Ricorribile la pronuncia di inammissibilità all’istanza di interpello disapplicativo della disciplina di cui all’articolo 89 comma 3 del TUIR presentato dal contribuente: la CTP di Roma n. 393/13/2013
di Serena Giglio e Alessandro Blatti
Un’importante recente pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Roma (i.e. sentenza 398/13/2013 depositata in data 9/7/2013) valorizza in maniera forte la possibilità di accedere ai benefici della partecipation exemption sui dividendi distribuiti da società residenti nei Paesi black list.
Tuttavia, precisa la Commissione, è necessario dimostrare che la società non residente abbia sostenuto una tassazione con un tax rate superiore al 50% di quella che avrebbe sostenuto in Italia. Inoltre, proseguono i giudici, nel livello complessivo di tassazione devono essere ricomprese le imposte contestate dall’amministrazione finanziaria straniera e quelle oggetto di contenzioso.
A tal riguardo, occorre rilevare preliminarmente, che il caso in esame prende le mosse dall’impugnazione di una risposta ad un’istanza d’interpello presentato ai sensi dell’articolo 11 dello Statuto del contribuente (L. 212/2000).
L’Agenzia delle entrate, infatti, aveva qualificato come inammissibile l’interpello in quanto, come si legge, “dai controlli effettuati dalla scrivente, è emerso che le argomentazioni su cui si fonda la presente istanza sono alla base di alcune contestazioni mosse dalla Guardia di Finanza nei confronti del contribuente istante nell’ambito di pregressi controlli fiscali eseguiti a carico di quest’ultimo… La circolare 14 giugno 2010, n. 32/E (par. 5) ha ribadito che sono inammissibili le istanze d’interpello <che interferiscono con l’esercizio dei poteri accertativi, riguardando fattispecie già sottoposte a controllo…>. Tale circostanza, per quanto evidenziato, si verifica senz’altro nel caso di specie. Per quanto precede la presente istanza va dichiarata inammissibile”.
In senso contrario si è espresso il Commissione laziale che, non solo “boccia” l’eccezione di inammissibilità dell’interpello sollevata dall’Agenzia ma si pronuncia addirittura nel merito delle questioni oggetto dell’interpello.
In specie, il Collegio ha ritenuto che “la risposta data alla richiesta di interpello equivaleva ad una risposta negativa e come tale impugnabile avanti questa Commissione. L’interpello in oggetto, infatti, ancorché presentato secondo la procedura di cui all’art. 11 della legge n. 212/2000, non è un interpello “ordinario”, ossia un interpello di natura tipicamente consultiva, non obbligatoria, alla cui statuizione il contribuente può uniformarsi; al contrario, è un interpello riconducibile nell’ambito degli interpelli “disapplicativi”, essendo stato presentato per disapplicare la normativa contenuta nell’art. 89, comma 3, del T.U.I.R.. Osserva, infatti, il Collegio che l’istanza di interpello in oggetto è obbligatoria e dalla statuizione che ne consegue deriva un effetto diretto ed immediato sul carico fiscale del contribuente, quindi, non può essergli negato, nell’esercizio del diritto di ottenere la corretta quantificazione dell’onere tributario, un’eventuale tutela giurisdizionale.”
Riassumendo brevemente quanto sopra riportato, la Commissione, in via preliminare, ha indagato sulla reale natura dell’interpello posto in essere da parte della società e, superando l’aspetto meramente formale, lo ha ricondotto correttamente nella categoria degli interpelli disapplicativi ancorché lo stesso fosse stato presentato con la procedura d’interpello ordinario. In particolare, il passaggio logico relativo alla “necessità” di presentare istanza di interpello per disapplicare la normativa contenuta nel comma 3 dell’art. 89 del TUIR costituisce il fulcro del ragionamento che ha permesso ai giudici di fare leva sulla natura dell’interpello, consentendo quindi di procedere oltre ed entrare nel merito della questione.
Inoltre, nel fare quanto sin ora rappresentato, i giudici mostrano di avere ben presente le recenti pronunce della Suprema Corte (Cass. n. 8663 del 14/04/2011 e Cass. n. 17010 del 05/10/2012) secondo le quali il catalogo degli atti impugnabili, ai sensi dell’articolo 19 del D.Lgs. 546/1992 “è suscettibile di interpretazione estensiva, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.), che in conseguenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. n. 448 del 2001”.
