Diritto

L'abuso del diritto tributario

di Mariella Orlando

L’obiettivo della minimizzazione del carico di imposta è sicuramente una problematica comune a molti ordinamenti tributari, intendendo per tale  quel comportamento del contribuente finalizzato al mero risparmio di imposta.

Il contribuente, infatti, sicuramente ha diritto di regolare i propri rapporti economici stabilendo le strategie per limitare e comunque contenere il peso impositivo, in virtù del principio di autonomia negoziale o contrattuale.

Il tema dell’ abuso del diritto[1] -da sempre stato oggetto di studi  ed approfondimenti[2] – sia dai cultori del diritto civile che si sono occupati delle questioni legate alla frode alla legge ex art. 1344 c.c.,  sia i cultori del diritto tributario, che si sono occupati dello sfuggente fenomeno dell’elusione fiscale.

Per abuso di diritto, secondo la migliore dottrina, si intende un comportamento apparentemente conforme al contenuto di una posizione giudica soggetta attribuita dall’ordinamento, ma, in realtà, in contrasto con la ragione sostanziale posta a fondamento di tale attribuzioni: per cui mentre in apparenza si esercita legittimamente un diritto, in realtà si entra in contrasto con le ragioni della lettera della norma e tradimento del suo spirito.

Fino a pochi anni fa l’elusione era guardata come un’attività (giuridicamente) lecita ed insuscettibile di censura. Si leggeva infatti comunemente nei manuali che “l’elusione può essere definita come una forma di risparmio fiscale che è conforme alla lettera, ma non alla ratio delle norme tributari; essa è giuridicamente irrilevante se l’ordinamento non la prende in considerazione e non appresta alcun rimedio. Infatti l’elusione assume rilievo solo se l’ordinamento consente all’Amministrazione finanziaria di reagire”. Ed ancora che “ è rimesso al legislatore il compito di individuare, in via generale ed astratta, le fattispecie sintomatiche di elusione” e che” il contrasto dell’elusione è stato affidato a discipline puntuali, aventi ad oggetto ipotesi ben individuate e riferite a fattispecie delimitate”.

Nel nostro ordinamento, infatti, a differenza di alcuni Paesi, non esiste una disposizione di carattere generale che permetta all’Amministrazione finanziaria di prevenire e perseguire l’elusione.

Il concetto di abuso del diritto nasce nell’ambito dell’Unione europea, da sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea limitata al comporto dei tributi armonizzati: imposta sul valore aggiunto e dazi doganali. Le esperienze maturate nei Paesi [3]–come Francia e Germania – mostrano che la codificazione della nozione di abuso è la via maestra per dare alla imprese un quadro di certezza e stabilità normative e amministrative. In questi Paesi si è intervenuti legislativamente: è stata ampliata la portata delle norme antielusione esistenti e sono state al contempo rafforzate le garanzie procedurali per i contribuenti.

La  Corte di Giustizia ha chiarito che “ l’esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisce lo scopo essenziale dell’operazione o delle operazioni controverse”, specificando che “l’unico scopo di procurare un vantaggio fiscale non è una condizione per l’esistenza di una pratica abusiva”.

Il sopraggiungere di tale sentenza ha segnato l’avvio di un nuovo filone giurisprudenziale, che si è caratterizzato per soluzioni interpretative ulteriormente improntate alla tutela del principio antiabuso senza però garantire adeguate forme di tutela e di contraddittorio al contribuente ed in proposito le critiche sollevate dalla dottrina meritano un’attenta considerazione.

La nozione di abuso del diritto, nella recente evoluzione giurisprudenziale, sembra che abbia assunto una connotazione strettamente comunitaria posto che:

1)     Si abbandona il sistema della nullità di diritto interno ed in questo senso probabilmente hanno giocato un ruolo decisivo le conclusioni dell’Avvocato Generale con riferimento alle cause riunite C 439/04 e C 440/04, in merito all’ordinamento belga, che hanno portato alla sentenza della Corte di Giustizia del 2006;

2)     Conseguentemente, sotto il profilo degli effetti della violazione del principio di abuso di diritto, si abbandona il modello della nullità e si inizia a far strada quello dell’inefficacia nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria o dell’inopponibilità;

3)     Infine, è apertamente sollevato il problema del rapporto tra la nozione di abuso e quella di elusione.

In questa nuova prospettiva permangono questioni molto controverse che attengono soprattutto all’ambito oggetto di applicazione ed alla difficoltà di recepire i principio elaborati dalla Corte di Giustizia in considerazione dei vincoli imposti dall’ordinamento nazionale.

L’abuso del diritto nella giurisprudenza comunitaria.

Nel caso Halifax[4] la Corte di Giustizia ha stabilito come la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre ad una sanzione per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco, bensì solo ad un obbligo di rimborso di parte o di tutte le indebite detrazioni dell’Iva assolta a monte.

Tale  sentenza ha il pregio di aver definito il concetto di abuso del diritto ove tutte “le operazioni controverse devono procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disponibili. Non solo. Deve altresì risultare, da un insieme di elementi obiettivi, che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”.

Da queste premesse concettuali la Corte trae una conseguenza pratica fortemente incisa sul regime tributario; infatti “ove si constati un comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato”.

Questo orientamento è stato confermato successivamente, infatti la sentenza Auer, riprendendo un approccio più ristretto, considera abusivi solo i “comportamenti caratterizzati dalla realizzazione di situazioni celate artificiosamente con l’unico scopo di ottenere un vantaggio fiscale”.

Con riferimento al settore delle imposte sui redditi, a partire dalla sentenza Schweppes[5] la Corte di Giustizia ha prospettato un ragionamento secondo cui il mancato recepimento nell’ordinamento interno della clausola antielusiva prevista da una direttiva comunitaria consente la perseguibilità della condotta in termini di antielusione a condizione che sussistano norme nazionali in tema di abuso di diritto, il che, riguardo all’ordinamento nazionale, prospetta un delicato problema di conformità all’art. 23 della Costituzione. Pertanto, la distinzione tra i diversi settore impositivi è agevolmente riscontrabile sul piano del diritto positivo comunitario in quanto è noto che per le imposte sui redditi una sorta di clausola antiabuso è codificata dalla Direttiva n. 434 del 1990 in tema di operazioni straordinarie di modo che la sua applicazione concreta dovrebbe essere strettamente limitata alla fattispecie previste dalla Direttiva medesima.

