Direttore Scientifico: Claudio Melillo - Direttore Responsabile: Serena Giglio - Coordinatore: Pierpaolo Grignani - Responsabile di Redazione: Marco Schiariti
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La prevalenza delle dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica rispetto alla perizia stragiudiziale

La Corte Suprema di Cassazione – sezione tributaria – con ordinanza n. 31600 depositata il 4 dicembre 2019 ha chiarito che la perizia stragiudiziale non ha valore di prova, nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di aver accertato, ma solo di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo Conseguentemente, la valutazione della stessa è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, che non è altresì obbligato a tenerne conto (Sul punto, si veda l’ Ordinanza n. 33503 del 27/12/2018, sez. 5, Rv. 651998 – 02).

Nella stessa ordinanza, gli Ermellini hanno peraltro evidenziato che alle dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica fiscale debba essere attribuito il carattere di una confessione extragiudiziale. Conseguentemente, risultano maggiormente apprezzabili le dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica rispetto ad una perizia stragiudiziale, venendo comunque demandata la valutazione al giudice tributario.

Nella fattispecie concreta l’Amministrazione Finanziaria aveva quantificato le percentuali di incidenza dello sfrido basandosi sulle dichiarazione rilasciate nel corso del contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente. La Cassazione ha spiegato che l’accettazione da parte del contribuente, in contraddittorio con i verbalizzanti, di una data percentuale di ricarico può essere apprezzata come confessione stragiudiziale risultante proprio dal processo verbale sottoscritto e, quindi, tale da legittimare l’accertamento dell’ufficio (Si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 5628/1990 e n. 1286/2004).

Infine, risulta opportuno evidenziare che ogni dichiarazione del legale rappresentante può costituire prova non già indiziaria, bensì diretta del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società (Si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 28316/2005, n. 9320/2003, e n. 7964/1999).

TAX LAB 2015

CORSI ACCREDITATI DALL’ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI DI MILANO – ANNO 2015:

Il Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D., in collaborazione con Melillo & Partners Studio Legale Tributario, avvia i “Laboratori di Economia & Diritto”, una serie di workshop formativi, a numero chiuso, pensati per stimolare l’interesse dei discenti (professionisti, imprenditori, manager, funzionari pubblici, laureati, ecc.) a partecipare a sessioni di studio fondate sull’esperienza, oltre che sulla teoria.

Durante i “Laboratori di Economia & Diritto” qualificati docenti metteranno la loro pluriennale esperienza al servizio dei partecipanti, affinché questi possano accrescere con facilità il loro bagaglio di competenze teorico-pratiche.

Nell’ambito dei “Laboratori di Economia & Diritto” rientra il Tax L@b 2015: Laboratorio di Fiscalità Internazionale, corso di alta formazione accreditato dall’ODCEC di Milano con il riconoscimento di 20 CFP, unitamente al quale, su richiesta, è possibile attivare ulteriori incontri di approfondimento in aula, orientati a rispondere a specifiche esigenze di problem solving (anche su proposta di ciascun partecipante).

  • TAX LAB 2015 (EVENTO ACCREDITATO DALL’ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI ED ESPERTI CONTABILI DI MILANO PER 20 CFP) – PROGRAMMA – BROCHURE E MODULO DI ISCRIZIONE:
    • Rappresentante del Comitato Scientifico di E&D:
      • Prof. Avv. Claudio Sacchetto (Professore emerito di Diritto Tributario dell’Università di Torino).
    • Direttore Scientifico e Coordinatore del Corso:
      • Dott. Claudio Melillo, Dottore Commercialista in Milano (www.melilloandpartners.it) e Dottore di Ricerca in Diritto Tributario presso la Seconda Università di Napoli (www.claudiomelillo.it).
    • Relatori e Ospiti:
      • Dott. Luigi Busoni, Tax Manager Gruppo IKEA Italia;
      • Dott. Gianluca D’Aula, Tax Manager Gruppo ILLY Caffè (in attesa di conferma);
      • Avv. Sergio Sottocasa Biani, Tributarista in Milano;
      • Dott. Alessio Rombolotti, Analista di transfer pricing, Melillo & Partners Studio Legale Tributario;
      • Avv. Massimiliano Sammarco, Tributarista in Roma;
      • Dott. Marco Cardillo, Funzionario tributario presso l’Agenzia delle Entrate (in attesa di conferma);
      • Col. t. SFP Cesare Maragoni, Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia;
      • Avv. Serena Giglio, Tributarista in Roma, Direttore Responsabile di ECONOMIAeDIRITTO.it;
      • Avv. Claudia Marinozzi, Tributarista in Milano, (in attesa di conferma).

gli eventi sono organizzati in collaborazione con:

La sede dei corsi per i Professionisti è Milano, Via Santa Maria Valle 3. I posti disponibili sono 65.

Tutti gli eventi sono stati accreditati dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Milano. Ai partecipanti verrà rilasciato apposito attestato ai fini del riconoscimento dei CFP.

La sede dei Corsi è Milano, Via Santa Maria Valle, 3.

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Melillo & Partners Studio Legale Tributario

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(di Federico Tosone)

Con Legge 11 marzo 2014 n. 23 – entrata in vigore il successivo 27 marzo 2014 – il Parlamento ha conferito al Governo la delega ad adottare decreti legislativi recanti la riforma del sistema fiscale con particolare riferimento al contenzioso tributario, al sistema di riscossione ad opera degli enti locali, all’evasione fiscale, ed, infine, al sistema sanzionatorio penal/tributario.

Sotto quest’ultimo profilo, la delega parlamentare consente altresì al Governo di prevedere un incremento del trattamento sanzionatorio – purché resti contenuto fra un minimo di sei mesi ad un massimo di sei anni – per gli illeciti tributari realizzati mediante comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione di documentazione falsa.

Inoltre, viene delegato al Governo il potere di individuare i confini tra le fattispecie di elusione ed evasione fiscale, regolare l’efficacia attenuante o esimente dell’adesione alle forme di cooperazione con l’amministrazione finanziaria e – soprattutto – prevedere la revisione del regime del reato di dichiarazione infedele, oltre alla possibilità di ridurre il sistema sanzionatorio per le fattispecie meno gravi o applicare sanzioni amministrative, anziché penali, sulla base di adeguate soglie di punibilità.

Sicché, il 24 dicembre 2014 il Consiglio dei Ministri ha approvato uno Schema di Decreto Legislativo recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente.

Tra le principali novità proposte, vi è l’introduzione nella L. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente) dell’art. 10-bis – disciplinante l’abuso del diritto o elusione fiscale -.

