Diritto

Abrogazione dei minimi tariffari forensi: considerazioni e prospettive alla luce dell’ultimo provvedimento dell’AGCM

(di Giuseppe La Corte)

SOMMARIO: 1. Le tariffe professionali: l’articolo 2233 c.c.-2. La giurisprudenza europea – 3. La Riforma Bersani e le decisioni della Autorità Garante della concorrenza e del mercato -4. L’ultimo intervento dell’AGCM: I748 provvedimento n. 25154/2014 – 5.Conclusioni e prospettive.

  1. Le tariffe professionali: l’articolo 2233 cc.

La tariffa professionale è la fonte normativa che fissa le modalità per la determinazione del compenso dovuto al libero professionista per le prestazioni da lui effettuate in favore del cliente. A sua volta, l’opera intellettuale presenta carattere professionale quando concorrono in concreto due requisiti: uno soggettivo, qual è l’iscrizione del professionista in appositi albi e uno oggettivo che consiste nella natura tecnica della attività del professionista.[1]Fissare il compenso del professionista ha lo scopo di dare vita ad un comportamento uniforme nel campo della professione, una volta tramontato l’antico concetto di honorarium, che veniva inteso come attestato di stima per il compimento dell’opera liberalis, non sottoposto a preventiva quantificazione economica e al di fuori di qualsiasi obbligo giuridico.[2] I contratti conclusi con un professionista, pertanto, hanno natura onerosa e sono considerati una species del contratto d’opera. Tradizionalmente alle tariffe si riconosce il perseguimento di un duplice scopo: da una parte la tutela dell’interesse collettivo della categoria e, dall’altra, una sorta di garanzia per il consumatore, il quale è messo in grado di conoscere ex ante i costi che dovrà affrontare per la prestazione richiesta al professionista. Le tariffe professionali sono fonti di varia natura. Tra queste si annovera la tariffa degli avvocati che viene deliberata dall’Ordine professionale ed emanata con decreto ministeriale attraverso il quale il Ministro, con la sua firma, attesta un controllo di legittimità. A tal proposito, con una nota pronuncia[3], la Corte Costituzionale, negli anni sessanta, ha stabilito che la materia delle prestazioni forensi non è di quelle che debbono essere necessariamente regolate dalla legge dato che non vi è su di essa alcuna riserva di legge e, inoltre, la natura delle tariffe è tale da comportare l’opportunità e la convenienza di affidarne l’aggiornamento ad un organo tecnico.[4] I criteri di liquidazione dei compensi previsti dalle varie tariffe sono assai diversificati avuto riguardo alle singole professioni intellettuali e alla tipologia di prestazione offerta alla clientela. Si distinguono, pertanto, le tariffe a percentuale, in considerazione dell’importo dell’opera o del servizio richiesto; a quantità, in ragione dell’unità di misura dell’opera; a vacazione, in considerazione del tempo impiegato e a discrezione quando non è possibile stabilirlo in base a criteri predeterminati.[5] In quest’ultimo caso, il professionista non è completamente libero di determinare il compenso della propria prestazione. Questi, infatti, deve tenere in considerazione criteri indicati dalla norma professionale e, in via generale, il rispetto per il decoro della professione e l’importanza della prestazione operando sotto l’occhio vigile del Consiglio dell’Ordine di appartenenza. Nel nostro Codice civile i criteri per la determinazione del compenso sono stabiliti dall’articolo 2233 c.c. Il primo comma dispone che, ove manchi l’accordo tra le parti, il compenso del professionista viene individuato nell’ordine delle tariffe, degli usi ovvero dall’Autorità giudiziaria con il parere della competente associazione professionale.                 