Il quadro sistematico che si desume dall’ordinamento comunitario sembra sufficientemente chiaro e porta a conclusione che il principio anti abuso è pacificamente applicabile per i tributi armonizzati e con riferimento alle violazioni riguardanti la relativa disciplina, mentre per i tributi non armonizzati il parametro normativo di riferimento.

Il contrasto dell’elusione -che è posto ovviamente a fondamento dell’abuso del diritto in materia fiscale –è  uno strumento molto efficace di recupero del gettito pur senza aumentare la pressione fiscale, e, inoltre, colpisce tendenzialmente soggetti societari o comunque economici “forti”, che difficilmente possono sperare di evadere, date le loro dimensioni e rilevanza economica, ma che sono particolarmente capaci di sfruttare le inevitabili “smagliature” presenti in ogni sistema fiscale.

Per alcuni aspetti può ritenersi che questa interpretazione contrasti con i principi fondamentali, non solo con l’art. 23 della Costituzione, ma anche con i principio della certezza normativa, della tutela dell’affidamento e dell’imparzialità; principi, tra l’altro, di rango costituzionale, richiamati anche dallo Statuto dei diritti del contribuente, che non poco contrastano con definizioni troppe  generiche date dalla Cassazione, in occasione di pronunce in materia di elusione.

Lo studio dell’abuso e dello dell’affidamento, infatti, hanno matrice comunitaria e ricevono impulso dalle pronunce della Corte di Giustizia europea che, tuttavia, agisce necessariamente nel solco di una giurisprudenza creativa lontano dalla nostra esperienza ordina mentale.

Il ragionamento della Suprema Corte.

Ricostruiti i presupposti dell’abuso del diritto fiscale delineati dalla giurisprudenza comunitaria, occorre verificare come tali presupposti siano riflessi nella nozione di abuso del diritto fiscale teorizzata dalla Cassazione.

Il rapporto tra l’abuso del diritto e la norma antielusiva generale è stato da sempre un rapporto controverso che ha per molti aspetti favorito l’applicabilità del principio comunitario che ha di fatto assorbito quella che era considerata la norma antielusiva generale. Il fatto che l’art. 37 bis fosse applicabile solo a determinate fattispecie ha di fatto spinto la giurisprudenza troppe volte, a creare vere e proprie previsioni normative, frutto di vera e propria ingegneria giuridica e sicuramente poco rispettose dei criteri di interpretazione normativa; pertanto, in una realtà fenomenica molto veloce è necessario per l’interprete come per il contribuente avere un quadro normativo certo, nel rispetto delle pur previste garanzie costituzionali.

La sentenza della Corte di Cassazione  n. 21221 del 2006 – cd. sentenza  Chiappella – introduce nel nostro  ordinamento tributario il principio dell’abuso del diritto elaborato dalla  giurisprudenza comunitaria, nella versione finale espressa dalla sentenza  Halifax,  secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni che, seppure realmente volute  ed immuni  da invalidità, risultino, da un insieme di elementi obiettivi, compiute  essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.

Sotto tale profilo la pronuncia della Corte di Giustizia è da considerare un vero  e proprio  leading case  in tema di abuso del diritto nel campo fiscale. La nozione di abuso delineata non richiede la natura fittizia o fraudolenta di  un’operazione, nel senso che occorra un comportamento diretto a trarre in errore o a  rendere difficile all’ufficio di cogliere la vera natura dell’operazione.

Come si legge  nella sentenza del 2006, “il proprium del comportamento abusivo consiste proprio nel fatto che, a differenza dalle ipotesi di frode, il soggetto ha posto in essere operazioni reali, assolutamente conformi ai modelli legali, senza rappresentazioni incomplete della realtà”. Detto concetto prescinde dal concetto di frode e presuppone proprio la validità  degli atti compiuti. Nella suindicata  sentenza si richiama l’attenzione sulla precisazione contenuta nella decisione della Corte di Giustizia (Halifax) in cui le operazioni, per essere valide. “devono avere come scopo essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale”, espressione, quest’ultima, che appare diversa da quella comunemente ricorrente nella precedente giurisprudenza o in altri testi  normativi comunitari. In sentenze anteriori si faceva riferimento al vantaggio fiscale  come “scopo esclusivo” o ad operazioni compiute “al solo scopo di ottenere un  vantaggio fiscale”. L’art 11 della dir. 23 luglio 1990 n. 90/434/CEE, in materia di  regime fiscale sulle fusioni, scissioni societarie e conferimenti di attivo, autorizza gli  Stati membri a considerare tali operazioni fonti di presunzione di frode e di evasione,  ove non effettuate “per valide ragioni economiche” (espressione ripresa nella formulazione dell’art. 37 bis).

Da tale diversità di espressione, rispetto a quelle adottate in passato, il Giudice  di legittimità argomenta la possibilità che la  presenza di altri scopi economici(oltre  il risparmio fiscale) consenta ugualmente di ritenere poste in essere pratiche abusive,  con conseguente applicazione del principio dell’abuso del diritto. Una volta ritenuta la possibilità della concorrenza di giustificazioni economiche alternative, si giunge però, come conseguenza, ad attribuire al Giudice nazionale un’ampia discrezionalità nella valutazione del carattere abusivo del comportamento tenuto dal contribuente, anche se, in conformità della statuizione della Corte di  Giustizia, l’abuso deve risultare da un insieme di elementi obiettivi. La necessità che il giudicante osservi un atteggiamento di particolare  cautela nell’utilizzare tale strumento interpretativo.  Altra importante affermazione della sentenza cd. Chiappella è l’estensione del  principio dell’abuso del diritto  alla imposizione fiscale diretta. La pronuncia della Corte di Giustizia aveva riguardato il campo dei tributi c.d.  armonizzati (l’IVA), di competenza comunitaria, mentre la sentenza della Corte di Cassazione ha statuito in materia di imposizione fiscale diretta (imposte sul reddito d’impresa), attribuita alla competenza degli Stati membri.  La estensione viene giustificata con la considerazione che il principio  dell’abuso del diritto rientrerebbe nell’ambito dei “ principi e delle libertà fondamentali contenuti nel Trattato CE ”, di generale applicazione.