Ai sensi di quest’ultima norma, l’istituto dell’abuso del diritto sarebbe configurato in caso di operazioni prive di sostanza economica che, indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzino vantaggi di natura fiscale. Diversamente, e sempre secondo la proposta di riforma, non costituirebbero una condotta abusiva le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali – anche di ordine organizzativo o gestionale – volte al miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale del contribuente.

Meritevole di un maggiore approfondimento è, invece, la revisione del sistema sanzionatorio penale/tributario che il Governo intende mettere in atto attraverso la riforma di diverse fattispecie delittuose già previste all’interno del D. Lvo 74/2000.

In particolare, il delitto di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D. Lvo 74/2000 rimarrebbe sostanzialmente invariato nella descrizione della condotta tipica, risultandone tuttavia mutata la disciplina della punibilità per effetto della previsione di un’unica soglia di rilevanza penale – fissata ad Euro 1.000 – calcolata sul valore degli elementi passivi indicati nella dichiarazione per effetto dell’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

Per ciò che concerne il diverso reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 D. Lvo 74/2000, il Governo ha inteso elevare la soglia di rilevanza penale del fatto/tipico fissando ad un 1.500.000 di Euro l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione per mezzo delle operazioni simulate ivi descritte – ferma restando l’alternativa applicabilità della diversa soglia del 5% computata sul rapporto tra i medesimi attivi sottratti all’imposizione e l’ammontare complessivo di quelli realmente indicati dal contribuente -.

Con riferimento al reato di cui all’art. 4 D. Lvo 74/2000 in materia di dichiarazione infedele la proposta di riforma è ancor più pregnante.

Infatti, la nuova formulazione del medesimo art. 4 D. Lvo 74/2000 prevedrebbe l’incremento da Euro 50.000 ad Euro 150.000 del valore dell’imposta evasa – ossia la soglia di punibilità prevista alla lettera a) del primo comma della norma – oltre all’aumento da 2 a 3 milioni di Euro della concorrente soglia di punibilità corrispondente all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione.

Inoltre – e sempre in materia di dichiarazione infedele – vengono introdotte una serie di disposizioni ulteriori (dal comma 1-bis al comma 1-quinquies) aventi ad oggetto la disciplina di alcune ipotesi esimenti speciali (commi 1-quater e 1-quinquies), nonché di un’autonoma figura delittuosa (comma 1-ter) la cui condotta tipica – punita con la reclusione da uno a tre anni – consisterebbe nell’indicazione nella dichiarazione annuale di sostituto di imposta di un ammontare di compensi, interessi ed altre somme inferiori a quelle effettive, qualora l’ammontare delle ritenute non versate sia superiore ad Euro 50.000.

Con riferimento al delitto di omessa dichiarazione ex art. 5 D. Lvo 74/2000, sono invece previsti cospicui aumenti di pena – ossia la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni anziché da uno a tre anni – oltre ad un incremento della soglia di punibilità attualmente fissata in Euro 30.000 sul valore dell’imposta evasa.

Ancora, in relazione al delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 8 D. Lvo 74/2000, la riforma prevede l’introduzione di una soglia di punibilità fissata ad Euro 1.000 per ciascun periodo di imposta – corrispondente all’importo complessivo non rispondente al vero indicato nei suddetti documenti.

Ne risulta inasprito – invece – il trattamento sanzionatorio in materia di occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 D. Lvo 74/2000) la cui cornice edittale viene portata ad un minimo di un anno e sei mesi ad un massimo di sei anni di reclusione.

Infine, per ciò che concerne i reati di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D. Lvo 74/2000) ed omesso versamento I.V.A. (art. 10-ter D. Lvo 74/2000) – viene innalzata la soglia di non punibilità dei rispettivi fatti/tipici da Euro 50.000 ad Euro 150.000 -.

Tuttavia, è la previsione di un nuovo art. 19-bis al D. Lvo 74/2000, rubricato come “Causa di esclusione di punibilità”, che ha scatenato polemiche per i presunti risvolti favorevoli nei confronti dell’On. Silvio Berlusconi – in relazione alla sentenza definitiva sui diritti Mediaset – tali da imporre al Governo di rinviare l’approvazione finale del provvedimento in esame a data da destinarsi – previa adunanza del Consiglio dei Ministri onde provvedere alle opportune modifiche al testo della medesima norma o alla sua possibile eliminazione.

Ciò detto, il testo dell’art. 19-bis – che verrà certamente modificatoprevede l’esclusione della punibilità della condotta per i tutti reati/fiscali allorquando l’importo delle imposte sui redditi evase non sia superiore al 3% del reddito imponibile dichiarato, ovvero, l’importo dell’I.V.A. evasa non sia superiore al 3% dell’I.V.A. dichiarata.

Tale norma ha scatenato ingenti polemiche mediatiche per la presunta finalità – o effetto indesiderato – di favorire Silvio Berlusconi nella suddetta vicenda giudiziaria in materia tributaria.

Quest’ultimo, invero, è stato condannato a quattro anni di reclusione e a due anni di interdizione dai pubblici uffici per una frode fiscale inferiore al suddetto limite del 3% rispetto all’accertato reddito imponibile.

In effetti, il tenore letterale della norma – così come formulata ab origine – consentirebbe a Silvio Berlusconi di ottenere la revoca della sentenza di condanna e – per l’effetto – l’esclusione degli effetti a proprio carico conseguenti all’applicabilità della celeberrima Legge Severino, con particolare riferimento alla sanzione dell’incandidabilità di natura politica.

Di talché, la formulazione della norma in questione ha imposto al Governo di bloccare la definitiva approvazione del decreto legislativo sulla certezza dei rapporti tra fisco e contribuente.

Sembrerebbe che il Governo – onde ovviare all’errore di natura politica – debba compiere la seguente ed ardua scelta: provvedere alla cancellazione della suddetta norma, che introduce una franchigia per la commissione dei reati tributari corrispondente al 3% dell’evasione d’imposta, o mantenerla ad esclusione dei reati di frode, o meglio, di dichiarazioni fraudolente mediante atti simulatori o attraverso l’emissione di documenti falsi per operazioni inesistenti.

A parere di chi scrive, i risvolti politici della vicenda hanno distolto l’attenzione dalla reale problematica dell’ordinamento tributario italiano, ossia, la carenza di certezza e trasparenza dei rapporti giuridici tra fisco e contribuente, oltre all’impellente esigenza legislativa di contemperare – secondo un generale principio di proporzionalità – la legittima pretesa sanzionatoria delle condotte illecite alla reale gravità delle stesse ed alla portata lesiva ai danni dell’Amministrazione finanziaria.

