Direttore Scientifico: Claudio Melillo - Direttore Responsabile: Serena Giglio - Coordinatore: Pierpaolo Grignani - Responsabile di Redazione: Marco Schiariti
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avviso di accertamento

TAX LAB 2015

CORSI ACCREDITATI DALL’ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI DI MILANO – ANNO 2015:

Il Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D., in collaborazione con Melillo & Partners Studio Legale Tributario, avvia i “Laboratori di Economia & Diritto”, una serie di workshop formativi, a numero chiuso, pensati per stimolare l’interesse dei discenti (professionisti, imprenditori, manager, funzionari pubblici, laureati, ecc.) a partecipare a sessioni di studio fondate sull’esperienza, oltre che sulla teoria.

Durante i “Laboratori di Economia & Diritto” qualificati docenti metteranno la loro pluriennale esperienza al servizio dei partecipanti, affinché questi possano accrescere con facilità il loro bagaglio di competenze teorico-pratiche.

Nell’ambito dei “Laboratori di Economia & Diritto” rientra il Tax L@b 2015: Laboratorio di Fiscalità Internazionale, corso di alta formazione accreditato dall’ODCEC di Milano con il riconoscimento di 20 CFP, unitamente al quale, su richiesta, è possibile attivare ulteriori incontri di approfondimento in aula, orientati a rispondere a specifiche esigenze di problem solving (anche su proposta di ciascun partecipante).

  • TAX LAB 2015 (EVENTO ACCREDITATO DALL’ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI ED ESPERTI CONTABILI DI MILANO PER 20 CFP) – PROGRAMMA – BROCHURE E MODULO DI ISCRIZIONE:
    • Rappresentante del Comitato Scientifico di E&D:
      • Prof. Avv. Claudio Sacchetto (Professore emerito di Diritto Tributario dell’Università di Torino).
    • Direttore Scientifico e Coordinatore del Corso:
      • Dott. Claudio Melillo, Dottore Commercialista in Milano (www.melilloandpartners.it) e Dottore di Ricerca in Diritto Tributario presso la Seconda Università di Napoli (www.claudiomelillo.it).
    • Relatori e Ospiti:
      • Dott. Luigi Busoni, Tax Manager Gruppo IKEA Italia;
      • Dott. Gianluca D’Aula, Tax Manager Gruppo ILLY Caffè (in attesa di conferma);
      • Avv. Sergio Sottocasa Biani, Tributarista in Milano;
      • Dott. Alessio Rombolotti, Analista di transfer pricing, Melillo & Partners Studio Legale Tributario;
      • Avv. Massimiliano Sammarco, Tributarista in Roma;
      • Dott. Marco Cardillo, Funzionario tributario presso l’Agenzia delle Entrate (in attesa di conferma);
      • Col. t. SFP Cesare Maragoni, Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia;
      • Avv. Serena Giglio, Tributarista in Roma, Direttore Responsabile di ECONOMIAeDIRITTO.it;
      • Avv. Claudia Marinozzi, Tributarista in Milano, (in attesa di conferma).

gli eventi sono organizzati in collaborazione con:

La sede dei corsi per i Professionisti è Milano, Via Santa Maria Valle 3. I posti disponibili sono 65.

Tutti gli eventi sono stati accreditati dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Milano. Ai partecipanti verrà rilasciato apposito attestato ai fini del riconoscimento dei CFP.

La sede dei Corsi è Milano, Via Santa Maria Valle, 3.

Informazioni e prenotazioni:

Melillo & Partners Studio Legale Tributario

Via Santa Maria Valle, 3 – 20123 MILANO

Telefono: (+39) 02 00681087

E-mail: formazionecontinua@economiaediritto.it

ALTRI EVENTI SVOLTI NEL 2015:

  1. Arriva il Tax Risk Manager in azienda_Worskshop del 7 maggio 2015
  2. Digital innovation Social Communication_Workshop del 3 giugno 2015

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Sei interessato a sponsorizzare i nostri eventi formativi?

A fronte di un contributo a copertura parziale degli oneri organizzativi, Ti offriamo la possibilità di partecipare come relatore ad uno o più eventi nonché di effettuare uno speech di presentazione della Tua organizzazione e di esporre materiale promozionale durante gli eventi.

Per i dettagli contattaci all’indirizzo partnership@economiaediritto.it.

