Moneta legale o moneta bancaria?
(di Davide Storelli – Avvocato civilista, Direttore del Dipartimento di Economia dell’Università Popolare del Matese e docente presso l’Università internazionale delle Nazioni Unite, sede europea di Roma)
Lo Stato ha la prerogativa sovrana di individuare una moneta, la quale, da quel momento diventa “moneta di Stato” o “moneta legale”.
Lo Stato paga i propri fornitori interni in tale moneta ed impone il versamento dei tributi in tale moneta.
Dal momento in cui lo Stato, mediante un provvedimento legislativo, definisce la moneta di Stato, questa assume la proprietà di essere ritenuta liberatoria per legge delle obbligazioni pecuniarie, per cui il debitore si libera dalla propria obbligazione pecuniaria versando al creditore la somma richiesta in moneta di Stato.
Il creditore non può legittimamente rifiutare, da parte del debitore, l’adempimento della relativa prestazione mediante versamento della somma dovuta in moneta di Stato.
Nell’ordinamento italiano tale principio è sancito dall’art. 1277 c.c., rubricato “debito di somma di denaro”.
Ma che ne è della moneta cosiddetta bancaria o scritturale?
La moneta bancaria o scritturale è quella che nasce in conseguenza di mere scritture contabili effettuate dalle banche nei propri database.
Sono moneta bancaria o scritturale, per esempio, i bonifici bancari, gli assegni circolari, gli addebiti diretti, i versamenti mediante carte di credito, di debito o prepagate, e così via.
Si tratta di moneta scritturale proprio perché la banca, a fronte di un ordine di pagamento da parte del debitore – che può essere impartito in varie forme, sia cartacee, per esempio con assegni circolari, che elettroniche, per esempio con bonifici on line – si limita ad addebitare il conto del debitore e ad accreditare quello del creditore, o a trasferire la relativa informazione (per esempio: 100 da Tizio a Caio), in formato elettronico, presso la banca del creditore, qualora essa fosse differente da quella del debitore.
In ogni caso il trasferimento di moneta scritturale non prevede il trasferimento di moneta di Stato, in quanto non vi è versamento né di banconote né di monete metalliche.
Le banche sono in grado di gestire i pagamenti in moneta scritturale grazie ad una camera di compensazione interbancaria, che consente loro di regolare le rispettive partite creditorie e debitorie, ossia le disposizioni monetarie da una banca all’altra.
Un meccanismo analogo si riscontra per le transazioni internazionali, mentre i pagamenti transfrontalieri nell’Unione Europea vengono gestiti da una camera di compensazione definita sistema Target 2 (dove Target sta per Trans-European Automated Real-Time Gross Settlement Express Transfer System).
Se un debitore offre al creditore l’adempimento della propria obbligazione pecuniaria in moneta scritturale anziché in moneta di Stato può considerarsi legalmente liberato dalla propria obbligazione?
In altri termini, se per esempio Tizio deve 500 euro a Caio, può limitarsi ad offrirgli un assegno circolare invece di consegnarli 500 euro in banconote?
A questa domanda sembra che la Banca Centrale Europea abbia risposto di no, giacché ha chiaramente puntualizzato che la moneta scritturale, o moneta bancaria, non è moneta legale.
Ne consegue, in base a questa impostazione, che il creditore può legittimamente rifiutarsi di ricevere dal proprio debitore un pagamento che non sia in contanti.
Ma se il pagamento in questione dovesse superare la soglia prevista dalla legge per i pagamenti in contanti?
In questo caso sorgerebbe un vistoso conflitto normativo, poiché in buona sostanza, tale previsione normativa vieta di usare la moneta di Stato oltre una certa soglia, quindi tale norma collide evidentemente con la fondamentale norma di cui all’art. 1277 c.c., che detta un principio cardine per l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie.
Non si può, allo stesso tempo, imporre e vietare una certa modalità di estinzione delle obbligazioni pecuniarie. Una volta statuito che le obbligazioni pecuniarie si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato, non ha particolarmente senso statuire, con un differente provvedimento normativo, che per alcune obbligazioni pecuniarie (ossia quelle al di sopra di una certa soglia) la moneta avente corso legale nello Stato è inidonea al relativo adempimento.