A partire dal 2008 con le sentenze della Corte di Cassazione nn. 30055, 30056 e 30057, il legislatore italiano prende atto della necessità di tracciare un più preciso confine tra la condotta elusiva e l’abuso del diritto[6] in materia tributaria. Con tali sentenze la Corte afferma il principio  che,  in tema di tributi non armonizzati, il riconoscimento di un generale principio antielusivo vada rinvenuto non nelle sentenze della Corte di Giustizia quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario  italiano e, specificamente,  nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (primo e secondo comma dell’art. 53 Cost.).  In tali principi trovano fondamento sia le norme impositive in senso stretto, sia  quelle che attribuiscono al contribuente vantaggio e benefici di qualsiasi genere,  essendo anche quest’ultime finalizzate alla piena attuazione di quei principi. Con la  conseguenza che può ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione  delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre vantaggi fiscali dall’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica  disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto  di ragioni economicamente apprezzabili che giustificano l’operazione, diverse dalla  mera aspettativa di quel risparmio fiscale.

L’esistenza nell’ordinamento di un principio generale antielusione non è contraddetta dall’intervenuta sopravvenienza di specifiche norme antielusive, che appaiono anzi confermare la presenza di una regola generale (Cass. 2008/8772). Né un siffatto principio può ritenersi in contrasto con la  riserva di legge in  materia tributaria di cui all’art. 23 Cost., in quanto il riconoscimento di un generale  divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel  disconoscimento degli effetti abusivi posti in essere al solo scopo di eludere  l’applicazione di norme fiscali. Peraltro si è anche osservato che, data la natura programmatica e non precettiva  delle disposizioni contenute nei primi due commi dell’art. 53 Cost., non è possibile  farne discendere un generale divieto di abuso del diritto, la cui violazione prevede oltre tutto l’applicazione di sanzioni. All’osservazione si è risposto con la contestazione del presupposto, vale a dire della natura puramente programmatica delle disposizioni richiamate.

Tale tesi è stata poi confermata nella sentenza n. 1465 del 21 gennaio 2009, ove si stabilisce che “l’abuso costituisce una modalità di aggiramento della legge tributaria utilizzata per scopi non propri come forme e modelli ammessi dall’ordinamento giuridico” e che “ il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove quelle operazioni possono spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta”.

L’ampliamento della casistica della configurabilità o meno dell’abuso del diritto, è fonte di un livello più elevato di garanzia per il soggetto colpito dalla misura repressiva: si apre così  il dibattito su chi grava l’onere  della prova per dimostrare  “l’esistenza di ragioni economiche, alternative o concorrenti, di carattere non meramente marginale o teorico”  che configurano l’abuso del diritto.

In tale contesto assume un rilievo più significativo il tema dell’inapplicabilità delle sanzioni, sottolineato già dalla Corte di Giustizia  con la sentenza Halifax, e che, allo stato attuale dell’esperienza giuridica, non è stato ancora preso in esame dalla giurisprudenza di legittimità a fronte di qualche pronuncia favorevole della giurisprudenza di merito.

Le ultime sentenze della Cassazione la n. 3342 del 2013 e la n. 4901/2013 hanno confermato l’applicabilità dell’istituto dell’abuso del diritto in materia tributaria. Nello  specifico, la Corte ha stabilito che qualora un contribuente, esercitando un diritto espressamente o riconosciutogli, non persegua, in realtà, un fine meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, realizzando anzi un obiettivo contrario, non può essergli riconosciuta alcuna tutela giurisdizionale. Infatti, il soggetto abusa della libertà di adottare un certo trattamento per i proprio vantaggi, sfruttando la varietà di forme giuridiche che l’ordinamento gli mette a disposizione.

Quindi, al contrario dell’evasione, che si realizza quando vi è un occultamento di ricchezza imponibile ovvero l’alterazione di un fatto economico (come la simulazione, l’interposizione fittizia), l’abuso  e l’elusione, al contrario, si verificano quanto il vantaggio fiscale del contribuente è indebito , poiché ottenuto attraverso il superamento (o abuso) del vantaggio riconosciutogli espressamente da una norma, andando a perseguire un vantaggio disapprovato dal sistema[7].

Le sentenze della Corte di Cassazione: le imposte non armonizzate ed armonizzate.

Per le imposte non armonizzate – quali le imposte dirette l’imposta di registro – ha statuito che “è sufficiente un uso improprio o ingiustificato (sorretto da idonee valutazioni di carattere economico che prescindono da profilo fiscale) di uno strumento giuridico legittimo, utilizzato alla luce del sole, che consenta però di eludere l’applicazione di un regime fiscale proprio dell’operazione presupposto di imposta” ciò perché “l’ordinamento fiscale non intende premiare scelte imprenditoriali che non siano determinate da valutazioni di economia sostanziale essendo evidente che una operazione economica realizzata al solo fine di ottenere un risparmio fiscale è un’operazione che contrasta con l’utilità sociale, sia nel senso che lede il principio di solidarietà, sia nel senso che determina una indebita riduzione del gettito fiscale”. Inoltre, le S.U. hanno statuito che in materia tributaria “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”[8]. Un’ulteriore sentenza della Cassazione ha statuito che le cd. Operazioni di divided washing danno luogo ad un abuso del diritto fiscale per il solo fatto che “si risolvono in una valuta alterazione dei dati fiscali del contribuente nazionale,  quindi, in una rappresentazione della sua capacità contributiva considerata dall’art. 53 Cost., diversa da quella effettiva, essendo stata modificata in peius attraverso un’operazione tesa esclusivamente a conseguire un risparmio fiscale ovverosia alla creazione di una minusvalenza oltre che ad un credito d’imposta per il cessionario, quindi mediante una operazione avente la sola finalità di ridurre il carico fiscale del cessionario medesimo[9].