Una interpretazione letterale della norma suffragherebbe un costante orientamento giurisprudenziale secondo il quale dal primo comma si ricaverebbe un criterio gradualistico per l’applicazione del compenso relativo alla prestazione di un professionista intellettuale.[6] Tuttavia non è mancato chi ha sostenuto che l’ordine indicato dal 1 co. dell’art. 2233 c.c. risulterebbe invertito nella prassi negoziale.[7] Secondo il suindicato orientamento, bisognerebbe tenere in considerazione, in primo luogo, le tariffe in quanto dotate di forza inderogabile, in secondo luogo, la convenzione privata e, infine, qualora manchi la tariffa, si dovrebbe fare ricorso al criterio della analogia interna con riguardo ai casi di prestazione simili disciplinati dalla stessa tariffa.    Il Codice del 1942 recepisce un sistema di determinazione dei compensi professionali centrato su tariffe stabilite su proposta degli organi di categoria fatta salva la formale ratifica con D.P.R. o decreti ministeriali. Nel caso delle professioni legali, la legge 1578/1933 c.d. LPF prevede che i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennità vengano fissati ogni biennio con deliberazione del Consiglio nazionale forense. Relativamente ai compensi, la legge 794/1942 sancisce l’inderogabilità dei minimi tariffari previsti dal Consiglio nazionale forense. La stessa previsione è ribadita da ogni decreto ministeriale di fissazione delle tariffe. Da ciò risulta abbastanza evidente che l’autonomia contrattuale delle parti venga relegata negli interstizi delle indicazioni tariffarie acquisite dalla legge.[8] Ove emerga un manifesta sproporzione tra le prestazioni rese e il compenso previsto nelle apposite tabelle tariffarie, i minimi possono essere diminuiti salvo però che la parte interessata esibisca il parere, non vincolante per il giudice, del Consiglio dell’Ordine. Secondo un orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, anche se un po’datato, l’inderogabilità dei compensi professionali sarebbe una conseguenza del principio generale dell’articolo 36 Cost. in materia di giusta retribuzione.[9] Tuttavia, ormai si riconosce che il suindicato articolo non possa essere esteso al compenso del lavoro autonomo perché la norma riguarderebbe solo i lavoratori subordinati.[10]Altra parte della dottrina ammette che il richiamo all’articolo 36 Cost. possa essere applicato alla materia dei compensi seppur nei limiti consentiti dalla natura del rapporto che nasce da una attività liberale. Alla parola “retribuzione” utilizzata dai padri costituenti andrebbe attribuito il significato ampio e generico di controprestazione, mentre la locuzione “lavoratore”, invece, farebbe riferimento a qualunque lavoro in tutte le sue forme e professioni in virtù dell’articolo 35 Cost.[11] Il 2 co. dell’articolo 2233 c.c. stabilisce che il compenso del professionista debba essere adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della professione. Detti criteri assicurerebbero primazia alle tariffe professionali al fine di tutelare la dignità professionale, il prestigio della categoria e l’indipendenza economica dei professionisti. E’ ammessa la rinuncia del compenso da parte del professionista. Questi, per svariate ragioni, può esercitare un proprio diritto disponibile e rinunciare alla prestazione purché la rinuncia non sia uno strumento per violare una norma imperativa. Infine il 3 co. dell’articolo 2233 c.c. prevede il divieto del patto quota lite su beni nelle cause alle quali esercitano il loro patrocinio.