O la moneta di Stato è idonea, anzi è legalmente prescritta, o non lo è.
Altrimenti il Legislatore sta evidenziando che, per tutta una serie di obbligazioni pecuniarie (ossia quelle al di sopra della soglia prefissata), la moneta avente corso legale nello Stato ha una efficacia liberatoria inferiore rispetto alla moneta bancaria (che è moneta privata) anzi, la moneta di Stato perde il proprio corso legale a favore del corso, divenuto legale oltre tale soglia, della moneta bancaria.
Non è una considerazione di poco conto. In pratica la moneta di Stato sarebbe moneta legale solo sotto una certa soglia, superata la quale, la moneta di Stato diverrebbe illegale mentre la moneta bancaria (privata) diverrebbe la nuova moneta legale. Forse non era questo l’intento dei Padri Costituenti.
Il cennato orientamento della Banca Centrale Europea sulla moneta bancaria è conforme alla Giurisprudenza italiana maggioritaria, ma nel 2007, con la sentenza n. 26617, la Corte di Cassazione, pronunciandosi a Sezioni Unite, ossia nella massima funzione di nomofilachia (garanzia dell’uniforme interpretazione della legge e dell’unità del diritto nazionale) ha statuito che il debitore ha facoltà di liberarsi dalla propria obbligazione pecuniaria, quand’anche essa fosse al di sotto della soglia legislativamente prevista, non soltanto mediante un pagamento in moneta avente corso legale nello Stato ma anche mediante moneta bancaria (nella specie, assegno circolare).
Quindi la massima Autorità giudiziaria italiana, in opposizione a quanto avrebbe successivamente rilevato la Banca Centrale Europea, ha praticamente sostenuto che non solo la moneta bancaria è moneta a corso legale al di sopra della soglia legislativamente prevista, ma lo è anche al di sotto di tale soglia.
Quindi, mentre la moneta di Stato è moneta legale solo al di sotto della soglia legislativamente prevista, la moneta bancaria lo è sempre.
Con la firma del trattato di Maastricht l’euro è diventato l’unica moneta avente corso legale nei Paesi firmatari, tra cui la Repubblica Italiana. L’art 128, infatti, recita: “La banca centrale europea ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote all’interno dell’Unione. La banca centrale europea e le banche centrali nazionali possono emettere banconote. Le banconote emesse dalla banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali costituiscono le uniche banconote aventi corso legale nell’Unione”.
Analogamente a quanto sopra osservato, anche tale previsione normativa, aderente, per l’ordinamento italiano, a quanto statuito dall’art. 1277 c.c., collide con i limiti all’utilizzo del contante.
Poiché, infatti, le banconote emesse dalla banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali costituiscono l’unica moneta avente corso legale nell’Unione e quindi nella Repubblica Italiana, l’offerta di pagamenti in tale moneta non potrebbe legittimamente essere rifiutata, ma in conseguenza della soglia legislativamente prevista all’uso del contante, un’offerta di pagamento che superi tale soglia non può essere accettata.
Tale aporia normativa appare insolubile, né le finalità comunicate al fine dell’introduzione di tali soglie (lotta all’evasione fiscale, al riciclaggio, ecc.) sono idonee a risolvere un conflitto così radicale, giacché, sotto il profilo logico, l’individuazione di una data finalità, ancorché lodevole, non è sufficiente a dirimere una incoerenza logica.
Notiamo ora che la previsione normativa introdotta dal trattato di Maastricht, che ha sostituito l’euro alla lira come moneta a corso legale, si è limitata a prevedere una nuova moneta a corso legale, ossia una moneta la cui offerta da parte del debitore di un’obbligazione pecuniaria non può legittimamente essere rifiutata dal relativo creditore.
Tuttavia, analogamente a quanto avveniva già prima dell’introduzione dell’euro, il fatto che sia stata individuata una specifica moneta come moneta di Stato, ossia come moneta avente corso legale nel territorio dello Stato, non preclude l’adozione di monete diverse.
