle modalità per chiedere il rimborso dell’IVA non detratta sugli acquisti, sulla manutenzione e sulla gestione di autoveicoli, e motocicli di cui all’art. 19 bis 1, comma 1, lett. c) del D.P.R. 29 ottobre 1972, n. 633, e sui servizi di telefonia mobile ai sensi della lett. d) del medesimo articolo.

Le deroghe in parola come qualsiasi altra deroga al diritto di detrazione dell’IVA d cui all’art. 19 delD.P.R. n. 633/72, trovavano la loro giustificazione in ragioni di natura congiunturale che, in quanto tali, avrebbero dovuto avere efficacia temporanea.

Così, invece, non è stato!

Attraverso la previsione di una serie di proroghe le limitazioni in parola, di fatto, hanno assunto carattere di stabilità.

La svolta si è avuta con la Commissione provinciale di Trento che dubitando della legittimità di tali limitazioni, ai sensi dell’art. 234 Trattato CE, con ordinanza 21 marzo 2005, ha sollevato la relativa questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee che con la sentenza 14 settembre 2006, causa C-228/05, in Foro it. 2006, 481 ha dichiarato l’incompatibilità delle limitazioni de quibus rispetto ai dettami europei.

Gli effetti di tale pronuncia sono stati immediati.

Il Governo al fine di “congelarli” almeno temporaneamente, il 15 settembre 2006 (il giorno successivo rispetto alla decisione della Corte di Giustizia) ha emanato il D.L. n. 258/2006 con cui ha rinviato il diritto di detrarre l’IVA sui acquisti in oggetto e previsto una procedura ad hoc per il rimborso dell’imposta che prevede la presentazione di apposita istanza correlata da specifica documentazione.

Sull’applicabilità di tale decreto sono sorti diversi contenziosi.

Da una parte l’Agenzia delle Entrate tentava di attribuire al decreto in parola efficacia retroattiva (mai prevista espressamente dal Legislatore e, quindi, in contrasto con il principio di irretroattività della disciplina tributaria ai sensi dell’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente) al fine di disconoscere il rimborso per tutti quei contribuenti che avevano presentato istanza e, a volte, anche successivo ricorso prima dell’entrata in vigore del decreto, dall’altra i contribuenti che per anni si erano visti negare il diritto di detrarre l’IVA, difendevano tale diritto di poter ottenere il rimborso dell’imposta.

La tesi più volte sostenuta dai vari Uffici, chiamati in giudizio dai contribuenti, può essere così sintetizzata: poiché il diritto alla detrazione dell’Iva con riferimento agli acquisti de quibus deriva dalle modifiche intervenute sull’art. 19 bis 1, del D.P.R. n. 633/72, a seguito della sentenza della Corte di Giustizia, il contribuente, che ha già presentato l’istanza prima dell’entrata in vigore del decreto, al fine di ottenere il rimborso dell’IVA non detratta, è tenuto a ripresentare una nuova istanza corredata da tutta la documentazione prevista dal citato decreto, pena il disconoscimento del rimborso.

Sul punto è intervenuta, di recente, la Corte di Cassazione che ha chiarito che “il diritto alla detrazione, al pari del corrispondente diritto al rimborso della eccedenza di imposta, è direttamente disciplinato dalle norme della direttiva comunitaria e rinviene il proprio fatto generatore esclusivamente nella effettuazione di una delle operazioni considerate imponibili dalla legge (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 28.6.2012 n. 10808), insorgendo il diritto nel momento stesso in cui diviene esigibile la imposta applicata sulla cessione di beni prestazione di servizi” (Cass., sez. V, 14 febbraio 2014, n. 3456).

Da ciò deriva che “la circostanza che sia la richiesta di rimborso Iva sia il ricorso al giudice tributario siano stati presentati anteriormente all’entrata in vigore del D.L. n. 258, porta ad escludere l’applicabilità della normativa sopravvenuta limitatamente alle formalità prescritte per l’ammissibilità della domanda” (Cass. civ., sez. V, 2 aprile 2014, n. 7641).