 

  1. La giurisprudenza europea

La liberalizzazione non è più solo un tema di rilevanza interna ma ha acquisito una dimensione comunitaria. Considerata l’importanza del settore, le istituzioni comunitarie hanno spinto verso una forte revisione delle forme di regolamentazione adottate dai diversi Stati membri in modo da creare un terreno comune dei servizi professionali che possa aprirsi alla concorrenza e al mercato. Questa situazione più volte è stata fotografata dalla Commissione europea, la quale ha evidenziato “una tensione potenziale” tra la necessità di un certo livello di regolamentazione e le regole di concorrenza del Trattato.[12] E’ evidente come la disciplina particolare che ogni Stato membro detta a favore degli ordini professionali, che operano nel proprio territorio, mal si concilia con l’esigenza di creare un mercato unico nel quale i professionisti europei abbiano formazione, ruoli e modalità di pagamento della prestazione comuni. Negli ultimi anni sono stati numerosi gli interventi degli organi comunitari per poter conciliare la materia della concorrenza con le professioni intellettuali.[13] Alcune recenti pronunce a livello europeo e nazionale sono indicative di una tendenza che individua nelle limitazioni all’accesso, nelle tariffe minime obbligatorie e nel divieto di pubblicità punti di contrasto con la normativa comunitaria in tema di antitrust. L’evoluzione giurisprudenziale è iniziata con la definizione di impresa che la Corte di Giustizia ha adottato nel caso Hofner and Helser/Macroton.[14] Stando alla nozione originaria contenuta nella CECA, per impresa doveva intendersi qualsiasi complesso unitario di elementi personali, materiali ed immateriali facenti capo ad un soggetto giuridico autonomo e diretto in modo durevole al perseguimento di uno scopo economico. Oggi, invece, i giudici comunitari definiscono l’impresa come qualsiasi entità che eserciti una attività economica a prescindere dal suo status giuridico e dalle modalità di organizzazione e finanziamento. A tal proposito, sono state ritenute imprese anche gli esercenti le professioni intellettuali posto che i professionisti offrono i propri servizi sul mercato, a titolo oneroso, in modo stabile ed indipendente.[15] Gli avvocati, infatti, svolgono dietro corrispettivo servizi di assistenza legale e assumono i relativi rischi relativi all’esercizio di tale attività poiché, in caso di squilibrio fra spese ed entrate, il professionista sopporta direttamente l’onere dei disavanzi.[16] Nel caso degli spedizionieri doganali, nonostante il Governo italiano affermasse che i suindicati professionisti fossero esercenti un pubblico servizio, la Corte ha ritenuto che la loro attività fosse di tipo economico inteso sia come scopo di lucro sia come capacità di compensare i fattori della produzione.[17] Gli avvocati svolgono un’ attività economica e costituiscono imprese ai sensi dell’articolo 101 TFUE senza che i servizi dagli stessi forniti e la regolamentazione della loro professione possano modificare questa conclusione[18] Sulla scorta dell’iter logico argomentativo appena tratteggiato, la Corte di Giustizia ha qualificato gli enti rappresentativi delle categorie professionali come associazioni di impresa. L’articolo 101 TFUE, infatti, prende in considerazione non soltanto le modalità dirette di coordinamento tra imprese ma anche forme istituzionalizzate di cooperazione, ossia la situazioni in cui gli operatori economici agiscono per il tramite di una struttura collettiva. Nel caso Arduino[19] la Corte, dando per scontato la qualificazione degli organi professionali come associazione di impresa, affermava che: “il CNF è composto solo da avvocati e la normativa italiana non contiene modalità procedurali né prescrizioni di merito idonee a garantire che il Consiglio forense si comporti in sede di elaborazione di tariffa come una articolazione del pubblico potere che agisce per obiettivi di interesse pubblico”. Sono incompatibili con il mercato comune e vietati, ex art. 101 TFUE, tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune. Negli accertamenti relativi alle intese è necessario individuare il mercato rilevante. Tale definizione è funzionale per comprendere l’ambito nel quale l’intesa possa restringere o falsare la concorrenza e il suo grado di offensività. Il mercato, a cui deve farsi riferimento nell’ambito dei professionisti, è costituito da tutti i servizi offerti dagli avvocati nell’esercizio della loro attività professionale in tutto il territorio italiano. In ordine alla esistenza di una intesa che abbia per effetto o per oggetto una restrizione della concorrenza, nell’ambito delle professioni legali, la Corte di Giustizia opera un procedimento bifasico.[20] In un primo momento verifica se l’accordo abbia per oggetto quello di restringere il gioco della concorrenza. A tal fine si procede ad un esame obiettivo delle finalità perseguite dall’accordo alla luce del contesto economico in cui deve essere applicato. Nell’ipotesi in cui l’accordo non abbia come oggetto quello di restringere la concorrenza, la Corte valuta se abbia effetti anticoncorrenziali.[21]Nella sopraccennata sentenza Arduino, era stato chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla compatibilità col diritto comunitario del sistema delle tariffe minime e massime previste dall’ordinamento italiano con riferimento ai compensi degli avvocati. Nel giudizio davanti ai giudici nazionali si poneva il problema di stabilire se la tariffa applicabile da parte di questi professionisti, approvata con decreto del Ministro della giustizia, sulla base di in progetto predisposto dal Consiglio forense, costituisse o no un accordo restrittivo ai sensi dell’articolo 101 TFUE. La Corte ha concluso nel ritenere che il diritto comunitario non osti ad una normativa nazionale che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un Ordine professionale, una tariffa fissante minimi e massimi per gli onorari dei professionisti quando questa misura statale operi nel quadro di una procedura prevista dalla legge che affida al competente ministro il potere di emendare la proposta o non farla entrare in vigore.[22] In un’altra sentenza, Wouters, la Corte ha stabilito che non ogni accordo tra imprese né decisione tra Associazione di imprese ricade necessariamente nelle scure dell’articolo 101 TFUE. Bisogna, infatti, verificare, in virtù di una applicazione concreta della rule of reason, quale sia il contesto economico nel quale la decisione è stata adottata e quali effetti abbia prodotto. Pertanto, alla luce delle superiori pronunce, si può rilevare che le tariffe professionali, qualora non pienamente valutate e recepite dalle pubbliche autorità, costituiscono decisioni di associazioni di impresa suscettibili di turbare la concorrenza soprattutto nel caso dei minimi inderogabili la cui fissazione sarebbe incompatibile con il diritto europeo.