In realtà, solo i consociati possono decidere cosa impiegare come moneta, e quindi solo i consociati possono “dare corso” ad una moneta oppure portarla “fuori corso”.
Tale scelta, nelle moderne democrazie, avviene per un atto legislativo, in base al quale il Parlamento, in rappresentanza del popolo, statuisce che da quel momento in avanti una data moneta ha “corso legale” in quella data comunità statale.
Come visto, ciò significa che si assume che quella data moneta ha potere liberatorio per le obbligazioni pecuniarie (ossia per i debiti aventi ad oggetto una somma di denaro).
In tal modo lo Stato indica una moneta, che da quel momento viene definita “moneta di Stato” – ed impropriamente “moneta legale”, giacché le altre monete non diventano, per questo, illegali – impegnandosi ad accettarla in pagamento per le proprie prestazioni, ossia, in primo luogo, impegnandosi ad accettarla per il versamento delle tasse (nonché pagando solo in tale moneta i propri fornitori interni, per esempio i dipendenti pubblici).
Tale impegno dello Stato fa sì che anche i consociati siano ben disposti ad accettare la moneta di Stato a fronte della cessione di propri beni o servizi, giacché sanno che quella moneta serve per pagare le tasse, per cui tutti, dovendo pagare le tasse, saranno disposti ad accettarla.
Il venditore, pertanto, che è libero di chiedere qualsiasi cosa in cambio di un bene di sua proprietà, è ben disposto a chiedere una contropartita in moneta di Stato giacché sa che, venduto il proprio bene ed incassata la relativa somma in moneta di Stato, non avrà problemi a procurarsi ciò di cui avrà bisogno, poiché non avrà problemi a farsi accettare la moneta precedentemente ottenuta.
Lo Stato, grazie all’imposizione fiscale, individua una moneta e ne induce l’accettazione generalizzata da parte dei consociati, per questo si parla anche di “corso forzoso”, anche se sarebbe più corretto parlare di “corso indotto”, giacché lo Stato non può forzare qualcuno ad accettare la moneta di Stato in cambio della cessione di un proprio bene o di un servizio, così come non può vietare la permuta (ossia il baratto).
La moneta a corso forzoso (la moneta a corso indotto dallo Stato), allora, è la moneta che l’amministrazione statale seleziona per farla diventare la moneta maggiormente impiegata nelle transazioni all’interno dello Stato.
Ciò non toglie che i consociati siano liberi di regolare le proprie transazioni in modo diverso, ossia impiegando, in tutto o in parte, un differente mezzo di pagamento (un differente mezzo monetario).
Lo Stato, infatti, può esigere che una parte del valore della transazione venga versata allo Stato a titolo di imposizione fiscale, ma non può imporre il modo in cui i consociati decidono di scambiarsi beni o servizi, né può imporre ad un venditore, ancorché professionale, quale mezzo di pagamento accettare, giacché l’iniziativa economica privata è libera (e tale libertà, in Italia, è riconosciuta e garantita dalla più alta fonte di diritto ossia dalla Carta Costituzionale, in particolare dall’art. 41).
In realtà il corso forzoso è stato storicamente impiegato per far affermare una certa moneta in un dato ambito territoriale (solitamente nazionale ma a volte anche oltre, basti pensare agli imperi coloniali e all’utilizzo della moneta del Paese “core” anche dopo il crollo del relativo impero, si vedano gli esempi della Francia e della Gran Bretagna).
Ciò, tuttavia, non è stato sufficiente ad “imporre” ai consociati di accettare quella moneta quando lo Stato ha dato cattiva prova di sé, ossia ha perso la fiducia dei cittadini.
Come riconosce espressamente la BCE, neanche una moneta a corso forzoso, e quindi neanche l’imposizione fiscale, è in grado di indurre i consociati ad accettare una moneta quando essi, perdendo fiducia in chi la emette (prima lo Stato, ora le banche centrali), sanno che avranno difficoltà ad impiegarla, perché anche gli altri tendono ad accettarla con sempre maggior riluttanza.