Nel 2011 la Corte con la sentenza n.10383 ha sancito il principio secondo cui la mera costituzione di iniziative produttive incentivate non può mai ritenersi integrare “abuso del diritto” (anche nei confronti dei soggetti che intrattengono rapporti economici con l’impresa “beneficiata”) perché l’esenzione fiscale costituisce la contropartita incentivante di detta costituzione e non una finalità contra ius.

Per quanto attiene alle imposte, quali le dogane e l’IVA, la Cassazione ha per contro seguito con una certa costanza la tesi secondo cui l’abuso postula uno scopo di risparmio d’imposta indebito. In particolare, l’abuso del diritto è riscontrabile laddove il contribuente ponga in essere un’operazione che ha il fine di ottenere indebiti vantaggi fiscali attraverso l’utilizzo distorto, se pur non contrastante con alcuna  specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a tal fine, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione medesima ed in contrasto con l’obiettivo perseguito dalla legislazione in materia.

I recenti sviluppi legislativi[10].

Il 18 giugno 2013 la Commissione Finanze[11] ha avviato l’esame di alcune proposte di legge n. 29 in materia fiscale .Tale proposta racchiude le proposte di legge n. 282 (Causi e altri) ,n.  1122 (Capezzone e altri), sostanzialmente identiche, recanti  norme in materia di revisione del sistema fiscale mediante delega al Governo.

La proposta si compone di 4 articoli (nei quali erano stati accorpati, durante l’esame in Commissione alla Camera, i 17 articoli dell’originario disegno di legge n. 5291), concernenti alcuni principi generali e le procedure di delega (articolo 1); la revisione del catasto dei fabbricati nonché norme in materia di evasione ed erosione fiscale (articolo 2); la disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale, norme in materia di tutoraggio, semplificazione fiscale e revisione del sistema sanzionatorio, nonché la revisione del contenzioso e della riscossione degli enti locali (articolo 3); la delega per la revisione dell’imposizione sui redditi di impresa e la previsione di regimi forfetari per i contribuenti di minori dimensioni, nonché per la razionalizzazione della determinazione del reddito d’impresa e di imposte indirette e in materia di giochi pubblici (articolo 4).

L’art.3 comma 1 ha come obiettivo la definizione dell’abuso del diritto, inteso come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché la condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione; deve essere garantita la scelta tra regimi alternativi quando l’operazione è giustificata da ragioni extrafiscali “non marginali”. In particolare si prevede che l’abuso del diritto si configuri nel caso in cui lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali risulti come causa prevalente dell’operazione abusiva. Al contrario, se l’operazione è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali, l’abuso non si configura. Si precisa –nella proposta – che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente (lettera b)). La fattispecie abusiva è inopponibile all’amministrazione finanziaria, la quale può disconoscere immediatamente l’indebito risparmio d’imposta (lettera c)).

Nell’ambito dei principi e criteri direttivi è prevista una implementazione della disciplina procedurale sotto i seguenti profili:

  • il regime della prova: a carico dell’amministrazione è posto l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro non conformità ad una normale logica di mercato; a carico del contribuente grava l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali che giustificano il ricorso degli strumenti giuridici utilizzati (lettera d));
  • la motivazione dell’accertamento: nell’atto di accertamento deve essere formalmente e puntualmente individuata la condotta abusiva, a pena di nullità dell’accertamento stesso (lettera e));
  • il contradditorio e il diritto di difesa: devono essere garantiti in ogni fase del procedimento di accertamento tributario (lettera f)).

La norma di delega è volta a riequilibrare il rapporto tra lo strumento anti-elusione e la certezza del diritto, messa in discussione dalla prassi amministrativa di sindacare ex post le scelte dei contribuenti sulla base di orientamenti non noti al momento in cui le operazioni sottoposte a controllo sono già decise ed effettuate.

Pertanto, da un lato è stabilito il generale divieto di utilizzare in modo distorto gli strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione (lettera a)). Dall’altro lato è riconosciuto al contribuente il diritto di scelta tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale, purché essa non sia volta unicamente ad ottenere indebiti vantaggi fiscali; viene riconosciuta l’ammissibilità dell’operazione qualora essa sia giustificata da ragioni extrafiscali “non marginali”; come detto, costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e consistono in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente (lettera b)).


[1] Il 6 dicembre 2012 la Commissione europea ha pubblicato un Piano di azione per il contrasto alle frodi e all’evasione fiscale nell’ambito dell’Unione europea e nei rapporti con i Paesi terzi, facendo seguito all’invito del Consiglio europeo del 2 marzo 2012 a lavorare in tal senso. Come parte di questa iniziativa, la Commissione ha rivolto una Raccomandazione agli Stati Membri affinché adottino specifiche misure volte al contrasto delle forme di pianificazione fiscale aggressiva. A tal fine, gli Stati Membri sono stati invitati a introdurre nei propri ordinamenti una norma generale antiabuso nel settore delle imposte dirette, applicabile sia ai rapporti nazionali, sia a quelli transnazionali. Peraltro, tra le conclusioni del Consiglio europeo del 22 maggio, in gran parte dedicato a questioni di natura fiscale, tra le altre cose si attribuisce carattere prioritario a l’attuazione delle misure previste nel citato piano d’azione contro la frode e l’evasione fiscale presentato dalla Commissione europea il 6 dicembre 2012. In particolare nella Raccomandazione del 6 dicembre 2012 la Commissione, per contrastare le pratiche di pianificazione fiscale aggressiva che non rientrano nell’ambito di applicazione delle norme nazionali specifiche intese a combattere l’elusione fiscale, invita gli Stati membri ad adottare una norma generale antiabuso adattata alle situazioni nazionali, alle situazioni transfrontaliere limitate all’Unione e alle situazioni che coinvolgono paesi terzi. Gli Stati membri sono incoraggiati a inserire la seguente clausola nella legislazione nazionale: Una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale deve essere ignorata. Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a fini fiscali facendo riferimento alla loro «sostanza economica». Nel corso dell’audizione presso la Commissione finanze della Camera dei deputati del 6 giugno 2013, il Direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera, al riguardo ha evidenziato che la ratio dello schema di norma proposto dalla Commissione europea è quella tipica delle norme anti-abuso di carattere generale. L’impostazione è volta ad evitare formulazioni che possono rivelarsi a posteriori inadeguate al manifestarsi di sempre nuove forme di pianificazione fiscale e a garantire che, attraverso un’adozione uniforme, si scongiuri il rischio di arbitraggi connessi all’assenza di norme antiabuso negli Stati Membri tanto con riferimento alle operazioni domestiche quanto a quelle transfrontaliere. Si segnala che in ambito internazionale (Ocse, Ue, G20) si registra una sempre maggiore attenzione al contrasto all’evasione fiscale internazionale e all’utilizzo dei “paradisi fiscali”. In ambito Ocse, in particolare, si sta adottando un piano d’azione in materia (Base Erosion and Profit Shifting) per contrastare pratiche fiscali aggressive nell’ambito della tassazione societaria volte a eludere il pagamento delle imposte.