Di recente, le istituzioni comunitarie hanno utilizzato le norme a tutela della circolazione dei professionisti (direttiva 1998/5CE e la direttiva 2006/123CE) per rafforzare il processo di liberalizzazione nei servizi legali. Le suindicate direttive stabiliscono la libertà di stabilimento dei prestatori di servizio in altri Stati membri sulla base del principio di non discriminazione. E’ importante, ai nostri fini, rilevare che il considerando 73, art.15, prf. 2, lett. g della direttiva del 2006, stabilisce che la predisposizione di eventuali tariffe minime o massime possono risultare conformi al diritto di stabilimento solo se giustificate da elementi oggettivi quali la dignità, l’indipendenza e l’integrità della professione. Detta compatibilità rimane oggetto di una attenta valutazione, basata sulla meritevolezza degli obiettivi rilevati e su un giudizio di non discriminazione, necessità e proporzionalità delle restrizioni apportate.[23] Anche le sentenze Cipolla, Macrino e Capodarte si occupano delle tariffe professionali.[24] Nella specie, i giudici hanno affermato che la previsione dei minimi e massimi tariffarie costituiscono una restrizione della libera circolazione dei servizi perché impediscono ai prestatori stabiliti in altri Stati membri di concorrere con quelli italiani, non potendo offrire i propri servizi a prezzi inferiori a quelli predeterminati dalla tariffa.

Il tariffario forense, infatti, sarebbe elaborato tenendo in considerazione solo la posizione degli avvocati italiani senza considerare quelli degli altri prestatori stranieri. Il giudice nazionale, pertanto, dovrà valutare se gli obiettivi stabiliti con la fissazione delle tariffe possano essere soddisfatte diversamente senza prevedere la inderogabilità delle stesse, se vi sia una relazione tra il livello degli onorari e la qualità delle prestazioni dovute, se i rapporti tra avvocato e cliente siano caratterizzati da asimmetrie informative e, infine, controllare che gli obiettivi di cui sopra possano essere perseguiti attraverso norme di organizzazione, controllo e responsabilità professionale. E’ evidente che qualora il giudice non trovi il rapporto di proporzionalità e necessità tra i minimi inderogabili e gli obiettivi di interesse pubblico perseguiti sarà costretto a dichiararne la nullità.