In quanto convenzione sociale, la moneta rimane tale fin tanto che persiste tale convenzione, e cessa di essere moneta quando i cittadini non le riconoscono più la funzione tipica di mezzo di scambio, ancorché una legge continui a definirla “moneta di Stato” o “moneta legale” che dir si voglia.
Correttamente, al riguardo, la Banca Centrale Europea ha riconosciuto che la moneta si fonda sulla fiducia della gente, per cui, indipendentemente da qualsiasi costrizione statale, se la fiducia della gente in quella moneta (ossia in chi la amministra) viene meno, quella moneta comincia a perdere le proprie funzioni monetarie, ossia le gente inizia a ridurne l’utilizzo come unità di conto, mezzo di scambio e riserva di valore.
Altrettanto correttamente la BCE definisce la moneta: “una istituzione sociale”, pertanto, la massima autorità monetaria europea ha debitamente riconosciuto la forte valenza sociale della questione monetaria, evidenziando che le scelte in merito, prima ancora che meramente tecniche o monetaristiche, hanno una chiara valenza sociale, e quindi sono eminentemente politiche.
In realtà, come ben noto sin dai tempi di Aristotele, la moneta non è qualcosa che cresce sugli alberi, qualcosa che si trova nelle miniere, qualcosa che dobbiamo realizzare, la moneta non è per natura, è per convenzione, e dipende da noi modificarla o renderla senza valore.
Se la collettività è disposta ad usare un certo oggetto come mezzo di scambio esso diventa moneta, indipendentemente dal relativo valore d’uso (da cui scaturisce il valore commerciale), che può essere anche infimo o inesistente, come espressamente riconosciuto dalla BCE.
Per converso, se si intende impiegare come moneta un oggetto di rilevante valore commerciale, ma la collettività non è disposta ad impiegarlo come mezzo di scambio, quell’oggetto, ancorché prezioso, non diventa moneta.
Ciò che conta, quindi, non è l’oggetto che decidiamo di utilizzare come moneta, ma la decisione di utilizzare quell’oggetto come moneta.
Ciò che conta non è l’oro, l’argento, la carta o i bit del computer, ciò che conta è la convenzione, l’accordo tra noi raggiunto nell’individuare qualcosa come unità di conto e mezzo di scambio. Qualcosa che ci consenta di soddisfare i nostri bisogni, i differenti bisogni dei vari membri della comunità.
In tal modo, la moneta ottenuta cedendo un bene diventa una garanzia di uno scambio futuro , giacché sappiamo che ci sarà qualcuno che accetterà quella moneta cedendoci un proprio bene, un bene di cui avremo bisogno in futuro. Senza accettazione convenzionale, ciò che abbiamo in mano non è moneta.
Questa fondamentale constatazione è stata finalmente fatta propria anche dalla Banca d’Italia, la quale, correttamente, osserva che: “L’acquirente consegna moneta al venditore in cambio di un bene o di un servizio; in questo modo si libera da ogni obbligo nei confronti del venditore, il quale, accettandola, ne riconosce il valore”. Quindi chi riconosce (e quindi crea) valore alla moneta non è chi la emette ma chi la accetta.
Prima dell’accettazione – la prima accettazione a seguito della relativa emissione – quell’oggetto non è moneta. Potrà essere “moneta potenziale”, ma affinché diventi “moneta reale” è necessario trovare qualcuno disposto a cedere un bene o ad erogare un servizio in cambio di quella “moneta potenziale”. Solo con la prima accettazione, quella diventa moneta, poiché qualcuno le ha attribuito (le ha riconosciuto) un valore pari a quello del bene ceduto o del servizio erogato.
La moneta individuata dallo Stato come moneta a corso legale costituisce, per ciò stesso, la moneta ad accettazione più diffusa tra i consociati, ma ciò non esclude che essi possano usare anche altre monete.