Continuando l’analisi dell’iter logico tracciato dai giudici in questa sentenza passiamo, dunque, ad affrontare il tema del tax rate estero. Al riguardo la Commissione ha ritenuto che, ai fini del calcolo dell’effective tax rate estero, devono essere considerate non solo le imposte effettivamente versate ma anche quelle oggetto di contenzioso.
La Commissione, per verificare l’effettiva esistenza dei requisiti in esame, ha ritenuto opportuno nominare un consulente tecnico d’Ufficio che ha proceduto ad accertare che le maggiori imposte contestate risultassero essere iscritte nel bilancio della società ricorrente e che l’amministrazione finanziaria locale di Hong Kong ha proceduto, per tutti gli anni oggetto della verifica, ad operare una ripresa fiscale.
Di conseguenza, quanto sopra riportato ha legittimato la Commissione a ritenere che la società, per tutto il periodo di possesso della partecipazione, abbia sostenuto un livello di tassazione superiore al 50% rispetto a quello cui sarebbe stata assoggettata se fosse stata residente in Italia.
Inoltre, sempre il Collegio fa rilevare che, “ancorché il limite del 50% introdotto nel nostro ordinamento nel comma 8 bis dell’articolo 167 del T.U.I.R., ad opera dell’articolo 13 del D.L. 1.7.2009, n. 78, convertito, con modificazioni dalla legge 3.8.2009, n. 102, sia riferito alle controllate estere diverse da quelle localizzate in Stati o territoti compresi nella c.d. “black list”, detto limite d’imposizione del 50% assume un valore rilevante, quasi da spartiacque, anche per i casi di controllate estere residenti in Stati o territori inclusi nella “black list” perché se la caratteristica di questi Stati è di avere un regime fiscale particolarmente lieve e prossimo allo zero, la presenza di un livello di tassazione prossimo a quello dei paesi “no black list” induce a ritenere che non è il risparmio fiscale la principale motivazione della localizzazione dell’attività produttiva estera. Nella fattispecie il Collegio prende, inoltre, atto che la localizzazione della Società in Hong Kong risponde ad esigenze strategiche e commerciali, necessitate dalla struttura del business mondiale del giocattolo che ruota intorno alla Cina (per la produzione) e ad Hong Kong (per le attività di supervisione, sviluppo e controllo). Quanto sopra è confermato anche dalla presenza in Hong Kong di un organismo statale ministeriale, quale l’Istituto Italiano per la Sicurezza dei Giocattoli, a dimostrazione del sito strategico-produttivo individuato in tale territorio.”
In definitiva, dunque, alla luce di quanto sopra possiamo evidenziare che il Collegio, proprio in quest’ultimo passaggio, apre in maniera chiara ad una lettura del comma 8 bis, dell’articolo 167 del TUIR secondo la quale è lecito e legittimo ritenere correttamente applicato il disposto di tale articolo (ed in particolare il criterio del tax rate effettivo almeno nella misura del 50%) non solo nei confronti delle società controllate estere residenti in Stati diversi da quelli c.d. black list ma anche quale discrimen per le società residenti in Paesi di black list.
In altri termini, volendo seguire il ragionamento del Collegio, è opportuno, quindi, ritenere che le società non devono essere discriminate né pregiudicate a causa della presenza di controllate estere residenti in Paesi appartenenti alla c.d. black list qualora venga acclarata la presenza di un livello di tassazione prossimo a quello dei paesi “no black list”.
E’ apprezzabile, infatti, che i giudici abbiano effettivamente aperto ad un’analisi completa del fatto oggetto della controversia prendendo coscienza di come, ormai, nell’ambito di un contesto completamente “globalizzato”, si debba prendere atto della necessità di spostare la produzione in territori quali quelli dell’est asiatico non tanto in nome di un vano tentativo di eludere le imposte, quanto, invece, dalla pressante e quanto mai reale esigenza di restare competitivi in un’ottica di mercato.