(di Pietro Pavone)

L’IVA si contrappone in maniera radicale a quello che era il disegno della imposta che l’aveva preceduta.

L’imposta su cui si è fondata l’imposizione indiretta sui consumi nel nostro sistema tributario per oltre tre decenni è stata l’imposta generale sulle entrate (IGE).

L’IGE aveva una doppia faccia: in effetti, pur essendo un’imposta proporzionale ad aliquote differenziate e generalmente basse (l’aliquota ordinaria era del 4 %) colpiva il bene o il servizio in ogni fase del processo produttivo o distributivo e gravava sull’intero valore che la merce assumeva in ogni passaggio (produttore – grossista, grossista – dettagliante, ecc.).

Pertanto, aveva effetti cumulativi dal momento che colpiva in ogni fase del ciclo l’intero ammontare dell’entrata (prezzo, spese di trasporto, di imballaggio, tasse, ecc.), incluso l’importo del tributo pagato in tutti i passaggi precedenti.

L’imposta così congegnata produceva vantaggi e svantaggi:

  • forniva all’Erario un gettito elevato, ma con aliquote moderate;
  • il metodo di calcolo era semplice (per il contribuente che lo applicava ma anche in vista dell’accertamento da parte del Fisco);
  • induceva le imprese a limitare al massimo il numero di passaggi, cercando di includere all’interno della loro organizzazione la quasi totalità dei passaggi produttivi, a favore della competitività dei loro prodotti;
  • allo stesso tempo, però, impediva alle piccole imprese (quelle che non potevano permettersi di gestire al loro interno varie fasi del ciclo) di essere competitive;
  • non era neutra, con evidente danneggiamento del consumatore;
  • non era trasparente (non era possibile stabilire il numero dei passaggi del bene) non consentendo di sapere quanta imposta fosse inclusa nel prezzo finale.

Evidentemente, visti gli inconvenienti di un’imposta così strutturata, si arrivò all’abrogazione dell’IGE.

Con la riforma fiscale degli anni ‘70 nasce l’Imposta sul Valore Aggiunto.

L’IVA è un’imposta indiretta neutrale (in quanto grava sul consumatore finale nella stessa misura, indipendentemente dal numero di passaggi che intervengono lungo il processo produttivo/distributivo o di commercializzazione) e non ha effetti cumulativi (non ha effetti “a cascata”, nel senso che non ricade su se stessa) e quindi è calcolata solo sul valore aggiunto che man mano si crea nei vari passaggi (ed è questo il più grande pregio dell’ IVA).

La disciplina dell’IVA è strutturata in modo tale che lo scambio di beni all’interno della Comunità tra soggetti d’imposta sia esente nello Stato membro d’origine dei beni e sia invece soggetto a tassazione nello Stato membro di destinazione.

Questo meccanismo dell’esenzione espone il sistema dell’IVA alla frode e in particolare a quella tipologia di frode intracomunitaria che va sotto il nome di “frode carosello”.

Tutto si concentra intorno al principio della detrazione.

La neutralità dell’IVA è assicurata tramite il meccanismo della detrazione, particolare situazione soggettiva non presente in alcuna altra imposta che segna appunto la differenza tra una imposta cumulativa (l’IGE) e una imposta plurifase sul valore aggiunto (l’IVA).

Prima del ‘97 la detrazione era riconosciuta sulla base dell’inerenza dell’acquisto. C’era un giudizio immediato (si verificava se il bene rientrasse o meno nel contesto dell’attività dell’impresa).

Dopo quella data si impone un giudizio di prospettiva, a posteriori sull’inerenza dell’acquisto; ciononostante l’operatore economico è nelle condizioni di esercitare immediatamente il diritto di detrazione (all’atto dell’acquisto).

Esiste, dunque, un elemento di provvisorietà della detrazione che è applicata subito (principio dell’immediatezza della detrazione), salvo riconoscimento a posteriori dell’amministrazione finanziaria.

Questa forbice temporale della detrazione è campo fertile per eventuali intenti di frode.