Per completezza di esposizione, va osservato che tale possibilità è da estendersi allo stesso Stato. Invero, prima della firma del trattato di Maastricht, gli Stati dell’Unione erano liberi di individuare più di una moneta cui conferire il corso legale, giacché questa è una prerogativa sovrana, che definisce la cosiddetta lex monetae.
Lo Stato, nell’esercizio delle proprie prerogative sovrane, è libero di individuare la moneta o le monete che, per legge, hanno potere liberatorio delle obbligazioni pecuniarie nel territorio dello Stato.
La Repubblica Italiana, mediante il trattato di Maastricht, ha individuato l’euro come unica moneta a corso legale nel proprio territorio.
Ne consegue che, fino a quando la Repubblica Italiana non deciderà di revocare la propria adesione a tale previsione normativa, l’euro sarà l’unica moneta avente corso legale nel territorio della Repubblica.
Ciò non esclude che la Repubblica possa decidere di adottare, oltre ad una moneta a corso legale, anche una moneta a corso libero.
La differenza tra le due è evidente, poiché, come precisa già l’espressione, mentre la moneta a corso legale non può essere legittimamente rifiutata da un creditore in pagamento di una obbligazione pecuniaria, la moneta a corso libero sì, per cui il debitore sarà liberato dal proprio debito solo se il creditore accetta di essere pagato in quella moneta.
La moneta a corso libero non è stata disciplinata dal trattato di Maastricht, né da qualsiasi normativa nazionale, per un motivo molto semplice, essa rientra nella libertà dell’iniziativa economica privata, che è un diritto costituzionalmente riconosciuto e garantito.
Come ha osservato la Banca Centrale Europea, l’accettazione di una moneta diversa da quella a corso legale rientra in una libera scelta del creditore, il quale è assolutamente libero di concordare con il debitore in quale moneta essere soddisfatto (la BCE parla di “moneta contrattuale”).
Ne consegue che, fermo restando l’euro come moneta a corso legale, lo Stato, in quanto creditore, è pienamente libero di accettare in pagamento dei propri crediti una moneta diversa da quella avente corso legale.
Lo Stato, pertanto, ben potrebbe affiancare all’euro, avente corso legale, un’altra moneta avente corso libero, mediante la quale i debitori dello Stato, senza esserne obbligati, possono estinguere le proprie obbligazioni con lo Stato.
L’accettazione statale di tale ulteriore moneta indurrebbe i consociati a fare altrettanto, ossia ad accettare tale moneta a corso libero in pagamento dei propri crediti.
In tal modo si introdurrebbe una doppia circolazione monetaria, una – con l’euro – in relazione ad ogni transazione, anche transfrontaliera, e l’altra – con la nuova moneta – riservata alle transazioni interne.
L’adozione statale di questa seconda moneta può essere effettuata in vari modi, per esempio accettandola in pagamento totale o parziale dei tributi, ovvero erogandola ai cittadini per varie provvidenze nonché a titolo di reddito di cittadinanza.
Sotto il profilo macroeconomico non si può sottacere che, qualora questa nuova moneta fosse utilizzabile per qualsiasi tipo di acquisto, e quindi anche per le merci da importazione, essa potrebbe determinare un aggravio della bilancia commerciale giacché maggior potere d’acquisto indiscriminato si traduce in maggior volume degli acquisti, indipendentemente da dove le relative merci sono prodotte. In un Paese con forti importazioni, tale maggior potere d’acquisto, ove non indirizzato alla produzione interna, potrebbe tradursi in un proporzionale aumento delle importazioni (nella misura in cui la quota dei beni importati incide sul totale dei beni acquistati).
Non vi sarebbero particolari problemi, invece, per quanto concerne la riduzione delle entrate statali in moneta a corso legale, nella misura in cui lo Stato sarebbe in grado di pagare i propri fornitori interni in moneta a corso libero. E con una diffusa accettazione di tale nuova moneta, indotta dall’accettazione statale, non si vede perché anche i fornitori statali non dovrebbero accettarla.