[2] Gentili, Spunti di metodo in tema di “abuso del diritto”, ΝΕΩΤΕΡΑ, 2009, Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino 2006, Russo, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano 2002; Basilavecchia, Elusione e abuso del diritto: una integrazione possibile, GT- Rivista giuridica tributaria, 2008

[3]Il tema dell’abuso del diritto è stato affrontato anche in altri paesi (ad esempio, Francia e Germania), dove si è intervenuti legislativamente, con modifiche a norme antielusive già esistenti, di cui si è ampliata la portata. Le nuove normative prevedono un rafforzamento delle garanzie procedurali per i contribuenti.  In Francia è prevista una norma generale anti-abuso che si caratterizza per essere una disposizione procedurale, la quale definisce il concetto di abuso del diritto solo in via strumentale, al fine di delimitare le modalità a disposizione dell’Amministrazione finanziaria per contrastarlo. A partire dal 2006, alcune pronunce giurisprudenziali del Consiglio di Stato francese, insieme a quelle della Corte di Giustizia europea, hanno alimentato il dibattito sull’abuso del diritto, alla base del cd. “rapporto Fouquet”, predisposto da una commissione ministeriale. In estrema sintesi, il rapporto evidenziava come il contrasto all’abuso del diritto doveva essere affrontato in termini di maggiore certezza giuridica e di maggiori garanzie procedurali per il contribuente nei confronti delle pretese dell’Amministrazione. Il legislatore francese, seguendo quanto suggerito dal “rapporto Fouquet”, ha modificato la legislazione in materia di abuso del diritto; le nuove norme si applicano a partire dal 1° gennaio 2009. Si è passati a una clausola generale anti-abuso basata su una definizione più ampia del concetto di abuso, mantenendo invariate le garanzie procedurali dei contribuenti, che ne escono anzi rafforzate grazie alla nuova composizione del comitato consultivo. E’ infatti previsto un “comitato sull’abuso del diritto fiscale”, che, per tutelare gli interessi e le posizioni dei contribuenti, è composto non solo da membri di nomina governativa, come avveniva in passato, ma anche da componenti rappresentanti delle professioni contabili e giuridiche.  In Germania già la legge generale tributaria tedesca del 1977 prevedeva una clausola generale anti-abuso, che non definiva però il concetto di abuso del diritto; la sua vaghezza era di ostacolo tanto ai contribuenti quanto alle autorità fiscali. Nel corso degli anni, la Corte federale tributaria tedesca (Bundesfinanzhof, o BFH) ha cercato di colmare questa lacuna; nelle sue pronunce sono state spesso considerate abusive quelle strutture che apparivano inusuali, artificiose e non finalizzate al perseguimento di valide ragioni economiche. Nel 2008 si è deciso di introdurre una definizione di abuso del diritto: questo si verifica solo quando il contribuente sceglie una struttura legale “inadeguata” rispetto al fatto economico, che comporta per lui o per un terzo, in confronto ad una forma adeguata, un beneficio fiscale non previsto dalla legge. L’abuso non si concretizza se il contribuente dimostra che la forma giuridica scelta risponde a ragioni extrafiscali meritevoli di tutela. L’onere della prova circa l’appropriatezza o meno delle strutture utilizzate è a carico delle autorità fiscali tedesche. Dinanzi alla contestazione di inappropriatezza degli schemi utilizzati, il contribuente potrà replicare dimostrando che l’operazione è comunque motivata da rilevanti ragioni di natura non tributaria.  In Gran Bretagna non è presente una disciplina generale sulla frode alla legge o sull’elusione. Ciò significa che, in linea di principio, nell’ambito di tale ordinamento, non è di per sé illecito strutturare un negozio giuridico con modalità tali da eludere l’applicazione di determinate disposizioni di legge, anche qualora si tratti di leggi che vietano l’utilizzo di strutture poste in essere al fine di non pagare i tributi. Nel Regno Unito, pertanto, non esiste, ai fini fiscali, una norma di legge che abbia carattere generale, mentre esistono, per un certo numero di imposte e per specifiche finalità, una serie di norme speciali finalizzate ad evitare che, in relazione ad una determinata fattispecie, si possa “abusare” di un certo incentivo fiscale.  Al riguardo, occorre evidenziare che il sistema giuridico inglese ha sempre attribuito maggiore rilievo alla “sostanza” di un negozio giuridico, piuttosto che alla sua “forma”. Di conseguenza, se la qualificazione giuridica che le parti hanno attribuito al negozio (es. una donazione) non corrisponde agli effetti concretamente voluti dalle parti (es. quelli di un “prestito”), le Corti faranno esclusivo riferimento all’effettiva intenzione delle parti. In tale contesto spetta al contribuente provare che non è dovuta l’imposta relativa ad una determinata operazione e, in taluni casi, lo stesso può addurre che la transazione è ispirata da ragioni di bona fides commerciale e che non persegue lo scopo principale di ottenere vantaggi fiscali. Dal canto proprio, l’Amministrazione ha ampi poteri di accertamento dei comportamenti elusivi posti in essere dai contribuenti e ciò spiega la possibilità, in relazione a molte disposizioni di ampio tenore, di ricorrere a procedure di clearance (una sorta di interpello), finalizzate ad evitare l’applicazione delle norme antielusive. In Spagna la normativa finalizzata a contrastare la c.d. Fraude a la Ley tributaria non ha mai avuto una concreta applicazione, richiedendo la normativa fiscale, fin dall’origine, l’accertamento dell’“intenzione ingannatoria”, difficilmente accertabile nei fatti. L’elusione in ambito internazionale si manifesta come quell’arbitraggio che si realizza ogni qual volta il contribuente pone in essere un’operazione transnazionale con l’intento di trarre vantaggio dalle diverse tipologie e modalità di imposizione esistenti nei vari Paesi, in maniera da ridurre al minimo il proprio carico impositivo (c.d. “arbitraggio fiscale dannoso”). Ciò risulta possibile proprio perché gli ordinamenti giuridici dei vari Stati risultano estremamente diversi tra loro. Lo sfruttamento delle differenze esistenti negli ordinamenti fiscali europei deve, tuttavia, fare i conti con i principi del diritto fiscale internazionale e del suo ruolo nell’interpretazione delle leggi nazionali e delle Convenzioni fiscali contro la doppia imposizione, nel rispetto dei limiti della sovranità statale e della giurisdizione nazionale in materia fiscale. In tal senso, infatti, lo stesso Commentario al Modello di Convenzione OCSE opportunamente modificato nel 2003, dispone all’art. 1 che “…laddove la disposizione contro l’abuso fiscale siano incardinate alle regole fondamentali della legislazione nazionale che determinano i fatti generatori dell’imposta, le stesse non sono influenzate dalle convenzioni in quanto dette regole sono estranee alla materia considerata dalle convenzioni fiscali. Pertanto, di regola non vi sarà conflitto tra tali disposizioni e le disposizioni delle convenzioni fiscali (…)”.