A tal proposito, si evidenzia che – sulla base della delega conferita con la L. 23/2014 – il Governo era altresì chiamato ad un atteso intervento sulla disciplina del raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento fiscale in presenza della commissione di reati tributari ex D. Lvo 74/2000.

Sotto questo profilo, il Governo ha tuttavia perso una notevole occasione per regolare in modo più pregnante e certo la disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento tributario in ipotesi di violazioni fiscali contestualmente costituenti fatti/reato puniti dal D. Lvo 74/2000.

Infatti, nello schema di decreto legislativo di attuazione della legge delega viene disposta esclusivamente l’addizione agli artt. 43, III comma, D.P.R. 600/1973 e 57, III comma, D.P.R. 633/1972 – che prevedono il raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento fiscale in caso di violazioni fiscali che comportano l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 C.p.p. – della mera locuzione “il raddoppio opera a condizione che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza ordinaria dei termini”.

E’ evidente che quest’ultimo intervento costituisce una riforma solo apparente e priva di un rilievo degno di nota – non assolvendo all’espressa finalità di rendere certi i rapporti tra Erario e contribuente anche mediante l’introduzione di una disciplina più rigorosa del complesso tema del raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento tributario nelle ipotesi in commento -.

E’ dunque inequivocabile come una strutturale e ponderata riforma del sistema fiscale italiano, unita all’agognata riforma della giustizia, costituiscano gli elementi cardine per rendere il nostro Paese più credibile e soprattutto appetibile agli investitori italiani ed esteri.

Si auspica pertanto che il Consiglio dei Ministri – chiamato a revisionare lo schema di decreto legislativo da approvare in via definitiva – non si limiti a formulare una mera modifica della soglia generale di esclusione della punibilità del 3% di cui al novello art. 19 bis D. Lvo 74/2000 (rapporto tra imposta evasa ed imponibile).

E’ invero opportuno che l’Esecutivo estenda i propositi di riforma – anche in una fase successiva con il coinvolgimento diretto del Parlamento – ad altri e ben più rilevanti profili tutt’ora oscuri, oltre che ingiustificatamente sbilanciati – del rapporto tra Fisco e Contribuente, quali, a titolo esemplificativo, la disciplina del raddoppio dei termini di decadenza dell’accertamento tributario, in uno alle fattispecie incriminatrici relative al mancato o parziale adempimento di obblighi fiscali a cagione del salvataggio dell’impresa in crisi o del mantenimento di adeguati livelli occupazionali.

(di Mauro Merola)

La voluntary disclosure è un procedimento di “pacificazione fiscale” tra il contribuente e l’Amministrazione, ad iniziativa del contribuente stesso. Nato negli Stati Uniti negli anni ’90, è tornato d’attualità nei programmi di emersione per i depositi esteri promossi da vari Paesi europei.

Il pregio della voluntary disclosure consiste  nel valorizzare l’atteggiamento collaborativo del contribuente, che, rendendo ammissione piena e veritiera delle violazioni commesse,può beneficiare della riduzione delle sanzioni amministrative edella esclusione della punibilità penale per tutti i reati dichiarativi, compresi quelli fraudolenti.

Anche l’Italia sta per dotarsi di detto strumento come è ampliamente testimoniato dal testo di legge approvato in data 16 ottobre 2014 dalla Camera dei Deputati (i.e., DDL Stabilità) ed atteso al giudizio del Senato.

La strada scelta è quella della procedura contraddittoria, certamente più gravosa rispetto a quella rappresentata dal ravvedimento operoso,che permette di regolarizzare la posizione del contribuente attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa.

L’istituto del ravvedimento operoso, come previsto dal testo di legge contenuto nel  DDL Stabilità in corso di approvazione, subirà dei cambiamenti rilevanti rispetto alla vecchia formulazione della procedura ex art. 13 del dlgs 472/97. Infatti, Il nuovo ravvedimento sarà attivabile per tutte le annualità per le quali il potere di accertamento dell’amministrazione finanziaria non risulta colpito da decadenza, anche nel caso in cui siano state avviate attività istruttorie come accessi, ispezioni e verifiche.

Al contrario, nella voluntary estera, l’onere documentale a carico del contribuente è alquanto gravoso: si va dalla produzione degli estratti conto relativi ai rapporti i cui saldi non sono stati indicati nel quadro RW, alla ricostruzione di prelevamenti e versamenti ed alla dimostrazione dell’origine della provvista estera non dichiarata.  Tutto ciò comporta una notevole esposizione del contribuente nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria ed un carico di attività complesse da realizzare e di costi di compliance, che potrebbero essere più alti di quanto ci si attende.

Tuttavia, anche se rispetto ad altre formule citate appare più gravosa la posizione del contribuente relativamente alla fase del contradditorio, la voluntary disclosure ha la peculiarità di garantire l’esclusione della punibilità per tutti i reati tributari dichiarativi, compresi quelli fraudolenti – restano punibili solo l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e la distruzione o occultamento di scritture contabili – il riciclaggio e l’autoriciclaggio aventi ad oggetto i fondi emersi nell’ambito della procedura.

L’ampiezza delle coperture penali della collaborazione volontaria dipende proprio dalla natura confessoria della procedura, in cui l’assunzione di responsabilità da parte del contribuente nei confronti dell’Agenzia delle Entrate è considerato un elemento premiale dal legislatore ai fini dell’esclusione della punibilità penale.

L’istituto del ravvedimento, anche nella sua nuova formulazione,si basa, di contro, su una dichiarazione di scienza, sempre modificabile e ritrattabile, che può essere presentata anche quando sono iniziati accessi, ispezioni e verifiche.

Per quanto detto, il nuovo ravvedimento non è assistito da coperture penali proprio perché manca la dichiarazione confessoria del contribuente che è alla base dell’istituto della voluntary disclosure.

Infatti, la presentazione di una dichiarazione integrativa non tutela il contribuente dal rischio che possa essere configurato ai suoi danni il delitto di autoriciclaggio nel caso di movimentazione delle somme depositate all’estero in modo tale da spezzarne la tracciabilità; in conclusione, l’istituto del nuovo ravvedimento deve fare i conti con il delitto di autoriciclaggio che si configura in caso di operazioni tendenti a dissimulare la provenienza delittuosa di somme.

In conclusione, la voluntary disclosure non può essere analizzata correttamente se non attraverso un confronto costruttivo con il nuovo ravvedimento operoso. Premesso che al momento la sfera di applicazione dell’istituto è limitata ai soli redditi ed ai capitali di origine estera, appare interessante la ratio che lo sottende.