  1. La Riforma Bersani e le decisioni della Autorità Garante della concorrenza e del mercato

Il quadro europeo evidenziava alcune irregolarità nella fissazione dei minimi delle tariffe forensi che svantaggiavano vuoi il mercato interno vuoi i prestatori di servizi di altri Stati membri. Per tali motivi, l’Autorità garante della concorrenza e per il mercato già nel 1994, avviava un indagine sui servizi professionali.[25] Nel provvedimento di avvio, l’Autorità riteneva che la regolamentazione in vigore per le attività professionali non appariva totalmente giustificata dall’esigenza di garantire la qualità della prestazione né lo svolgimento efficiente della attività economica. Il documento risultava diviso in tre parti: la prima parte individua un’analisi del contesto normativo in cui si inseriscono le professioni protette. L’indagine si apre con l’esegesi delle norme codicistiche e dei principi comunitari finalizzata a confutare la non assimilabilità dell’attività professionale con la impresa; il secondo capitolo è dedicato alla analisi economica del mercato dei servizi professionali caratterizzato da asimmetrie informative, e l’ultimo esamina le regolamentazioni vigenti per le principali professioni. Rispetto alla professione di avvocato, l’Autorità riteneva che la fissazione delle tariffe non fosse in alcun modo giustificabile dal punto di vista dell’interesse pubblico.                    E aggiungeva che, ove tale giustificazione dovesse essere presente, la stessa non doveva essere lasciata alla prevalente volontà dell’Ordine ma affidata ad un regolamentatore pubblico.[26] Quasi dieci anni dopo le riflessioni della AGCM sopra riportate, il ministro Pierluigi Bersani torna sull’argomento con il D.L. 223/2006 poi convertito in legge 248/2006. Vengono abrogate, con riferimento alle attività professionali ed intellettuali, ex articolo 2 lett. a, l’obbligatorietà delle tariffe fisse o minime, il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti e quello di svolgere pubblicità informativa, restano ferme, invece, le eventuali tariffe massime prefissate a tutela degli utenti.[27] Inoltre, si prevede l’adeguamento di tutte le disposizioni deontologiche nonché l’adozione di misure di garanzia entro il termine del 1 gennaio 2007 pena la nullità delle disposizioni contrarie per nullità di norma imperativa.

Con l’abrogazione del tariffario viene a cadere uno dei maggiori vincoli allo sviluppo di un mercato effettivamente concorrenziale nel settore delle libere professioni con evidente favore per le giovani generazioni che possono utilizzare il prezzo per lo spostamento della domanda, si favorisce la trasparenza del mercato e maggiore concorrenza tra i professionisti.[28] La portata della liberalizzazione Bersaniana, tuttavia, sembra essere stata ridimensionata con l’introduzione del comma 2-bis all’articolo 2233 c.c. secondo cui le sole tariffe professionali forense possono essere derogate solo a mezzo di pattuizioni scritte tra avvocati e clienti la cui forma ad substantiam è prevista a pena di nullità. Ove la misura non sia convenuta per iscritto col cliente tornano ad essere applicati i sistemi tariffari. Sembrerebbe evidente, infatti, che la legge abbia favorito la competenza tecnica dell’avvocato, che saprà quali sono le forme da utilizzare ex lege piuttosto che tutelare la parte debole analfabetizzata di nozioni giuridiche. Unica deroga, riguardo alla abrogazione delle tariffe forensi, è prevista nella liquidazione giudiziale dei compensi e nelle cause di gratuito patrocinio nelle quali il giudice deve provvedere alla determinazione dei compensi sulla base della tariffa professionale.