(di Debora Mirarchi)

Che gli atti dell’Amministrazione finanziaria debbano essere motivati è cosa nota.

Tale obbligo è disciplinato, in primis, dal combinato disposto dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/73 e dell’art. 3 della L. n. 241/90.

L’art. 42 del D.P.R. n. 600/73 prevede che l’avviso di accertamento deve “essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato”. Ancora l’art. 3 della L. n. 241/90 stabilisce un generale obbligo di motivazione per gli atti della Pubblica amministrazione, stabilendo che “ogni provvedimento amministrativo […] deve essere motivato”. Questo dovere è stato poi ulteriormente esplicitato, con specifico riguardo agli atti dell’Amministrazione finanziaria, dallo Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/00) il cui art. 7 sancisce, a pena di nullità, che “gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto disposto dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 […] indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.

L’obbligo di motivazione è indubbiamente un principio cardine che regola e al contempo limita il potere della Pubblica Amministrazione.

La presente disamina non vuole analizzare in quali casi e in quali termini sia possibile riscontare un difetto di motivazione dell’avviso di accertamento tale da legittimare la declatoria di nullità dello stesso in un eventuale giudizio, bensì stimolare una riflessione critica sul governo che l’Amministrazione finanziaria, in alcuni casi, fa di tale principio, con particolare attenzione alle ipotesi in cui l’atto impositivo si limiti ad un acritico recepimento delle risultanze contenute in altri atti allegati o riportati pedissequamente negli atti impositivi.

Non si può non ammettere che spesso gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate licenzino i propri atti impositivi omettendo di motivare le ragioni fondanti la propria pretesa impositiva, rendendo difficoltosa anche la stessa difesa per il contribuente.

E non si può nemmeno negare che la giurisprudenza, soprattutto di legittimità, non sia, in parte, responsabile. In più occasioni i giudici della Suprema Corte hanno avallato l’operato degli Uffici, ritenendo soddisfatto l’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento ogniqualvolta “abbia un contenuto minimo che consenta al contribuente di risalire alle ragioni giuridiche che hanno determinato l’emanazione dell’accertamento medesimo e che realizzi l’esercizio del diritto alla difesa” (Cass. SS.UU. n. 5787/88 Cass. n.1915/08 – Cass. n. 14700/01 – Cass. 4061/01 – Cass. 7149/01). Il riferimento al “contenuto minimo”, ribadito dalla giurisprudenza, ha sempre fornito l’assist all’Agenzia delle Entrate per poter emettere atti impositivi il cui contenuto motivazionale palesava non trascurabili lacune. Per nulla isolate sono le pronunce della Suprema Corte con cui è stato affermato il rispetto dell’obbligo di motivazione anche nei casi in cui le ragioni del provvedimento siano motivate in maniera estremamente contratta e semplificata, in quanto, “la motivazione deve dare conto della sequenza argomentativa su cui si fonda la rettifica, ma non ha l’obbligo di dimostrare, anche sul piano probatorio, l’effettiva esistenza di quanto l’ufficio afferma. È sufficiente che essa indichi i fatti ipotizzati dall’Ufficio in guisa tale che il contribuente possa comprendere se, e in quale misura, rispondono alla realtà” (Cass. n. 7991/96 e conformemente Cass. n. 1915/08).

In senso analogo si è espressa la Suprema Corte che con la sentenza n. 658/00 ha affermato che “l’art. 42, comma 2, del D.P.R. esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi di essa”.

È noto anche che l’Amministrazione finanziaria possa motivare i propri atti impositivi riportando il contenuto o allegando un altro atto relativo ad un giudizio il cui oggetto può anche essere ben diverso dall’accertamento di un comportamento non conforme alla normativa tributaria.

In questi casi si parla di motivazione per relationem normativamente prevista dall’ultimo periodo dell’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente.

Forti perplessità sorgono quando gli Uffici, nel tentativo di giustificare la pretesa impositiva contenuta in un avviso di accertamento carente da un punto di vista motivazionale, difendono il proprio operato trincerandosi dietro all’istituto della motivazione per relationem.

Il confine fra l’istituto della motivazione per relationem e l’acritico recepimento delle risultanze contenute in un altro atto sia esso di natura impositiva o no, a parere di chi scrive censurabile, è, infatti, molto sottile e spesso, dagli Uffici, travalicato.