Infatti, la volontà del legislatore sembra quella di voler sviluppare una nuova dialettica tra il contribuente e l’Amministrazione Finanziaria, in grado di garantire alla Stato il recupero di nuove entrate in cambio di maggiore elasticità nei confronti di coloro che abbiano operato azioni qualificabili fiscalmente come elusive ed evasive.

Soltanto il futuro ci permetterà di verificare quali effetti detto istituto potrà garantire e se la ratio della voluntary disclosure potrà rappresentare il nuovo approccio dei rapporti tra l’Amministrazione Finanziaria ed il contribuente.

(di Pietro Pavone)

Non c’è pace per gli studi di settore.

Da sempre lo strumento di accertamento più tormentato tra quelli a disposizione del Fisco e più volte al centro di una vera e propria rivolta sociale che ne ha esaltato il mito più che coglierne la realtà, gli studi di settore tornano a far parlare di sé.

Sull’onda della generale strategia dell’Amministrazione Finanziaria di concentrare gli sforzi sulla “grande evasione”, soprattutto mediante verifiche “mirate”, è notizia degli ultimi giorni quella della volontà di fare degli studi settore “un mezzo più di selezione dei soggetti da controllare che la leva per controlli diretti”[1].

Un cambio di veste, dunque, che si colloca in un progetto di più ampio respiro e che probabilmente si è reso necessario anche dato il sostanziale fallimento degli studi come in origine concepiti. Il particolare strumento accertativo è stato infatti oggetto di innumerevoli interventi giurisprudenziali nonché di circolari emanate dall’Amministrazione Finanziaria, volti a rendere il risultato statistico sempre più rispondente alla realtà economica esaminata: chiarimenti, delucidazioni e correzioni “in corso” mai davvero efficaci che hanno fatto degli studi di settore una sorta di “potenzialità inespressa” all’italiana.

In realtà, la lista degli accertamenti presuntivi sperimentati nel nostro paese negli ultimi trent’anni è ampia (Visentini-ter, coefficienti di congruità, coefficienti presuntivi, minimum tax, parametri economici, studi di settore, concordato preventivo di massa, pianificazione fiscale concordata): si tratta di una particolare filosofia fiscale che – nel caso degli studi di settore – si basa sul c.d. reddito “normale”, concetto distante anni luce da quel reddito “effettivo” che per anni la legislazione fiscale del nostro paese ha cercato di catturare.

La vexata quaestio della “normalità” del reddito è stata la causa principale dell’instabilità normativa degli studi: in sostanza, si è cercato di creare un “modello virtuale di contribuente” da raffrontare anno per anno con il contribuente “reale”; una vera e propria “invenzione tributaria” da adeguare al singolo caso concreto, per renderla veramente efficace.

Non pare azzardato sostenere che sia stata proprio la traduzione pratica della citata necessità di adeguamento al singolo caso concreto il vero “tallone d’Achille” degli studi di settore: in altri termini, ogni qualvolta si rilevi uno scostamento del reddito prodotto dal contribuente con quello ritenuto “normale” tale per cui il contribuente venga etichettato come “non congruo”, lo spettro del contenzioso tributario si fa particolarmente ampio.

Infatti, è ormai pacifico che la “non congruità” da sola non basta ma occorre che sia debitamente supportata con ulteriori prove riferite specificatamente all’attività attenzionata, non essendo sufficienti elementi solo genericamente riferibili al contribuente (quali gli standards sviluppati da GeRiCo).

In altre parole, l’astrattezza dell’elaborazione derivante dagli strumenti “standardizzati” (quali sono appunto gli studi di settore) necessita di essere verificata e il ponte tra gli uffici dell’Amministrazione Finanziaria e il contribuente è rappresentato dal contraddittorio[2] con quest’ultimo.Il contraddittorio, previsto espressamente dall’art. 10, comma 3-bis, L. 8.5.1998, n. 146, rappresenta quindi lo strumento con cui adeguare alla concreta realtà economica del singolo contribuente, il risultato stimato dallo studio di settore.

Privo dell’elemento essenziale del contraddittorio con il contribuente, lo studio di settore è uno strumento di accertamento monco ed impotente con il rischio che il reddito “normale” resti tale sempre e solamente per il Fisco.

Dato questo scenario, in alcuni casi si è assistito al libero sfogo della fantasia dei contribuenti in tema di cause giustificative da poter esperire in contraddittorio per “eludere” GeRiCo, cioè per dimostrare la non adattabilità dello studio alle specifiche condizioni di esercizio e alle caratteristiche della propria attività. Assai frequenti sono soprattutto i casi di situazioni contingenti “soggettive” attribuibili tanto al soggetto dell’imprenditore o del professionista, quanto alla struttura imprenditoriale o professionale.

Giova, altresì, sottolineare che il contraddittorio non è sufficiente che sia semplicemente garantito ma la motivazione dell’atto di accertamento deve essere integrata con le ragioni sollevate dall’Ufficio, in sede di contraddittorio, in risposta alle eventuali contestazioni ed osservazioni sollevate dal contribuente, giacché “è illegittimo l’accertamento basato sul mero scostamento dei dati dichiarati dal contribuente, rispetto a quelli relativi alla media del settore, senza che l’Amministrazione Finanziaria dia spiegazioni del mancato accoglimento delle giustificazioni portate dal contribuente in sede di contradditorio”. Questo è quanto sostenuto dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 9712 del 6 maggio 2014.

Come detto, la storia degli studi di settori è una storia travagliata: dapprima la Corte di Cassazione ha riconosciuto che “gli scostamenti devono essere integrati da altri elementi e da una robusta dose di contraddittorio fra uffici e contribuenti”, successivamente alcuni correttivi hanno tenuto conto dell’impatto della crisi sui ricavi. La conseguente perdita di efficacia dello strumento accertativo è stata inevitabile.

Oggi, gli studi di settore si “reinventano” e la rinnovata finalità degli stessi si collega al piano antievasione del Governo dove si parla esplicitamente della necessità di elaborare “con prevedibili effetti già per l’annualità di imposta 2014, nuovi indicatori di coerenza economica e di normalità economica”.

La nuova dimensione degli studi di settore ben si inserisce nel solco di studi rappresentato dal progetto di ricerca sul tema della “Criminologia e Criminalistica Tributaria”, cui si è più volte fatto cenno nei precedenti Numeri della presente Rubrica di ECONOMIAeDIRITTO.