[4] Corte di giustizia CE, 21 febbraio 2006, causa C- 255/02.  elle cause Halifax, University of Uddersfield e BUPA Hospitals, alcuni giudici inglesi avevano sollevato una serie di questioni di interpretazione della VI Direttiva. La Halifax (causa C-255/02), un istituto bancario, e la University of Huddersfield (causa C-223/03), un’università, volevano realizzare dei lavori di costruzione. Essendo la maggior parte delle loro prestazioni esenti da IVA, esse avrebbero potuto recuperare soltanto una parte minima di tale imposta. Sia la Halifax sia la University of Huddersfield avevano tuttavia elaborato un piano che consentiva loro, attraverso una serie di operazioni che coinvolgevano diverse società o organizzazioni controllate, di recuperare in pratica la totalità dell’IVA assolta a monte sui lavori di costruzione. In seguito alla Sentenza Part Service Srl l’ambito di applicazione dell’abuso del diritto è stato esteso, rispetto a quanto stabilito dalla sentenza Halifax: dopo questo arresto giurisprudenziale, infatti, deve considerarsi abusivo il ricorso a forme di transazione che abbiano come scopo principale un (indebito) risparmio di imposta ancorché accompagnato da secondarie (e lecite) finalità economiche.

[5] In particolare la sentenza Cadbury Schweppes del 12 settembre 2006 (C-196/04) si è occupata di “libertà di stabilimento – normativa sulle società controllate estere – inclusione nella base imponibile della società madre degli utili delle controllate estere”, a seguito di una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 234 CE, dagli Special Commissioners of Income Tax, London (Regno Unito). La domanda di pronuncia pregiudiziale verteva sull’interpretazione degli artt. 43 CE, 49 CE e 56 CE, ed era stata sollevata nell’ambito di una controversia tra le società Cadbury Schweppes plc e Cadbury Schweppes Overseas Ltd, da un lato, e i Commissioners of Inland Revenue, dall’altro, in merito alla tassazione di Cadbury Schweppes Overseas Ltd per gli utili conseguiti nel 1996 da Cadbury Schweppes Treasury International, una controllata del gruppo Cadbury Schweppes costituita in seno all’International Financial Services Centre [Centro internazionale di servizi finanziari] di Dublino (Irlanda). Secondo la legislazione britannica, gli utili di una società estera detenuta per più del 50% da una società residente nel Regno Unito, vale a dire una società estera controllata o SEC, sono attribuiti alla società residente e tassati in suo capo se l’aliquota fiscale è inferiore ai ¾ di quella applicata nel Regno Unito. Alla società residente viene riconosciuto un credito d’imposta per l’imposta assolta dalla SEC. Questo sistema, ha l’effetto di obbligare la società residente a pagare la differenza tra l’imposta assolta all’estero e l’imposta che avrebbe dovuto essere assolta nel Regno Unito, se la società avesse avuto sede in tale Stato. Sussistono un certo numero di eccezioni all’applicazione della detta legislazione, segnatamente quando la SEC distribuisce il 90% degli utili alla società residente o quando è soddisfatto il «motive test». Per beneficiare di quest’ultima eccezione una società deve dimostrare che ottenere una riduzione dell’imposta nel Regno Unito mediante una distrazione di utili non era l’obiettivo principale delle operazioni che hanno generato gli utili della SEC, né la ragione principale per l’esistenza della SEC. Cadbury Schweppes plc era la società madre del gruppo Cadbury Schweppes, che opera nel settore bevande e dolciario. Il gruppo comprende, in particolare, due controllate irlandesi, vale a dire Cadbury Schweppes Treasury Services (CSTS) e Cadbury Schweppes Treasury International (CSTI), costituite in seno all’International Financial Services Centre (IFSC) [Centro internazionale di servizi finanziari] di Dublino (Irlanda), dove nel 1996 l’aliquota fiscale era del 10%. Le attività di CSTS e di CSTI consistono nel raccogliere fondi e nel metterli a disposizione del gruppo. Secondo il giudice del rinvio, esse erano state costituite a Dublino unicamente perché potessero beneficiare del favorevole regime fiscale dell’IFSC e sfuggire all’applicazione di certe disposizioni fiscali del Regno Unito. Nel 2000 i Commissioners of Inland Revenue (autorità tributaria del Regno Unito), ritenendo che alle due società irlandesi si applicasse la legislazione sulle SEC, richiedevano a Cadbury Schweppes la somma di GBP 8.638.633,54 come imposta societaria sugli utili realizzati da CSTI nell’esercizio 1996. Cadbury Schweppes proponeva ricorso dinanzi agli Special Commissioners of Income Tax sostenendo che la