La frode carosello si snoda proprio sull’abusivo diritto di detrazione.

Poiché questi tipi di frode sono strutturati in modo piuttosto complesso e coinvolgono diversi Stati membri e varie società in ciascuno Stato membro, si rende necessario che gli strumenti comunitari di cooperazione amministrativa siano efficaci e che i sistemi di controllo nazionali siano adeguati rispetto a tali problematiche.

L’efficienza del contrasto alle frodi deve essere raggiunta a livello nazionale ed estendersi oltre i confini di ogni Stato membro attraverso gli strumenti della cooperazione.

Tra gli illeciti che hanno maggiormente inciso sul bilancio pubblico primeggia quello comunemente noto come “frode carosello”, espressione legata alla naturale propensione della struttura stessa dell’illecito, tesa ad originare andamenti ciclici di operazioni “truffaldine” attraverso il commercio di beni, di massima ad alto costo unitario e   facilmente trasportabili

(in specie, i settori maggiormente interessati sono quelli dell’alta tecnologia, come computers, componenti per prodotti informatici, telefoni cellulari, del commercio delle carni fresche e degli animali vivi, oltre che quello delle autovetture).

Non esiste una definizione precisa di quelle che vengono giornalisticamente definite frodi carosello, tuttavia ci si può rifare, per inquadrare il concetto, ad una definizione della Corte dei Conti europea che definisce la frode carosello come “una serie di operazioni commerciali riguardanti le stesse merci in un periodo relativamente breve che abusino delle caratteristiche del sistema di riscossione dell’ imposta sul valore aggiunto”.

Per comprendere la sostanza del problema si voglia partire da questa premessa: le norme europee sull’IVA stabiliscono che nelle cessioni intracomunitarie, il venditore emette la fattura ma senza applicare l’imposta (l’operazione non è imponibile).
L’acquirente, invece, deve integrare manualmente la fattura calcolando e applicando l’imposta, e registrandone l’importo sia a credito che a debito: dal suo punto di vista, dunque, l’operazione rimane neutrale, ma il bene acquistato è stato comunque “ivato” e quindi potrà circolare senza particolari complicazioni nei successivi passaggi commerciali.

Dal momento che il fenomeno è stato sempre molto diffuso nel settore automobilistico, supponiamo che il bene ceduto sia un’automobile, che il venditore A (francese) voglia vendere all’acquirente B (italiano) per 18.000 euro. Agendo regolarmente, B dovrebbe “ivare” il bene con l’aliquota – per ipotesi – del 20%, cioè a 3.600 euro.

Fra il cedente e il cessionario si frappone però, un terzo intermediario, C (italiano), in accordo con entrambi, o, talvolta, con uno solo di essi. Così, A vende a C l’automobile a 18.000 euro (senza IVA, poiché operazione non imponibile), e C la rivende poi a B per 21.600 euro Iva inclusa (18.000 + 3.600), essendo quest’ultima una cessione fra due operatori italiani.

Dopodiché, C scompare nel nulla: si tratta, in genere, di piccoli faccendieri che operano frodi in massa per qualche mese e fanno poi perdere le tracce.

I risultati sono evidenti: per A non ci sono sostanziali effetti, mentre B avrà sostenuto esattamente il costo previsto e potrà scaricarsi tranquillamente l’IVA sull’acquisto. E, soprattutto, i 3.600 euro di imposta resteranno per sempre nelle “tasche” di C.

L’effetto patologico di una frode carosello è – si intuisce – duplice:

  • uno, più immediato, per il quale l’ Erario subisce una emorragia di gettito;
  • uno per effetto del quale viene drogata la competitività del mercato: i prodotti diventano molto più appetibili dal punto di vista del prezzo perché lucrano sull’ IVA non pagata, per cui i produttori onesti risultano soccombenti perché non sono in grado – e non potrebbero esserlo – di praticare prezzi aggressivi come quelli che pratica l’operatore economico che si avvantaggia dell’IVA non pagata.