Non è un caso che un limite agli studi di settore (come concepiti fino ad oggi) sia stato da molti riscontrato nella loro innata tendenza a colpire quasi esclusivamente l’evasione marginale degli operatori di più piccole dimensioni[3]. La mutata filosofia sottesa allo strumento accertativo in parola potrebbe essere l’occasione per codificare i comportamenti evasivi delle grandi imprese, nella convinzione di fare della migliore selezione dei contribuenti più a rischio il vero vantaggio competitivo della moderna lotta ai fenomeni – anche internazionali – di base erosion.

Anche il clima politico sembra essere quello giusto: “la delega fiscale è una grande occasione per tutti. Lo è proprio perché tutti sanno quanto complesso e deteriorato sia il sistema fiscale italiano.

L’occasione, però, non va solo riconosciuta e apprezzata. Va sfruttata in tutti i modi per ricostruire una realtà di minore conflittualità e di maggiore collaborazione tra Fisco e contribuente (…)”[4].

Gli opachi intrecci internazionali dei grandi gruppi societari che creano, spostano e “puliscono” capitali di matrice criminale possono essere fermati – rinunciando finalmente a rincorrerli – sviluppando ab origine una cultura dell’analisi del rischio.

In tema di risk management si sottolinea che informazioni relative ad incongruenze legate agli studi di settore vengono di norma già utilizzate dai singoli Reparti territoriali della Guardia di Finanza quali fonti di innesco nella programmazione annuale dell’attività di verifica e controllo, nell’ambito dell’ordinaria attività di contrasto all’evasione parziale, benché, in tali casi, venga di norma istruita un’azione ispettiva, anche di carattere indiretto-presuntivo, fondata su altre metodologie, corrispondenti a quelle generalmente adottate nei riguardi di tutte le imprese di minori dimensioni e dei lavoratori autonomi.

Una sorta di anticipazione, in piccolo, del nuovo modo di concepire gli studi di settore.

Note

[1] Così Il Sole24Ore n. 218 del 10 agosto 2014.

[2] Per la Suprema Corte gli studi di settore, pur costituendo uno strumento più raffinato dei parametri, in quanto la loro elaborazione prevede peraltro una diretta collaborazione delle categorie interessate, rimangono comunque il frutto di elaborazioni statistiche, di natura probabilistica che, per quanto seriamente approssimate, sono inquadrabili nell’ambito delle “presunzioni semplici”. Più in dettaglio, i Supremi Giudici hanno affermato il seguente principio: “La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (…)”.

[3] L’art. 10, co. 4, L. 146/1998 stabilisce che sono esclusi dall’applicazione degli studi di settore i soggetti che dichiarano ricavi/compensi superiori a 5.164.569 euro.

[4] Il Sole24Ore n. 218 del 10 agosto 2014.

(di Marco Cardillo)

La Sezione V della Cassazione Civile, con la sentenza n. 17646 del 06/08/2014, ha ribadito che la   procedura   di   accertamento,   mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto ai valori ‘standards’. Infatti quest’ultimi sono solamente degli strumenti di ricostruzione statistica finalizzati alla determinazione della redditività normale, quindi è obbligatorio instaurare un contraddittorio tra l’Amministrazione Finanziaria ed il contribuente, pena la nullità dell’accertamento1.

Il contribuente in contraddittorio deve provare la presenza di condizioni che motivano la sua esclusione dall’applicazione degli studi di settore. A tutela del contribuente è previsto l’obbligo per l’Amministrazione Finanziaria di motivare l’avviso di accertamento.

La motivazione dell’atto deve:

¨      spiegare lo scostamento,

¨      dimostrare l’applicabilità in concreto dei parametri o degli studi di settore,

¨      illustrare le ragioni per le quali sono stati disattesi i chiarimenti del contribuente.

Da questa pronuncia giurisprudenziale si rileva che nell’attività istruttoria basata su parametri o studi di settore:

1.      è una presunzione semplice l’applicazione degli ‘standards’;

2.      l’A.F. è obbligata ad invitare il contribuente al contraddittorio;

3.      il contribuente ha il diritto di giustificare lo scostamento in sede di contraddittorio;

4.      la motivazione dell’avviso di accertamento deve illustrare le ragioni che hanno portato l’ufficio a non ritenere sufficienti i chiarimenti del contribuente.

Nel caso in cui il contribuente invitato al contraddittorio non si presenti, ovvero si astenga dall’illustrare le condizioni che motivano la sua esclusione dall’applicazione degli studi di settore, l’Agenzia delle Entrate ‹non è tenuta   ad   offrire   alcuna   ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata con l’applicazione dei parametri›2.

Note

1 Principio già enunciata dalla Suprema Corte di Cassazione nelle sentenze 26635/09, 7181/12, 6929/13 e 10040/14.

2 Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 17646 del 06/08/2014

(di Marco Cardillo)

La Cassazione Civile, Sez. VI – 5 – con la sentenza n. 16183 del 15/07/2014 ha ribadito il principio secondo cui la procedura di interpello ex art. 37 bis, comma 8 del D.P.R. n. 600 del 1973 costituisce per il contribuente la facoltà di conseguire una certezza nei rapporti con l’Amministrazione Finanziaria, in caso di risposta positiva di quest’ultima.

La materia del contendere verteva sul fatto che l’Amministrazione Finanziaria non aveva riconosciuto un rimborso di un credito IVA ad una società considerata “non operativa”: riteneva infatti essenziale, per il rimborso del credito IVA o della sua eventuale compensazione tramite modello F24, la presentazione dell’istanza di interpello da parte della società “non operativa”, in quanto le società e gli enti non operativi possono solo riportare il credito all’anno successivo.

La Suprema Corte di Cassazione ha espresso, invece, il principio di diritto che al contribuente è sempre consentito di fornire in giudizio la prova delle condizioni che consentono di superare la presunzione posta dalla legge a suo danno, come anche precisato dalla sentenza n. 17010 del 05/10/2012. Si è precisato così che a carico del contribuente non è previsto nessun obbligo di presentazione dell’interpello per il superamento della presunzione delle disposizioni anti-elusive.

Nel caso di specie, il contribuente ha così potuto fornire argomentazioni utili a vincere le presunzioni di legge in giudizio, vedendosi riconoscere il diritto al rimborso del credito IVA.

Risulta opportuno sottolineare che parte della giurisprudenza (1) considera impugnabile il diniego di disapplicazione della normativa sulle società di comodo,, ai sensi dell’art. 19, comma 1 lettera h) del D.Lgs. n. 546/1992, in quanto qualificabile come diniego di agevolazione fiscale.