legislazione sulle SEC è contraria al diritto comunitario, in particolare alla libertà di stabilimento. Gli Special Commissioners domandavano quindi alla Corte di giustizia se il diritto comunitario ostasse a una legislazione come quella sulle SEC. La Corte ha ricordato che società e cittadini di uno Stato membro non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario. La circostanza, tuttavia, che la società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa, non costituisce per se stessa un abuso della libertà di stabilimento. Ne consegue che il fatto che Cadbury Schweppes abbia deciso di costituire CSTS e CSTI a Dublino, al fine dichiarato di beneficiare di un regime fiscale favorevole, non costituiva di per sé un abuso e non precludeva a Cadbury Schweppes la possibilità di invocare il diritto comunitario. La Corte ha notato che la legislazione sulle SEC comporta una disparità di trattamento fra le società residenti in funzione dell’aliquota d’imposta che grava sulle rispettive controllate. Tale disparità crea uno svantaggio fiscale per la società residente cui è applicabile la legislazione sulle SEC. La legislazione sulle SEC integrava, quindi, una restrizione alla libertà di stabilimento nel senso del diritto comunitario. Per quanto riguarda le possibili giustificazioni per una legislazione siffatta, la Corte rilevava che una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento può essere ammessa solo se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate unicamente ad eludere l’imposta nazionale di norma dovuta e se non eccede quanto necessario per raggiungere l’obiettivo. Alcune eccezioni previste dalla legislazione britannica esentavano dall’imposta una società in situazioni in cui una costruzione puramente artificiosa a meri fini fiscali pare esclusa (per esempio, se la SEC distribuisce il 90% degli utili alla società madre oppure se realizza attività commerciali). Quanto all’applicazione del «motive test», la Corte constatava che il fatto che la volontà di ottenere uno sgravio fiscale avesse ispirato tanto la costituzione della SEC quanto la conclusione di operazioni tra quest’ultima e la società residente, non poteva essere sufficiente a concludere per l’esistenza di una costruzione di puro artificio. La constatazione dell’esistenza di una tale costruzione richiedeva, oltre all’elemento soggettivo, elementi oggettivi e verificabili, prodotti dalla società residente (relativi, in particolare, al livello di presenza fisica della SEC in termini di locali, di personale e di attrezzature), da cui risultasse che la costituzione di una SEC non corrispondeva a una realtà economica, vale a dire ad un insediamento reale che avesse per oggetto l’espletamento di attività economiche effettive nello Stato membro di stabilimento. Spettava agli Special Commissioners verificare se il «motive test» si prestasse ad un’interpretazione che tenesse conto di tali criteri oggettivi. In caso affermativo, la legislazione sulle SEC avrebbe dovuto essere considerata compatibile con il diritto comunitario. Viceversa, se i criteri sui quali poggia il test comportassero che una società residente rientrasse nell’ambito di applicazione della detta legislazione nonostante l’assenza di elementi oggettivi nel senso dell’esistenza di una costruzione di puro artificio, la legislazione sarebbe contraria al diritto comunitario. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) ha dichiarato: Gli artt. 43 CE e 48 CE devono essere interpretati nel senso che ostano all’inclusione, nella base imponibile di una società residente in uno Stato membro, degli utili realizzati da una società estera controllata stabilita in un altro Stato allorché tali utili sono ivi soggetti ad un livello impositivo inferiore a quello applicabile nel primo Stato, a meno che tale inclusione non riguardi costruzioni di puro artificio destinate a eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta. L’applicazione di una misura impositiva siffatta deve perciò essere esclusa, ove da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive.

[6]Nel 2012 vi è stata la presentazione alla Camera dei Deputati del D.D.L. di delega A.C. n. 5291  In particolare, l’art. 5 propone di definire “la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta” ed a considerare “lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva”, escludendo “la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione è dettata da ragioni extrafiscali non marginali”, così da garantire “la libertà di scelta del contribuente fra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale”.