Si parla di acritico recepimento quando gli Uffici emettono, ad esempio, avvisi di accertamento senza né verificare né controllare la correttezza e la fondatezza dell’atto a cui rinviano.

In questi casi, ovvero quando la motivazione si risolve in un mero rinvio o in una acritica ricezione di un altro atto, a parere di chi scrive, non si può negare la violazione del principio di motivazione.

Di diverso avviso è, in parte, la giurisprudenza della Corte di Cassazione che, in più di una occasione, ha ribadito il fermo principio in base al quale “la motivazione degli atti di accertamento «per relationem», con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio” (Cass. n. 211195/11 e conformemente Cass. n. 10205/03 – Cass. n. 15379 del 2002).

Non si possono nascondere le perplessità che una simile posizione solleva, soprattutto perché foriera di non peregrini effetti distorsivi dell’attività accertativa.

Non di rado ci si imbatte in atti impositivi c.d “copia e incolla” dai quali non emerge l’espletamento di una particolare attività istruttoria ma solo mere affermazioni di stile circa una generica condivisione dei risultati e del complessivo contenuto dell’atto a cui rinvia.

Timidi temperamenti ad una così rigida impostazione sono stati offerti dalla stessa Corte di Cassazione che precisa che quando l’atto impositivo sia “il risultato dell’esercizio di un potere frazionato anche in poteri istruttori attribuiti, in proprio o per delega, ad altri uffici amministrativi, è legittimamente adottato quando, munendosi di un’adeguata motivazione, faccia propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali” (Cass. n. 211195/11).

In tale contesto degno di nota è l’orientamento espresso da alcune attente Corti di merito (Comm. trib. prov. di Bologna del 5 gennaio 2006, n. 216 – Comm. trib. prov. Macerata del 23 novembre 1999, n. 289 – Comm. trib. prov. Rovigo n. 92/1/2013) che, pur riconoscendo la facoltà degli Uffici di motivare gli atti impositivi rinviando al ragionamento e agli elementi contenuti in un altro atto, pongono a tale potere un necessario limite.

Secondo questo condivisibile orientamento dei giudici di merito, gli Uffici, nell’emettere un avviso di accertamento il cui contenuto rinvii ad un altro e diverso atto, sono in ogni caso tenuti a valutare autonomamente e acriticamente l’atto di cui condividono il percorso logico.

Occorre precisare che non si vuole certo negare la facoltà degli Uffici “costruire” la propria pretesa impositiva su elementi raccolti in altro atto.

Ma, poiché è solo agli Uffici dell’Amministrazione finanziaria che compete l’esercizio del potere accertativo non si possono non manifestare dubbi quando si consente agli stessi Uffici di emettere un avviso di accertamento espressione del potere impositivo omettendo di valutare autonomamente gli elementi recepiti da altri atti e di motivare le ragioni che hanno indotto a condividerli.

 

(di Serena Giglio e Alessandro Blatti)

L’articolo 37-bis, rubricato: “Disposizioni antielusive” è collocato nell’ambito dei vari articoli del d.P.R. n. 600/1973 che disciplinano i poteri e le modalità di accertamento di cui dispone l’Amministrazione finanziaria. In breve, tale norma prevede in capo alla stessa Amministrazione la possibilità di disconoscere i vantaggi fiscali realizzati nell’ambito di atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche e diretti ad aggirare gli obblighi ed i divieti previsti nell’ordinamento tributario.

E difatti, come osservato da autorevole dottrina (cfr. F. Tesauro, in “Istituzioni di diritto tributario, parte generale”, undicesima edizione, Milano 2012, p.242 e ss.) “L’elusione non è <<violazione>>, ma <<aggiramento>> di precetti fiscali. E’ un comportamento formalmente conforme alle norme (norme impositive, o norme di favore) ma non alla loro ratio; l’elusione realizza un <<risparmio fiscale>>, e non è giustificata da valide ragioni extrafiscali. Il contribuente che elude evita di realizzare il presupposto della tassazione più onerosa seguendo un percorso anomalo, abusivo. […] l’elusione può essere contrastata con norme a contenuto espressamente antielusivo, che disciplinano fattispecie espressamente qualificate come elusive. Con le norme espressamente antielusive, il legislatore non introduce una modifica delle ordinarie norme impositive, ma attribuisce all’Amministrazione finanziaria il potere di qualificare come elusiva una determinata operazione e di imporre il pagamento del tributo eluso. Vi sono ordinamenti in cui sono presenti norme espressamente antielusive di portata generale; il caso più noto è quello tedesco. Nell’ordinamento italiano non vi è, in forma esplicita, una clausola antielusiva generale. Una norma espressamente antielusiva è l’art. 37-bis del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 600”.