Pertanto sarebbe demandato al giudice tributario la valutazione di legittimità dell’atto e di conseguenza quest’ultimo dovrebbe entrare nel merito della domanda di disapplicazione e rilevare la sussistenza dei presupposti per la disapplicazione della normativa anti-elusiva. Quindi secondo questa interpretazione giurisprudenziale l’impugnazione del diniego di disapplicazione dovrebbe avvenire nei termini di legge previsti; nel caso in cui non fosse proposto il ricorso nei termini, il contribuente non potrà contestare in un momento successivo l’atto di diniego.

 

(di Serena Giglio e Alessandro Blatti)

Capita spesso che i contribuenti per errore indichino in dichiarazione un ammontare di imposte inferiore a quello effettivamente dovuto, salvo poi “correggere il tiro” presentando la dichiarazione integrativa e versando la differenza dovuta.

Ebbene, di fronte a tale fattispecie, di regolae, l’Agenzia delle Entrate applica una doppia sanzione, e cioè sia quella per dichiarazione infedele (sanziona amministrativa che va dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito ai sensi del comma 2 dell’art. 1 del D.lgs. n. 471/1997), che quella per ritardato versamento (sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato o versato in ritardo, ai sensi del comma 1, art. 13 del D.lgs. n. 471/1997). Tale prassi finisce per equiparare, paradossalmente, i contribuenti “virtuosi” – che pongono rimedio all’errore commesso (e che risultano puniti, come detto, con duplice sanzione e cioè quella per infedele dichiarazione e per ritardato versamento) – a quelli “inerti” (colpiti dal medesimo trattamento sanzionatorio ossia dalla sanzione per infedele dichiarazione e da quella per omesso versamento).

Il presente contributo si propone di affrontare tale tematica ed offrire possibili rimedi interpretativi che risultano, peraltro, già insiti nel nostro sistema fiscale.

In primis, si deve ricordare che, in tema di dichiarazione infedele, il comma 2 del sopracitato articolo 1 del D.lgs. n. 471/1997 dispone che: “Se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante, si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito. La stessa sanzione si applica se nella dichiarazione sono esposte indebite detrazioni d’imposta ovvero indebite deduzioni dall’imponibile, anche se esse sono state attribuite in sede di ritenuta alla fonte”.

Inoltre, con riferimento ai casi di omesso versamento il comma 1 del suddetto art. 13 del D.lgs. n. 471/1997 prevede che: “Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al primo periodo, oltre a quanto previsto dal comma 1 dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo. Identica sanzione si applica nei casi di liquidazione della maggior imposta ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e ai sensi dell’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.

Pertanto, le due sopra richiamate norme disciplinano in maniera specifica un determinato comportamento di tipo omissivo posto in essere da parte del contribuente.

In particolare, la prima norma (i.e. ilcomma 2 dell’art. 1 del D.lgs. n. 471/1997) è volta a sanzionare quel soggetto che indichi in dichiarazione un minor reddito imponibile, una minore imposta o un maggior credito rispetto a quanto effettivamente spettante.

La seconda norma (i.e. il comma 1 dell’art. 13 del D.lgs. n. 471/1997) è, invece, volta a sanzionare colui che non esegue, in tutto o in parte, entro le prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione.

Di conseguenza, apparo chiaro che le suddette norme sono chiaramente chiamate a disciplinare due diverse situazioni.

Tuttavia, occorre rilevare che l’implicazione logica tra la violazione di infedele dichiarazione e quella di omesso (o ritardato) versamento deve essere interpretata nel senso che la prima, e cioè l’infedele dichiarazione – connotata da un disvalore maggiore rispetto alla violazione di omesso ovvero ritardato versamento – si pone in un rapporto di totale “assorbenza” rispetto alla seconda.

E, difatti, vale ricordare che la violazione dell’“infedele dichiarazione”, di cui all’art. 1 del D.lgs. n. 471/1997, in materia di sanzioni, ricorre, tra le altre cose, quando – come nel caso di specie – viene dichiarata un’imposta inferiore a quella dovuta (cfr.: comma 2, art. 1, D.lgs. n. 471/97) e risulta sanzionata per un importo elevato, compreso, in specie, tra il 100 ed il 200 per cento della maggiore imposta dovuta e non versata.

Orbene, come graniticamente riconosciuto, tanto dalla Dottrina quando dalla Giurisprudenza, “analogamente a[lla] dichiarazione omessa, si ritiene che la sanzione prevista per la dichiarazione infedele assorba quella stabilita per l’omesso versamento della maggiore imposta non dichiarata. Pertanto, nel caso di maggiore imposta pari a 100, troverà applicazione solo la sanzione dal 100 al 200 per cento e non anche quella del 30 per cento applicabile all’omesso versamento” (Cfr.: Roberto Fanelli, “Sanzioni fiscali, previdenziali e societarie”, XI Ed., IPSOA, 2011, pag. 204).

In altre parole, “nel nostro sistema punitivo la sanzione per omessa dichiarazione [al pari di quella per infedele dichiarazione] assorbe anche l’omesso versamento, che non può essere contestato in tali casi in via autonoma o tantomeno aggiuntiva” (cfr.: Prof. Cordeiro Guerra, “Il Global Service non sconta l’accisa sull’energia elettrica”, in GT – Riv. Giur. Trib., 2010, pag. 623).

E’, peraltro, evidente che, per intuitive ragioni di ordine logico-sistematico, analogo ragionamento a quello condotto per l’omesso versamento può essere agevolmente fatto per la violazione del ritardato versamento, essendo tale fattispecie contemplata nella stessa disposizione – l’art. 13 del D.lgs. n. 471/97 – dell’omesso versamento e sanzionata in identica misura (i.e. 30% di quanto non versato ovvero versato in ritardo) rispetto a quest’ultima violazione.

A favore di un’“assorbenza” tra l’infedele dichiarazione e l’omesso/ritardato versamento, peraltro, si sono pronunciate – con giurisprudenza assolutamente costante – anche le Corti di merito, che hanno affermato come “l’omesso versamento va riferito all’ipotesi di imposte dichiarate da versare ma non versate, e non anche all’ipotesi di imposte non dichiarate e quindi formalmente non da versare. Per queste ultime c’è infatti già la sanzione per l’omessa o infedele dichiarazione, ben più pesante – in quanto tiene conto anche della implicita intenzione di non versare il quantum non dichiarato – di quella per il semplice omesso versamento di imposte già dichiarate” (cfr: Commissione tributaria regionale del Piemonte, sez. 38, 30 ottobre 2003, n. 21).