(di Mauro Merola)

1. Introduzione

Il commercio elettronico (i.e., e-commerce) continua a far registrare, ormai da alcuni anni, evidenti segnali di crescita. Di notevole rilevanza, dunque, la gestione fiscale di tali operazioni.

In via preliminare, si rende necessario distinguere tra commercio elettronico diretto e commercio elettronico indiretto. Detta distinzione acquista rilevanza esclusivamente in base alle modalità di consegna del bene o prodotto finale.

Nel caso di commercio elettronico diretto, infatti, tutta la transazione commerciale (acquisto, cessione e consegna) avviene per via telematica, attraverso la fornitura in rete di prodotti virtuali. Tale settore si caratterizza in ragione del fatto che i servizi (es. software) vengono dematerializzati alla partenza dal prestatore e materializzati all’arrivo dal destinatario (download).

Nel commercio elettronico indiretto, invece, la transazione (accordo e pagamento) avviene per via telematica, ma la consegna del bene avviene “tradizionalmente”; si tratta pertanto di una normale cessione di beni, così come stabilito dalla stessa Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 133/E del 2004, in cui Internet viene definito “un canale alternativo di offerta”.

2. E-commerce diretto

Ai fini Iva, le operazioni che rientrano nel commercio elettronico diretto sono considerate servizi. Di conseguenza, la territorialità delle prestazioni di servizi è definita con le seguenti modalità:

  • per le prestazioni B2B rileva la sede del committente (art. 7 -ter, co. 1, lett.a), D.P.R. 633/1972);
  • per le prestazioni B2C rileva la sede del prestatore (art. 7- ter, co. 1, lett.b), D.P.R. 633/1972).

A tale regola seguono svariate deroghe raggruppabili in due macroclassi:

  • deroghe assolute: si applicano a determinate prestazioni di servizi indipendentemente se B2B o B2C quali servizi di ristorazione e catering (per cui ai fini della territorialità rileva il luogo di esecuzione) o trasporto passeggeri (per cui ai fini della territorialità rileva la distanza percorsa nel territorio di un dato Stato);
  • deroghe relative: si applicano solo in casistiche B2C quali trasporto di beni intraUE (per cui ai fini della territorialità rileva il luogo di inizio trasporto) o prestazioni bancarie e assicurative (per cui ai fini della territorialità rileva il luogo di stabilimento del committente se questo è extraUE).

Fatte queste brevi premesse normative, si propone una tabella della varie operazioni distinguendo a seconda che il prestatore sia un soggetto passivo italiano, UE o extra – UE:

tab1

A differenza del commercio elettronico indiretto, per il commercio elettronico diretto non esistono              norme derogatorie per la fatturazione. Dunque, per le cessioni effettuate da soggetti passivi Iva stabiliti in Italia, l’operazione dovrà essere regolarmente fatturata (artt. 21 e 22, DPR 633/1972).

Sulla base di quanto detto precedentemente, è possibile identificare di seguito una serie di casi:

  • Caso 1: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto passivo residente o stabilito in Italia. Ai sensi dell’art. 7 ter DPR 633/72 il luogo di tassazione è l’Italia;
  • Caso 2: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto passivo residente o stabilito in UE. Prestazione non territoriale in Italia. Il prestatore effettua un’operazione fuori campo art. 7 ter DPR 633/72, non addebita l’imposta al cessionario. Il committente soggetto passivo assolverà l’imposta tramite reverse charge;
  • Caso 3: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto passivo residente o stabilito in extra-UE. Operazione non territoriale in Italia, il prestatore effettua un’operazione fuori

campo art. 7 ter DPR 633/72 e non addebita l’imposta al cessionario;