Al riguardo, è tuttavia opportuno segnalare che, a fronte di un così potente strumento che il Legislatore ha fornito all’Amministrazione finanziaria per accertare i casi di elusione fiscale, vi sono delle altrettanto forti condizioni richieste a pena di nullità, espressamente previste dai commi 4 e 5 dell’articolo in esame, cui la stessa Amministrazione deve necessariamente attenersi al fine dell’emissione di un avviso di accertamento basato sull’articolo de quo.

E difatti, i commi 4 e 5 del suddetto articolo (ribattezzati anche, “Garanzie procedimentali”) prevedono che:

4. L’avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2.

5. Fermo restando quanto disposto dall’articolo 42, l’avviso d’accertamento deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente e le imposte o le maggiori imposte devono essere calcolate tenendo conto di quanto previsto al comma 2.”

Ebbene, occorre rilevare che, in senso pressoché monolitico, le sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056, 30057) hanno affermato che le garanzie recate dalla menzionata disposizione antielusiva esprimono principi imprescindibili, di tal che, a partire dall’introduzione dell’art. 37-bis, d.P.R. n. 600, citato, l’esercizio del sindacato antielusivo avulso dalla concessione delle suddette garanzie previste dallo stesso art. 37-bis, commi 4 e 5, determina la nullità dell’atto impositivo emesso anche in quei casi in cui vengano mosse contestazioni relative al c.d. “abuso del diritto”.

E, difatti, se le fattispecie contemplate dall’art. 37-bis e quelle contrastate dal principio antiabuso risultano tra loro “egualmente elusive”, allora, quest’ultime dovranno essere oggetto dello stesso trattamento sotto ogni profilo, ivi incluso quello procedimentale. Diversamente, l’art. 3 Cost.  – peraltro anch’esso alla base del principio antiabuso – non potrebbe dirsi pienamente attuato.

Infatti, dal lato sostanziale, ossia della loro imponibilità, “dette fattispecie verrebbero ricondotte ad una comune regola impositiva in applicazione dell’art. 53 Cost, e quindi risulterebbero trattate allo stesso modo così come richiesto dall’art. 3 Cost.;tuttavia lo “strumento” dell’inopponibilità – dalla cui applicazione consegue, peraltro, la possibilità stessa di trattare parimenti fattispecie formalmente diverse – verrebbe ad essere applicato secondo due distinti moduli a seconda della norma (art. 37-bis) o principio (abuso del diritto) invocato. Sennonché un siffatto trattamento risulterebbe in contrasto con la sostanziale omogeneità tra le fattispecie abusive e le fattispecie elusive ex art. 37-bis” (cfr.: A. Giannelli, “Abuso del diritto con garanzie procedurali”, Riv. Del Notariato, n. 5/2011).

Ed, invero, anche secondo la Corte di Giustizia Europea il diritto al contraddittorio endo-procedimentale assurge a valore di principio fondamentale dell’Ordinamento e al contribuente non può essere negata la possibilità di esporre le proprie ragioni prima della conclusione del procedimento tributario ovverosia prima dell’emanazione di un provvedimento accertativo e tali ragioni devono essere effettivamente esaminate dall’Autorità fiscale.