[7]Si ricorda che la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7739 del 2012 ha affermato la rilevanza penale dell’elusione attuata attraverso il ricorso a qualsiasi forma di abuso del diritto. In particolare, la Cassazione ha affermato che è configurabile il reato di cui all’articolo 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000 (infedele dichiarazione, oltre una certa soglia di imposta non dichiarata) quando la condotta del contribuente, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, comporti comunque una dichiarazione non veritiera.  In una successiva pronuncia (sentenza n. 19100 del 3 maggio 2013) la Cassazione ha riaffermato l’orientamento che ammette la compatibilità fra abuso del diritto e reato. In particolare, la Corte suprema ha stabilito che rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 del D.Lgs. 74/2000 la condotta del contribuente idonea a determinare una riduzione della base imponibile, realizzata attraverso particolari conferimenti (rilevanti ex articolo 37-bis, comma 3, D.P.R. 600/1973) a una società a responsabilità limitata, comunque riferibile al suo ambito familiare. In proposito, va dato conto dell’esistenza anche di pronunce di senso contrario, secondo le quali “la violazione delle norme antielusive, in linea di principio, non comporta conseguenze di ordine penale” (Cass. n. 23730/2006), poiché “la figura del cosiddetto abuso del diritto, qualificata dall’adozione (al fine di ottenere un vantaggio fiscale) di una forma giuridica non corrispondente alla realtà economica, non ha valore probatorio perché implica una presunzione incompatibile con l’accertamento penale, ed è invece utilizzabile in campo tributario come strumento di accertamento semplificato…”. Tuttavia, la tesi della possibilità di rilevanza penale dei comportamenti elusivi appare prevalente, poiché fatta propria dalla novella del 2000 del diritto penale tributario, come interpretata anche dalle sezioni unite della Cassazione (nn. 27/2000, 1235/2010) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 49/2002). Al riguardo si evidenzia che il successivo comma 9 della proposta di legge (alla cui scheda si rimanda), nell’elencare i criteri direttivi per la revisione del sistema sanzionatorio, esplicita che verrà dato più rilievo al reato per comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa, nonché all’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie. Si prevede, inoltre, la revisione del regime della dichiarazione infedele. La stessa  Corte dei conti, nel rapporto per il 2012 sul coordinamento della finanza pubblica, ha affermato che la disciplina dell’abuso del diritto discendente dall’elaborazione giurisprudenziale ha corroborato l’azione di contrasto dei comportamenti elusivi svolta dall’amministrazione finanziaria, inducendo in numerosi casi i grandi contribuenti a definire bonariamente la pretesa tributaria, con evidenti benefici sul piano sanzionatorio e della certezza dei rapporti giuridici. Tutto ciò ha dato luogo a notevoli effetti positivi in termini di entrate erariali, tanto che gran parte dei risultati finanziari conseguiti dall’attività di accertamento degli ultimi anni deriva essenzialmente dall’attività antielusiva svolta nei confronti delle grandi imprese.

[8] Cass., SS.UU., 26 giugno 2009 n. 15029.

[9] Cass., 22 ottobre 2010, n. 21692.

[10] La proposta di legge Zanetti (A.C. 950) intende disciplinare unitariamente le disposizioni di contrasto all’elusione fiscale e all’abuso del diritto in materia tributaria, recependo i principali punti del citato A.C. 5291 e abrogando l’articolo 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 (descritto nel paragrafo successivo).  In aggiunta ai punti in comune con l’articolo in esame, si prevede sul fronte delle sanzioni amministrative pecuniarie la sanzionabilità della condotta elusiva, introducendo però, in ragione della mancata violazione di norme espresse, sanzioni più tenui di quelle previste per il caso dell’evasione (da un minimo del 50 per cento a un massimo del 100 per cento, contro un minimo del 100 per cento e un massimo del 200 per cento), con previsione di sanzioni viceversa più pesanti (da un minimo del 150 per cento a un massimo del 300 per cento, contro un minimo del 100 per cento e un massimo del 200 per cento) qualora il comportamento elusivo si esplichi nell’allocazione all’estero di base imponibile o imposte che sarebbero risultate dovute in Italia (ciò in ragione della particolare gravità e pericolosità sociale di questo tipo di comportamenti). Sul fronte delle sanzioni penali, si prevede la sanzionabilità della condotta elusiva solo qualora si esplichi nell’allocazione all’estero di base imponibile o imposte che sarebbero risultate dovute in Italia. Le norme procedimentali riprendono la disciplina prevista dall’articolo 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973, conseguentemente abrogato.

[11] Tra gli atti di indirizzo parlamentari presentati alla Camera dei deputati che impegnano il Governo ad assumere iniziative legislative volte a disciplinare il divieto di abuso del diritto si segnalano: 1)le mozioni Leo n. 1-00843 e Donadi 1-00846, approvate il 7 febbraio 2012;2) l’interrogazione a risposta immediata in Commissione Fugatti n. 5-05602, del 25 ottobre 2011;3)  l’ordine del giorno Strizzolo 9/2561-A/165, accolto come raccomandazione dal Governo il 27 luglio 2009. Il dibattito svolto nella Commissione Finanze della Camera ha evidenziato come sia necessario un intervento normativo, al fine di definire in maniera esplicita il concetto di “abuso del diritto” all’interno del diritto positivo, rendendo distinguibile il risparmio d’imposta legittimo dal vantaggio fiscale indebito. E’ stata inoltre sottolineata la necessità che un principio generale anti-abuso, allo stato ancora mancante, si applichi a tutte le imposte, non sia vincolato da un’elencazione tassativa di fattispecie elusive e venga realizzata una piena assimilazione, a livello normativo, tra elusione fiscale e abuso. La distinzione tra risparmio d’imposta legittimo e vantaggio fiscale indebito dovrebbe far leva sul concetto di aggiramento delle norme tributarie. La norma generale dovrebbe essere provvista di garanzie procedurali a favore del contribuente: attraverso la puntuale regolazione del principio potrebbero essere rimossi alcuni fattori di criticità emersi in sede giurisprudenziale, legati, fra l’altro, alla rilevazione d’ufficio dell’abuso e all’incertezza sulle sanzioni applicabili. Nel corso dell’esame del decreto legge n. 16 del 2012 (semplificazioni fiscali) sono state presentate proposte emendative volte a prevedere, in caso di elusione fiscale, l’applicazione di sanzioni non penali bensì amministrative, con lo scopo di restituire tranquillità ai contribuenti, ripristinando la certezza del diritto e delimitando con criteri certi l’area del legittimo risparmio di spesa. In particolare l’articolo aggiuntivo mirava a disciplinare l’elusione fiscale e l’abuso del diritto tributario, rendendo inopponibili al fisco le operazioni volte ad aggirare prescrizioni tributarie al fine di ottenere riduzioni di imposta, in contrasto con lo scopo della norma tributaria. Era definita come legittimo risparmio di imposta la scelta del contribuente tra diverse fattispecie previste dall’ordinamento che pur avendo un differente regime tributario producono effetti economici sostanzialmente equivalenti. Le proposte sono state peraltro ritirate a seguito dell’impegno del Governo a definire la questione nell’ambito della delega fiscale, attraverso “un provvedimento organico, adeguatamente approfondito e tecnicamente funzionale, che contribuisca a stabilizzare la situazione del Paese, senza che siano necessari ulteriori interventi correttivi”.