  • Caso 4: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto privato residente o stabilito in Italia. Operazione territoriale in Italia ai sensi dell’ art. 7 ter DPR 633/72 (luogo del prestatore);
  • Caso 5: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto privato residente o stabilito in UE. Operazione territoriale in Italia ai sensi dell’ art. 7 ter DPR 633/72 (luogo del prestatore);
  • Caso 6: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto privato residente o stabilito in extra-UE. Operazione non territoriale in Italia. Per effetto della deroga al principio generale (i.e., articolo 7-ter, comma 1, lettera b D.P.R. 633/1972) di cui all’ art 7 co. 1, lett. i), D.P.R. 633/1972, non si considerano effettuati nel territorio dello Stato i servizi prestati per via elettronica quando resi a committenti non soggetti passivi domiciliati e residenti extra-UE;
  • Caso 7: prestatore stabilito in UE, committente soggetto passivo residente o stabilito in Italia / prestatore stabilito in extra-UE, committente soggetto passivo residente o stabilito in Italia. Ai sensi dell’art. 7 ter DPR 633/72 nei rapporti B2B il luogo di tassazione è quello del committente (Italia). Il committente, soggetto passivo Iva, assolverà l’imposta mediante inversione contabile;
  • Caso 8: prestatore stabilito in UE, committente soggetto privato residente o stabilito in Italia. Ai sensi dell’art. 7 ter DPR 633/72 nei rapporti B2C il luogo di tassazione è quello del prestatore, operazione non territoriale in Italia, il prestatore emette fattura addebitando l’imposta calcolata secondo l’aliquota prevista nel proprio Paese;
  • Caso 9: prestatore stabilito in extra-UE, committente soggetto privato residente o stabilito in Italia. Ai sensi dell’art. 7 sexies DPR 633/72 si considerano effettuate in Italia prestazioni rese a committenti non soggetti passivi Iva, operazioni territorialmente rilevanti, quindi, imponibili in Italia. Si applica in questo caso, tuttavia, una deroga alla regola generale che considera tali operazioni non rilevanti in Italia ex art. 7- ter, co. 1, lett. b), D.P.R. 633/1972.

In relazione alla fattispecie descritta nel caso 9 di cui sopra, allo scopo di agevolare le imprese extra Ue nell’applicazione dell’Iva sui servizi di e-commerce resi a consumatori Ue e di evitare la loro identificazione in ciascuno Stato membro in cui sono stabiliti i destinatari delle prestazioni, è stato previsto un regime speciale che consente l’identificazione e l’esecuzione degli adempimenti in un solo Stato (c.d. sportello unico), disciplinato dagli artt. 357 e seguenti della direttiva Iva e recepito in Italia dall’art. 74-quinquies del D.P.R. 633/72.

Con il regolamento di esecuzione (UE) n.1042/2013 del 7 ottobre (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 26 ottobre 2013), il Consiglio dell’Unione europea ha disposto modifiche normative al precedente regolamento comunitario n. 282/2011 del 15 marzo 2011, per quanto riguarda il luogo delle prestazioni di taluni servizi (quali i servizi di telecomunicazione, tele radiodiffusione ed i servizi erogati tramite mezzi elettronici, destinati a persone prive dello status di soggetti passivi ai fini Iva).

A decorrere dal 1° gennaio 2015, infatti, in deroga alla regola generale, le prestazioni si considereranno effettuate nel Paese in cui è stabilito il committente, con facoltà per gli Stati membri di avvalersi, però, anche del criterio del luogo di utilizzazione; in sostanza, fatta salva tale facoltà, viene adottato anche negli scambi B2C il principio di tassazione a destinazione previsto per le prestazioni B2B (i.e., il nuovo testo degli artt. 58 e 59 della direttiva). Attraverso la suddetta misura, cesseranno gli effetti distorsivi connessi alle divergenze delle aliquote Iva che finora hanno favorito i fornitori stabiliti nei Paesi con le aliquote più basse, perché i consumatori pagheranno in ogni caso l’Iva nella misura prevista nel Paese in cui sono domiciliati, indipendentemente dal luogo in cui è stabilito il fornitore[1].

Inoltre, sempre a partire da tale data, il regime speciale dello sportello unico sarà esteso, in via opzionale, anche alle imprese comunitarie.

3.E-commerce indiretto

Il commercio elettronico indiretto si configura come una cessione di beni, come disciplinato dall’art. 7 bis del DPR 633/72 (i.e., la territorialità delle cessioni di beni) e dagli artt. 38 e 40 del DL 331/93 (i.e., le operazioni intracomunitarie). L’unica particolarità rispetto ad una cessione di beni tradizionale è rappresentata dalle modalità di consegna del bene, come già ampiamente riportato nell’introduzione dell’articolo.