Come precisato dai Giudici della Corte di Giustizia nella nota sentenza “Sopropè”, “il rispetto del diritto di difesa costituisce un principio comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione finanziaria si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. In forza di tale principio, i destinatari di decisioni che incidono sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione” (cfr. Corte di Giustizia Europea, sentenza 18 dicembre 2008, causa C-349/07). E tale principio è stato recentemente riconosciuto anche dalla Giurisprudenza di merito che ha sostenuto come “le garanzie procedimentali rafforzate introdotte dall’art. 37-bis devono applicarsi ad ogni caso di elusione fiscale, anche se contestata sulla base del principio generale dell’abuso del diritto ovvero dell’art. 53 Cost. od, ancora, delle norme speciali applicabili in funzione antielusiva, come l’art. 20 del TU sull’imposta di registro. Ragionare diversamente e non ritenere applicabili dette garanzie procedimentali determinerebbe una palese violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, non essendo costituzionalmente legittimo trattare diversamente fattispecie ugualmente elusive” (cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Milano, Sez. 42, 21 febbraio 2011, n. 54; in senso conforme v. Commiss. Trib. Prov. Emilia-Romagna Reggio Emilia Sez. I, 29 novembre 2010, n. 242, ancora Commissione Tributaria Provinciale di Genova, Sez. 1, 24 gennaio 2011, n. 2 che ha statuito che la norma antielusiva contiene “un principio ad ampio spettro…(omissis) detto principio così come elaborato dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, rappresenta un criterio interpretativo del sistema applicabile anche alle ipotesi di abuso del diritto”; infine, v. anche Commissione Tributaria Provinciale di Brescia, Sez. 7, 18 febbraio 2011, n. 14, che giunge ad analoghe conclusioni).

Peraltro, se ci si chiede cosa giustifichi il rinvio da parte della giurisprudenza di legittimità allo strumento dell’inopponibilità anche nel caso dell’abuso del diritto, si ritiene di dover far riferimento all’equivalenza delle fattispecie astratte contemplate tanto dall’abuso del diritto quanto dall’art. 37-bis, primo comma. Diversamente, si dovrebbe attribuire alla Corte la volontà di trattare egualmente fattispecie tra loro non equivalenti. Considerata l’assurdità di una tale conclusione, se ne ricava una conferma indiretta del principio enunciato dalla citata giurisprudenza di merito.

Se poi si considera che le operazioni indicate dal comma terzo dell’art. 37-bis sono state selezionate dal Legislatore proprio in virtù del loro frequente utilizzo nei vari disegni elusivi, la mancata applicazione delle garanzie previste dall’art. 37-bis alle contestazioni fondate sull’abuso del diritto di fattispecie non ricomprese nel citato comma terzo, non può che ritenersi portatrice di un ulteriore paradosso: le fattispecie oggetto di minori tutele risulterebbero essere proprio quelle ritenute meno “pericolose” dallo stesso Legislatore.

Si ritiene, inoltre, opportuno osservare che il rispetto del particolare procedimento recato dell’art. 37-bis si presenta quale elemento costitutivo della possibilità stessa di ricorrere allo “strumento” dell’inopponibilità da parte dell’Amministrazione. Infatti, nel medesimo momento in cui il Legislatore ha dotato l’Amministrazione dello “strumento” dell’inopponibilità che lo stesso ha ritenuto di subordinarne l’applicazione al rispetto di una specifica procedura. Tale circostanza appare giustificata dal fatto che nell’ambito delle contestazioni antielusive la pretesa dell’Amministrazione viene a dipendere da una riqualificazione delle fattispecie imponibili secondo un diverso modulo giuridico rispetto a quello voluto e dichiarato dal contribuente. È parso, quindi, logico subordinare l’esercizio di un così penetrante potere dell’Amministrazione non solo ad una particolare cautela nella fase della riscossione della maggiore imposta accertata, ma anche alla partecipazione (in chiave di contradditorio) del contribuente al procedimento teso all’eventuale superamento, ovvero conferma, della forma giuridica delle operazioni dallo stesso correttamente dichiarate e su cui aveva posto il proprio ragionevole affidamento. In tale ottica appare, perciò, giustificata la previsione recata dal quarto comma dell’art. 37-bis in merito alla nullità dell’avviso di accertamento antielusivo ove non sia stato preceduto dall’invio di un’opportuna richiesta di chiarimenti al contribuente. Peraltro, la partecipazione del contribuente appare fondamentale per il buon andamento dell’azione amministrativa, non solo in ragione della particolare complessità della fattispecie oggetto di contestazione, ma anche in considerazione del fatto che in genere il contribuente è il depositario degli elementi (ad es. le ragioni economiche) eventualmente in grado di giustificare l’operazione contestata. A garanzia dell’effettività di tale procedimento, il Legislatore ha, quindi, imposto – a pena di nullità – la specifica motivazione dell’avviso di accertamento in relazione ai chiarimenti forniti dal contribuente (art. 37-bis, comma quinto).Il rapporto tra il generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi (art. 3, L. n. 241/1991) e la c.d. “motivazione rafforzata” prevista dal comma 5 dell’art. 37-bis per gli avvisi “antielusivi”, conferisce, quindi, particolare rilevanza al ruolo del contraddittorio tra Fisco e contribuente. Tale previsione si giustifica, peraltro, anche alla luce del principio d’imparzialità dell’agire amministrativo che impone di considerare la totalità degli elementi acquisiti nella fase istruttoria nella motivazione dell’atto da emanarsi- ivi inclusi i chiarimenti resi in sede contraddittoria dal contribuente.