Ad analoghe conclusioni giunge la Commissione tributaria Provinciale di Milano, sez. 3, con sentenza del 9 marzo 2010, n. 94, sostenendo che “la sanzione per omesso versamento può essere irrogata solo in relazione ad un’imposta dichiarata e non versata”.

Di identico avviso, anche la Commissione tributaria provinciale di Ravenna, sez. 1, 28 marzo 2011, n. 57, ove afferma che “sul piano logico l’infedeltà della dichiarazione comporta sempre l’omissione totale o parziale dei versamenti. L’omesso versamento risulta già represso con la più grave sanzione, prevista per omessa o infedele dichiarazione … Viceversa la sanzione per omesso versamento … può essere irrogata solo in relazione ad un’imposta che sia stata dichiarata, e non versata.

In tal senso, si segnalano anche le sentenze della Comm. trib. prov. Vicenza, sez. 4, 28 ottobre 2011, n.92, Comm. trib. prov. Ravenna, sez. 1, 10 febbraio 2009, n. 28, CTR di Milano, sez. 32, 22 novembre 2013, n. 141/32/13, ove si afferma che “la sanzione per infedele dichiarazione deve ritenersi assorbente relativamente a quella per tardivo versamento, in considerazione che l’infedele dichiarazione non può essere conseguenza dell’omesso versamento delle ritenute”.

Del resto, tale posizione è stata sposata anche dalla stessa Agenzia delle Entrate con orientamento più che consolidato, se si considera che nelle Istruzioni di compilazione del Modello Unico SC degli ultimi dieci anni, nell’Appendice rubricata “Sanzioni amministrative” si evidenzia come la sanzione del 30% per omesso/ritardato versamento si applica solo nell’ipotesi di dichiarazione presentata con ritardo non superiore a 90 giorni, mentre non si applica nelle ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione ovvero infedele dichiarazione, rimanendo evidentemente assorbita dalle più aspre sanzioni previste nel caso in cui si verifichino tali violazioni afferenti la dichiarazione.”

In aggiunta a quanto sopra, vale rilevare che la questione può essere riguardata anche dal punto di vista del cumulo giuridico e del concorso formale.

In specie, con riferimento al concorso formale, vale rilevare che il comma 1 dell’art. 12 del D.lgs. n. 472/97 dispone che: “E’ punito con la sanzione che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata da un quarto al doppio, chi, con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni anche relative a tributi diversi ovvero commette, anche con più azioni od omissioni, diverse violazioni formali della medesima disposizione”.

In particolare, si ricorda che il concorso formale è stato introdotto nel nostro Ordinamento fiscale – in ossequio ad un principio generale di favor rei accolto anche dall’art. 81 c.p. – per soppiantare il più aspro e repressivo trattamento previsto dal c.d. “cumulo materiale” delle sanzioni (consistente semplicemente nella sommatoria delle varie sanzioni previste per le diverse violazioni).

Tale fattispecie del concorso formale ricorre, ex comma 1 del menzionato art. 12 del D.lgs. n. 472/97, tutte le volte in cui con una sola azione od omissione si commettono violazioni tali da non incidere sulla corretta determinazione dell’imponibile ovvero liquidazione del tributo.

Ebbene, con riferimento al caso in disamina, si deve evidenziare che anche la CTR di Milano, con la sentenza della Sez. 32, n. 141/32/13, depositata il 22 novembre 2013, ha indagato sulla natura del rapporto intercorrente tra le due soprarichiamate violazioni, rilevando la sussistenza di un’ipotesi di cumulo giuridico.

In specie, è stato ribadito che nella fattispecie prospettata “non si tratta di più azioni (…) ma di un’unica azione, vale a dire mancato pagamento di quanto dovuto a saldo per il versamento delle ritenute operate. L’unica omissione è questa e da ciò deriva l’infedele dichiarazione e, quindi, il tardivo pagamento. Nel caso in esame si versa nell’ipotesi del cumulo giuridico, così come mutuato dal principio espresso dall’art. 81 c.p. con la conseguente applicazione della pena prevista per la violazione più grave. Infatti, con l’entrata in vigore dell’art. 12 D.lgs. n. 472/1997, la sanzione va applicata una sola volta in misura ridotta in luogo di quella derivante dalla materiale sommatoria delle sanzioni relative ai singoli illeciti (c.d. cumulo materiale). Si ribadisce che nel caso in esame si tratta di una sola omissione con cui sono state commesse più violazioni di legge e quindi la sanzione applicabile sarà unica.

In conclusione – preso atto dell’esistenza, all’interno dell’Ordinamento fiscale, di norme sanzionatorie adeguate (i.e. sanzione per dichiarazione infedele, ex comma 2 dell’art. 1 del D.lgs. n. 471/1997 e sanzione per ritardato versamento, ex comma 1, art. 13 del D.lgs. n. 471/1997) a colpire le diverse violazioni che possono essere poste in essere dal contribuente a seconda dell’entità del disvalore della condotta tenuta da quest’ultimo – occorre, poi, necessariamente, porle in un rapporto “gerarchico” così da riconoscere una volta per tutte che “il più comprende il meno”, sia che a tale risultato si arrivi mediante l’assorbenza che mediante l’istituto del cumulo giuridico. Solo un approccio di questo tipo, infatti, al quale si potrebbe arrivare, in via definitiva, con un’apposita novella legislativa, consentirebbe di garantire il rispetto del principio, di matrice europea, di proporzionalità delle sanzioni rispetto alle violazioni commesse ed al comportamento tenuto dal contribuente ed evitare che la resipiscenza, invece che premiata, risulti sanzionata non una, bensì due volte!

(a cura della Redazione)

In un mondo in cui capitali ed imprese non conoscono più frontiere, la fotografia del Fisco sulle tracce del contribuente con l’assedio ai centri off-shore si presenta dai contorni e gli angoli ingialliti dal tempo.

Nuovi scenari di politica criminale impongono oggi al Fisco di decidere le modalità operative con cui limitare i fenomeni di concorrenza fiscale dannosa tra Stati e con cui spingere alla compliance fiscale.

Si fa riferimento a tutti quei fenomeni criminali che sono il risultato di politiche fiscali aggressive da parte di uno Stato: in sostanza, il criminale evasore si esalta nelle zone di incoerenza tra legislazioni, massimizzando gli effetti indesiderati che la politica fiscale di uno Stato produce negli ordinamenti giuridici dei Paesi limitrofi.

Al fine di limitare tali “inconvenienti”, più che limitarsi a seguire la dinamica dei flussi transnazionali di reddito – con il rischio peraltro di perdersi nei labirinti strutturali dei colossi multinazionali – occorrerebbe che il Fisco ponga maggiore attenzione  all’analisi delle tax driven operations (operazioni fiscali pianificate) elaborate dai contribuenti, in modo da comprendere preliminarmente verso quale Paese sono diretti gli imponibili.