Fatte queste brevi considerazioni preliminari, passiamo ad analizzare le cessioni poste in essere da un cedente soggetto passivo Iva in Italia, distinguendo a seconda che l’acquirente sia:

  • un soggetto passivo o un privato;
  • distinguendo ulteriormente, a seconda della nazionalità dell’acquirente (italiano, comunitario, extra comunitario).

Nel caso di acquirente italiano, non sussistono particolari profili di criticità dell’operazione. Nel caso di vendite che avvengono “Italia su Italia” si applicano le disposizioni previste dall’art. 2 del D.P.R. 633/72 che disciplinano

le cessioni di beni; l’operazione, dunque, sarà territorialmente rilevante in Italia ed il cedente dovrà applicare l’imposta nei modi ordinari, con l’aliquota propria del bene ceduto.

La vendita tramite commercio indiretto, configurando una vendita per corrispondenza, determina due importanti conseguenze:

  1. nel caso di acquirente privato non è obbligatoria l’emissione della ricevuta fiscale o dello scontrino o della fattura;
  2. nel caso di soggetto passivo Iva l’emissione della fattura non è obbligatoria, salvo che la stessa non venga richiesta.

Nel caso di acquirente comunitario sarà necessario distinguere se si tratti di un privato o di un soggetto passivo.

Nella prima ipotesi, saranno applicabili alle cessioni le norme previste per le vendite a distanza. Di conseguenza, se il cedente residente – sia nell’anno precedente che in quello in corso – avrà effettuato, nello Stato membro in cui risiede il cliente, vendite a distanza di ammontare inferiore a 100.000 euro, le cessioni saranno imponibili in Italia, salvo opzione da parte del cedente italiano per l’applicazione dell’Iva nello Stato di destinazione. Al contrario, se l’ammontare delle vendite nell’altro Stato membro risultasse superiore alla soglia in questione, il soggetto italiano dovrà nominare un rappresentante fiscale nello Stato estero ovvero identificarsi direttamente nell’altro Stato ai fini dell’assolvimento dell’Iva.

Nel caso in cui le cessioni siano effettuate nei confronti di soggetti passivi Iva, l’operazione seguirà le normali regole delle cessioni intracomunitarie ex. art. 41, D.L. 331/1993; l’operazione, inoltre, dovrà essere fatturata con la dicitura “non imponibile” e riportata nei modelli INTRA.

Nel caso di acquirenti extra – comunitari, infine, si dovranno seguire le normali regole Iva previste dall’art. 8, D.P.R. 633/1972, per le esportazioni, ovvero fatturando le operazioni come “non imponibili”.

Note

[1] Cfr. Ricca F. (24/03/2014), ITALIA OGGI, “IVA sull’e-commerce: in arrivo una rivoluzione copernicana”, p. 9.

(di Debora Mirarchi)

Con il numero di marzo della Rivista[1] è stato approfondito l’ambito di applicazione e i risvolti del nuovo diritto alla rivalsa dell’IVA accertata, previsto dal novellato art. 60, comma 7, del D.P.R. n. 633/72, anche alla luce dei chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con la circolare del 17 dicembre 2013, n. 35/E.

Giova ribadire che il vigente art. 60 del D.P.R. n. 633/72, profondamente modificato dall’art. 93 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. Decreto liberalizzazioni), afferma il diritto del cedente/prestatore di rivalersi, nei confronti del cessionario/committente, dell’imposta dovuta sulla base di avvisi di accertamento o di rettifica.

In buona sostanza, la norma citata consente al cedente/prestatore, destinatario di un avviso di accertamento in materia IVA, con cui sia stata contestata, ad esempio, l’errata applicazione dell’aliquota IVA o la non rilevanza ai fini IVA dell’operazione sottesa, di addebitare al cliente la maggiore imposta accertata.