Pertanto, le particolari previsioni recate dai commi quarto e quinto dell’art. 37-bis appaiono caratterizzare in modo intrinseco, e costitutivo, l’utilizzo dello “strumento” dell’inopponibilità da parte dell’Amministrazione” (Cfr.: Giannelli, op. citata).

Ebbene, se anche le fattispecie abusive risultano inopponibili al Fisco secondo la stessa regola fissata dall’art. 37-bis, il potere di accertamento dell’Amministrazione finanziaria dovrà ritenersi parimenti subordinato al rispetto del procedimento previsto dai commi quarto e quinto dell’articolo de quo.

Se, infatti, come precisato dalla stessa Corte di Cassazione, l’art. 37-bis è un mero sintomo dell’esistenza di una regola antielusiva generale, non si vede come le garanzie previste in occasione della codificazione del sintomo di tale regola non debbano poi valere in misura piena anche nei casi in cui detta regola sia oggetto di diretta applicazione. Ragionare diversamente non può che portare ad un risultato inaccettabile: trattare diversamente fattispecie sottoposte al medesimo potere di accertamento.

L’incontestabilità di tale ricostruzione è intuibile, del resto, sol che si ponga mente alla circostanza che nell’ottobre del 2011 è stato posto un question time – il n. 5-05602 a firma dell’On. Fugatti relativo ad “Interventi per la disciplina dell’abuso del diritto in materia tributaria” – alla Commissione Finanze della Camera con il quale sono stati chiesti chiarimenti, tra le altre cose, circa l’applicabilità delle garanzie procedimentali previste dal comma 4 e 5 dell’art. 37-bis d.P.R. n. 600/73 anche alla fattispecie dell’abuso del diritto.

Al riguardo, nel testo della risposta si legge che lo stesso Dipartimento delle finanze rileva che sarebbe “certamente auspicabile una previsione normativa volta a coordinare l’attuale norma antielusiva con il principio dell’abuso del diritto, richiamato dalla giurisprudenza di Cassazione, che avrebbe così il merito di definire i confini e le modalità di applicazione di detto principio, garantendo, al contempo, l’affidamento del contribuente attraverso le tutele già previste nell’applicazione dell’art. 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 600/73”.

In definitiva, tutti gli operatori specializzati – a tutti i livelli (dottrina, giurisprudenza, atti parlamentari) – rilevano come l’abuso del diritto abbia natura procedimentale, posto che anche l’art. 37-bis risulta collocato tra le disposizioni relative ai controlli e all’accertamento (e quindi non tra quelle sostanziali). Di conseguenza, “non è possibile che per le disposizioni dell’articolo 37-bis del d.P.R. 600/1973 vi siano fortissime garanzie procedimentali a favore del contribuente prima della rettifica (richiesta di informazioni prima di emettere l’atto e motivazione <rinforzata> a pena di nullità del medesimo), mentre per le situazioni riguardanti l’abuso queste garanzie non vi siano” (cfr.: D. Deotto, “Abuso del diritto alla ricerca di difese solide”, in Il Sole 24 ore del 28 ottobre 2011).

Tuttavia, tutto quanto appena riportato è stato di recente posto nuovamente in discussione attraverso la recente Ordinanza della Corte di Cassazione n. 2473/2013 che ha sollevato questione di legittimità Costituzionale del comma 4 della norma in esame “laddove quest’ultimo sanziona con la nullità l’avviso di accertamento “antielusivo” che non sia stato preceduto da richiesta di chiarimenti nelle forme e nei tempi ivi prescritti”.