L’auspicata analisi preventiva non è di poco conto se si pensa alla distinzione tra regimi fiscali preferenziali (potenzialmente non ostili a politiche fiscali concertate) e paradisi fiscali in senso proprio (altamente poco propensi a cooperare).

La spiegazione del differente atteggiamento potenziale è alquanto intuitiva: i paesi con regimi fiscali preferenziali (i cui sistemi fiscali si basano su di una serie di norme agevolative) creano effetti indesiderati nei paesi limitrofi e – allo stesso tempo – subiscono gli effetti negativi di altre legislazioni, dunque vivono – paradossalmente – lo stesso problema che creano. I paesi catalogabili come paradisi fiscali, invece, dove l’imposizione fiscale sui redditi di fatto non esiste, non essendo esposti alla concorrenza fiscale dannosa di altri Stati, saranno con molta probabilità poco propensi a rendersi partecipi ad azioni concertate di politica fiscale internazionale.

Dal momento che le imprese in possesso di know-how in materia di pianificazione fiscale sono normalmente le grandi multinazionali, è corretto – come di fatto risulta stia avvenendo – che lo sforzo accertativo del Fisco si focalizzi sulle imprese di maggiori dimensioni.

Il legislatore italiano – in ossequio alle raccomandazioni OCSE e sull’onda di quanto già realizzatosi in altri Paesi – sta muovendo verso forme di cosiddetta “cooperazione rafforzata” con i contribuenti di maggiori dimensioni che si doteranno di un “sistema aziendale strutturato di gestione e di controllo del rischio fiscale” (Tax Control Framework).

Sembrerebbe, in sostanza, che la strategia scelta dal legislatore sia quella di rafforzare la riconosciuta centralità degli strumenti di corporate governance nella mitigazione dei rischi fiscali.

La Delega Fiscale di cui si discorre, però, nel prevedere l’inclusione dell’area tax all’interno dei sistemi di risk management, non prende in considerazione che in molti casi i contribuenti hanno già in essere un Tax Control Framework . Sembrerebbe, dunque, che l’accelerazione e l’enfasi imposte dalla Legge Delega sul tema del rischio fiscale suggeriscano, più precisamente, una verifica del grado di maturità del proprio sistema di gestione e controllo del rischio fiscale.

In attesa che gli operatori si cimentino nella complessa analisi della propria situazione di rischio, che comporterà uno sforzo organizzativo non trascurabile, ciò che preme qui evidenziare è il fatto che si dovrà chiaramente individuare nelle società la funzione che a carattere permanente e con continuità sarà incaricata della gestione e del controllo del rischio fiscale.

Come in questi giorni sottolineato da diversi quotidiani nazionali, problemi applicativi si pongono con riferimento a quei soggetti che – operando in particolari settori quali ad esempio quello finanziario – hanno già dovuto implementare procedure e sistemi in grado di presidiare il rischio di conformità alle norme (nell’ambito delle quali rientrano anche le norme di natura fiscale) e per i quali la legge ha individuato nel compliance officer, il soggetto responsabile.

Al riguardo Banca d’Italia nel documento per la consultazione contenente lo schema delle disposizioni di vigilanza in materia di controlli interni ha operato una sorta di “fuga in avanti” rispetto al decreto delegato ed ha posto sotto il compliance officerla verifica della conformità dell’attività aziendale alle normative di natura fiscale al fine di evitare di incorrere in violazioni o elusioni di tale normativa ovvero in situazioni di abuso del diritto, che possono determinare ripercussioni significative in termini di rischi operativi e di reputazione e conseguenti danni patrimoniali”.

Si tratta di capire ora se il legislatore opterà per l’istituzione di una figura specifica, magari prescelta nell’ambito della funzione fiscale.

Quale che sia la scelta è certo che il soggetto responsabile – in quanto operante nel quadro del complessivo sistema dei controlli interni – dovrà dialogare costantemente con le altre funzioni di controllo, così da mettere in moto un efficace flusso informativo endosocietario.

Inoltre, al fine di garantire un’efficace applicazione delle norma che sarà definita, è evidente che occorrerà anche disciplinare puntualmente i criteri e le modalità di valutazione sull’idoneità dei sistemi a presidio del rischio fiscale. In tal senso non è da escludersi la collaborazione con i soggetti incaricati del controllo contabile, ovvero del collegio sindacale.

Il Fisco, insomma, sembra aver preso finalmente coscienza del fatto che se è vero che alcuni fattori possono accentuare la necessità di esercitare l’azione penale, è altrettanto vero che altri, talvolta, possono indicare che sarebbe preferibile intraprendere un diverso corso d’azione: i secondi saranno tanto maggiori rispetto ai primi quanto più efficace sarà stata l’azione di prevenzione basata sull’analisi del rischio fiscale (tax risk approach).

Si noti, a tale proposito, che anche l’OCSE, nel 2010, aveva chiaramente affermato come “una delle lezioni più importanti della recente crisi è stato il fallimento della gestione dei rischi di un buon numero di società finanziarie e non finanziarie. Troppo spesso l’attenzione sembra essere stata concentrata sui controlli interni finalizzati alla rendicontazione finanziaria; così facendo la gestione dei rischi è distaccata dalla predisposizione delle strategie aziendali e dalla loro attuazione”.

Peraltro la recente cronaca economico-finanziaria ci ha reso spettatori del crollo di diverse società, sepolte dai duri interventi punitivi del Fisco; imprese che, spesso anche non dolosamente, hanno dovuto pagare il prezzo della sfrontatezza e/o leggerezza con cui si sono affacciate sui mercati esteri, ricorrendo poi ai ripari con linee difensive d’emergenza senza aver – a tempo debito – considerato quali potessero essere le tesi dell’accusa.

Se la storia insegna, nella nuova visione del rapporto Fisco – contribuente, appare dunque condivisibile la scelta di intervenire agendo in pancia alle società sui sistemi di controllo interno del rischio.

(di Federico Tosone)

Il 29 gennaio 2014 è entrato in vigore il decreto legge 28.01.2014 n. 4, che prevede all’art. 1 “disposizioni urgenti in materia di rientro di capitali detenuti all’estero e di lotta all’evasione fiscale”. L’art. 1 del testo in esame innesta una serie di norme (artt. 5-quater e ss.) in seno al decreto legge 28.06.1990 n. 167 (“rilevazione ai fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli valori”) disciplinanti la c.d. voluntary disclosure

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