Qualora lo Stato decidesse di adottare tale nuova moneta (anche) mediante l’erogazione di un reddito di cittadinanza, è opportuno precisare che il reddito di cittadinanza propriamente detto non nasce essenzialmente per finalità sociali ma prevalentemente per finalità monetarie.
Esso, infatti, si fonda sulla constatazione già analizzata, per la quale chi crea il valore della moneta non è chi la emette ma chi l’accetta. Ne consegue che è tecnicamente scorretto attribuire il valore della creazione monetaria al soggetto che la emette. Bisogna pertanto individuare il soggetto cui è tecnicamente corretto attribuire il valore monetario derivante dalla relativa emissione.
Poiché il valore monetario è creato dalla collettività, è tecnicamente corretto attribuire alla collettività tale valore. La definizione scelta, reddito di cittadinanza, evidenzia proprio questo, ossia che si diventa titolari di valori monetari per il semplice fatto di essere cittadini.
Questo perché non è necessario alcun sinallagma per l’insorgenza del valore monetario, ossia non serve alcuna controprestazione (non si tratta, infatti, di un valore creditizio), è sufficiente l’accordo dei consociati nell’accettazione di quella data moneta come mezzo di scambio, poiché, come ci ricorda Aristotele, la moneta nasce per convenzione e non ha bisogno di altro.
Non ha bisogno di essere convertibile, non ha bisogno di essere garantita, non ha bisogno di alcuna autorità, la moneta nasce se la collettività vuole che nasca, e si fonda sulla fiducia dei consociati.
In realtà, La BCE, con un comunicato del 24 novembre 2015 (aggiornato 1l 20 giugno 2017) ha finalmente riconosciuto tale verità ammettendo pubblicamente che le banche non sono intermediari finanziari.
Per quanto strana possa sembrare questa affermazione, basti pensare che non si tratta affatto di una novità, giacché la Banca d’Inghilterra, correttamente, lo aveva già espressamente riconosciuto nel 2014.
In pratica, memore di quanto già ammesso dalla Banca d’Inghilterra, la BCE ha ribadito che le banche commerciali possono creare moneta “interna” (moneta bancaria, moneta scritturale), ossia depositi bancari, ogni volta che erogano un nuovo prestito.
Ed invero, la Banca d’Inghilterra aveva finalmente rivelato al mondo che “non sono i prestiti a seguire i depositi, ma i depositi a seguire i prestiti”.
Cosa significa? Che non vi è alcuna necessità di una preesistente disponibilità – ancorché frazionaria – al fine dell’erogazione di un prestito, giacché la relativa disponibilità viene creata al momento, ossia all’atto dell’erogazione del prestito, mediante la creazione dell’opportuno deposito.
Il deposito non deve essere preesistente rispetto alla concessione del prestito, giacché viene creato alla bisogna. Non è necessario attingere ad alcuna preesistente disponibilità patrimoniale, quindi non si effettua alcuna intermediazione, ma una pura e semplice creazione di moneta, nella esatta misura in cui serve per l’erogazione del prestito: ti devo prestare 100? Creo 100 e li metto a deposito.
Pochi però hanno notato che, se è così, dov’è il rischio? Cosa rischia la banca se presta denaro che non ha, ma che crea al momento? Quale sarebbe l’attività di rischio d’impresa, idonea a legittimare un profitto? Se il denaro viene creato alla bisogna, che senso ha parlare di “costo del denaro”?
Se la banca commerciale, al pari della banca centrale, può creare denaro in tal modo, non si può parlare di risorsa scarsa. Ma se la risorsa non è scarsa, perché ha un prezzo? Ha forse un prezzo l’aria, la luce del sole, la capacità di scrivere numeri su un computer?
Ma se la moneta non è una risorsa scarsa in quanto può essere creata a piacimento (ad libitum), significa che il fondamento del capitalismo, ossia il capitale finanziario, cessa di essere una risorsa, in quanto una risorsa che non sia scarsa non è una risorsa.
Allora, la Banca Centrale Europea, facendo seguito alla Banca d’Inghilterra, ha certificato la fine del capitalismo.
Niente di più e niente di meno.
Fonte: www.economiaepolitica.it