A chiarire l’efficacia temporale della norma de qua ci ha pensato l’Agenzia delle Entrate, che con la circolare n. 35/E del 2013, ha affermato che “l’articolo 60, settimo comma, del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, così come modificato dall’articolo 93 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, si applica agli accertamenti divenuti definitivi successivamente alla sua entrata in vigore (24 gennaio 2012)”.

La data del 24 gennaio 2012 funge, secondo l’Agenzia delle Entrate, da spartiacque ai fini dell’applicabilità della novella: la nuova disciplina trova, infatti, applicazione soltanto per tutti gli atti impositivi divenuti definitivi dopo tale data.

A pochi mesi dall’emissione della citata circolare, la Commissione tributaria regionale di Bolzano con la sentenza n. 40/1/2014 smentisce la posizione sostenuta dalla Agenzia delle Entrate, affermando l’opposto principio in base al quale il diritto alla rivalsa dell’IVA o della maggiore IVA accertata deve trovare applicazione anche in ipotesi in cui l’eventuale atto impositivo sia divenuto definitivo prima del 24 gennaio 2012.

La questione sottoposta al giudizio dei giudici aveva ad oggetto un avviso di accertamento relativo al periodo di imposta 2007, con cui era stata contestata l’errata applicazione dell’aliquota IVA (10% anziché 20%). L’atto impositivo era, però, divenuto definitivo, per effetto dell’acquiescenza prestata dal contribuente, prima del 24 gennaio 2012.

Quest’ultimo aveva, dunque, addebitato l’IVA nei confronti del suo cliente e emesso la relativa nota di variazione. L’Ufficio, nel frattempo, aveva iscritto a ruolo i maggiori importi IVA definiti dal contribuente e da questo versati al Fisco.

Il contribuente aveva poi impugnato il predetto ruolo emesso dall’Ufficio.

L’Ufficio resisteva in giudizio opponendosi all’esercizio del diritto di rivalsa nel caso oggetto di giudizio perché l’atto impositivo era diventato definitivo prima della data fatidica del 24 gennaio 2012.

La controversia giunge sino al secondo grado innanzi ai giudici della Commissione tributaria regionale di Bolzano che, ponendosi in netta antitesi con l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate, ha affermato che il diritto di rivalersi della maggiore Iva accertata deve ritenersi applicabile in via retroattiva anche in ipotesi in cui la definitività dell’atto sia da collocarsi temporalmente prima del 24 gennaio 2012.

La motivazione posta a fondamento del decisum risiede, secondo i giudici, nella naturale retroattività insita nella norma dovuta al principio del favor rei.

I giudici, dopo aver ricordato che la novella normativa è stata dettata dalla necessità di chiudere la procedura di infrazione n. 2011/4081, instaurata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia, hanno ritenuto che il principio del favor rei, fosse applicabile anche alle ipotesi disciplinate dall’articolo in parola e dovesse ritenersi prevalente tanto da giustificare l’applicabilità della norma in via retroattiva.

Secondo i giudici della Commissione, quindi, non è il principio di neutralità dell’Iva a legittimare l’applicazione retroattiva ma un altro e ben diverso (per presupposti ed effetti) principio del favor rei.

Pur non potendosi considerare risolutiva sul punto è indubbio che alla citata sentenza deve riconoscersi il coraggio di aver affermato il diritto di rivalsa anche a discapito dell’esigenza, da sempre anteposta ad opposti interessi, di garantire in termini di certezza i rapporti giuridici sorti.

[1] Sul punto D. Mirarchi, La rivalsa dell’IVA accertata, in in Economia e Diritto, Novembre 2013. in Economia e Diritto, Novembre 2013.EconomiaeDiritto, Marzo 2014

(di Debora Mirarchi)

1. Introduzione

L’art. 93 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. Decreto liberalizzazioni) ha riscritto il comma 7 dell’art. 60 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, introducendo il diritto del cedente/prestatore di rivalersi nei confronti di cessionari di beni/committenti di servizi, dell’imposta o della maggiore imposta pagata a seguito di un avviso di

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