Il CNF, come risposta alla suindicata riforma, emana una circolare n. 22/2006 nella quale affermava che taluni comportamenti degli avvocati, pur se adottati in conformità alla legge, possono assumere rilevanza sotto il profilo deontologico ed essere sanzionati disciplinarmente.[29] Il Consiglio dell’Ordine parte dal presupposto di un sistema duale per il quale ciò che è lecito e valido civilisticamente può continuare ad essere un illecito deontologico.[30] Altresì, viene emendato l’art. 45 del Codice Deontologico, consentendo all’avvocato di pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimenti degli obiettivi perseguiti (…) sempre che i compensi siano proporzionali alla attività svolta. A distanza di pochissimo tempo, dalla circolare del 2006, da una parte il CNF, avvertita l’esigenza di emanare una nuova circolare 23/2007, dà atto che la precedente circolare risulta superata, dall’altra, l’AGCM avvia una indagine al fine di comprendere se gli Ordini professionali stiano recependo le modifiche attuate dalla Riforma Bersani.[31]

Il processo di liberalizzazione prosegue con l’entrata in vigore del D.L.138/2011, convertito in legge 183/2011, e con il D.P.R. 137/2012. Il decreto del 2011 abroga le indebita restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e tra queste, all’articolo 9, l’imposizione dei prezzi minimi. Il decreto del 2012, invece, con riferimento alle professioni regolamentate, ribadisce l’abrogazione delle tariffe elaborate del sistema ordinistico e delle disposizioni vigenti che rinviano alle tariffe per la determinazione del compenso del professionista. Il 2 febbraio 2013 è entrata in vigore la legge 247/2012 con la quale si stabilisce che la pattuizione dei compensi è libera e che il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale. Il professionista è obbligato a rendere al cliente tutte le informazioni necessarie sulla complessità dell’incarico, prestazione e compensi.