In breve, la questione posta all’attenzione della Suprema Corte vede coinvolta una società che aveva impugnato un avviso di accertamento, relativo a presunte operazioni elusive, in quanto emesso sei giorni prima del decorso del termine di sessanta giorni previsto dal comma in esame.

Ebbene, una delle argomentazioni su cui poggia il ragionamento degli “Ermellini” riguarda il confronto con altre norme dell’ordinamento domestico che vengono ritenute avere carattere anti-elusivo. Tra queste viene richiamato l’articolo 20 del d.P.R. n. 131/1986.

Invero, occorre fare un breve cenno al fatto che l’articolo appena richiamato dalla Suprema Corte non è unanimemente ritenuto essere norma avente carattere antielusivo. Tuttavia, la Corte pone l’accento sul fatto che tale norma non preveda, come condizione ai fini della propria applicabilità, la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale attraverso la richiesta al contribuente di fornire chiarimenti entro il sopra richiamato lasso di tempo di 60 giorni né, tantomeno, commini la pena della nullità nei casi in cui venga ignorato tale obbligo, così come disposto, invece, dall’attuale formulazione del comma 4 dell’articolo 37- bis.

Ovviamente, l’ordinanza in esame ha suscitato e suscita forti perplessità (sul punto, vedi anche Antonino Russo in “Dubbio di costituzionalità sulla sanzione di nullità per mancato contraddittorio sull’abuso del diritto”, Il fisco n. 43/2013, p. 6757 e Tundo Francesco in “Illegittimo il diritto al contraddittorio nell’accertamento antielusivo per disparità con l’abuso del diritto?”, Corriere tributario, n. 1/2014, p. 29), pertanto, restiamo in attesa del pronunciamento degli aditi giudici della Corte Costituzionale per capire se verrà cancellata la garanzia procedimentale – ed a parere di chi scrive ciò costituirebbe davvero un’abberatio giuridica considerando tutti quei contenziosi vinti già solo alla luce della sollevata eccezione del mancato rispetto, da parte dell’Agenzia delle Entrate, del contraddittorio endoprocedimentale – prevista dal comma 4 dell’articolo 37-bis del d.P.R. n. 600/1973.

di Mariella Orlando

L’art. 12, comma 7, Legge n. 212 del 2000 prevede che il contribuente possa, dopo il rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni, entro sessanta giorni, comunicare osservazioni e richieste. Per consentire l’effettiva applicazione della norma, il legislatore prescrive all’Ufficio fiscale di esaminare le osservazioni e le richieste prodotte dal contribuente, con l’obbligo di sospendere l’emanazione dell’atto impositivo per sessanta giorni, salvo casi di particolare e motivata urgenza.

di Serena Giglio e Alessandro Blatti

La Corte di Cassazione, con la recente pronuncia del 29 luglio 2013, n. 18184, pone fine ad un lungo contrasto giurisprudenziale relativo alle conseguenze del mancato rispetto, nell’emissione dell’avviso di accertamento, del termine stabilito dal comma 7 dell’art. 12 della legge 212/2000 (di seguito, anche “Statuto dei diritti del Contribuente” o, anche, “Statuto”)1.

di Debora Mirarchi

1. Il principio di diritto

Con la sentenza del 29 luglio 2013, n. 18184 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno finalmente sopito la querelle giurisprudenziale sorta in merito alla questione relativa alle conseguenze derivanti dalla inosservanza delle disposizioni contenute all’art. 12, comma 7, dello Statuto dei Diritti del Contribuente che, come noto,  prevede espressamente che, salvo casi di particolare e  motivata urgenza, l’avviso di accertamento non può essere emesso prima che siano decorsi sessanta giorni dal rilascio al contribuente della copia del processo verbale di constatazione.

di Serena Giglio

1. Premessa

Accade ormai sempre più spesso di imbattersi in Avvisi di Accertamento emessi nei confronti del contribuente da parte di Organi dell’Amministrazione finanziaria che risultano sforniti dei poteri necessari ad esercitare, appunto, l’attività di accertamento. Al bravo ed accorto difensore incombe l’obbligo di verificare, in via preliminare, tale circostanza, facendo valere, se del caso, in sede giudiziale, l’eccezione di nullità del provvedimento amministrativo emesso in carenza di potere.

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