  1. L’ultimo intervento dell’AGCM: I748 provvedimento n. 25154/2014

Nel 2012, l’Autorità veniva a conoscenza della presenza sul sito istituzionale del CNF del documento denominato “Nuovo tariffario forense”, consistente nel D.M.127/2004, accompagnato dalla circolare 22/2006 e successivamente veniva inviata una articolata richiesta di informazioni al CNF per accertare le ragioni della permanenza della suindicata documentazione. In data 11 gennaio 2013, il CNF rispondeva spiegando di essere venuta a conoscenza della erronea pubblicazione della circolare del 2006, come premessa al D.M.127/2004, solo a seguito della richiesta di chiarimenti da parte dell’Agcm, e comunicava di avere provveduto a ricollocare la documentazione in questione dalla voce “Nuovo tariffario forense” a quella di “Storia dell’Avvocatura”.[32] Sulla base di indagini ulteriori, il 20 maggio 2013, l’Autorità accertava che il D.M. 127/2004, nonché il successivo D.M.140/2012, e la circolare 22/2006 erano stati ricollocati nella sezione “Tariffe professionali” accessibile dalla homepage del sito web del CNF. Il sito web era gestito dalla società WKI che ne curava la banca dati. Secondo quanto ricostruito da WKI, la pubblicazione della Banca dati, contenenti i documenti in questione, era stata decisa congiuntamente con il CNF e resa disponibile online già dal 2008. Il documento non era stato poi modificato se non per aggiungervi il D.M. 140/2012. Altra presunta violazione consisteva nella formulazione del parere 48/2012 da parte del CNF, in risposta ad una richiesta da parte del Consiglio dell’Ordine di Verbania, sulla compatibilità con l’articolo 19 del Codice deontologico dell’offerta da parte di un avvocato di prestazioni scontate attraverso siti web, che nello specifico era Amicard gestito dalla società Nethuns s.r.l..[33] Il CNF, rilevando come il sito costituisse un canale di informazione, concentrato sull’aspetto della mera convenienza economica del servizio offerto, accertava lo svilimento della prestazione professionale da contratto d’opera intellettuale a questione di puro prezzo. La diffusione delle forme di comunicazione per mezzo internet non poteva obliare ai valori fondanti della professione forense e dell’etica comportamentale dell’avvocato. Il gestore del sito Web, concludeva, si poneva a titolo oneroso come soggetto interposto tra avvocato e cliente per consentirgli l’assunzione di incarichi in violazione dell’articolo19 del Codice deontologico. Esaminiamo, ora, quali siano state le argomentazioni a difesa portate dal CNF.[34] Lo stesso affermava che le norme antitrust non potevano applicarsi al caso di specie né ratione personaeratione materiae, Sotto il primo profilo, gli avvocati non potevano considerarsi imprese visto che la legge forense vieta agli stessi espressamente di svolgere attività di impresa; sotto quello oggettivo si escludeva la competenza della AGCM a sindacare gli atti del CNF nonché le norme dettate sul piano deontologico. Riguardo alla pubblicazione delle tariffe sulla homepage del sito del Consiglio dell’Ordine, lo stesso obiettava che nulla potesse essergli imputato in quanto la gestione della Banca dati era gestita da WKI con la quale aveva stipulato apposito contratto. Infine, il CNF affermava che la circolare del 2006, essendo rivolta a professionisti in grado di comprendere e interpretare le disposizioni di legge vigente, non avrebbe potuto vincolare la condotta dei professionisti sul prezzo nello svolgimento della loro prestazione intellettuale. Tuttavia, il Consiglio dell’Ordine non escludeva un suo intervento sanzionatorio ogni qualvolta il professionista avesse richiesto un compenso non adeguato né proporzionato alla prestazione sulla base della protezione del decoro della professione. Il decoro professionale, infatti, con riferimento al secondo comma dell’articolo 2233 c.c., costituiva principio generale e cogente ed era diretta espressione dell’articolo 36 della Costituzione. Sulle indicazioni relative ad iniziative pubblicitarie che utilizzano siti web, il CNF ha fatto notare che il sistema telematico Amicard non poteva ritenersi compatibile con le norme deontologiche forensi. In particolare, siti web come quello nel caso di specie, afferma, spersonalizzerebbero il rapporto cliente e avvocato mercificando la prestazione professionale. L’Autorità respinge le considerazioni effettuate dal Consiglio forense. In particolar modo afferma, richiamandosi ad un nutrito e consolidato orientamento giurisprudenziale europeo, la natura di impresa dei professionisti intellettuali e di associazione di impresa dei relativi organi rappresentativi ai fini della applicazione dell’articolo 101 TFUE. Quanto poi all’asserita natura di norme primarie delle norme deontologiche, tale qualificazione era rigettata perché in contrasto con i principi costituzionali ed europei. Infatti, sulla base dell’articolo 70 Cost., una delega in bianco al CNF ad emanare norme di carattere primario costituirebbe una “macroscopica violazione” della norma costituzionale. Con riferimento alla imputabilità della condotta di cui alla circolare 22/2006 non meritano accoglimento le argomentazioni del CNF che attribuirebbero la responsabilità alla sola società WKI. Infatti, indipendentemente dal soggetto incaricato alla gestione, afferma l’Autorità, la documentazione disciplinante l’ordinamento forense era caricata sul sito istituzionale del CNF e pertanto percepibile degli utenti come atti che regolano lo svolgimento della professione. Altresì, il CNF non può discolparsi adducendo di essere avvenuta a conoscenza del “disguido tecnico” relativo alla pubblicazione della circolare sulla sua homepage in quanto lo stesso intratteneva “una interazione continua e informale” con WKI che gestiva la banca dati del sito web. In riferimento al contenuto della circolare del 2006, l’Autorità constatava che la stessa, di fatto, reintroduceva le tariffe minime, non più obbligatorie già dalla riforma Bersani e dalla L.27/2012 nella misura in cui affermava che gli avvocati che dovessero richiedere compensi inferiori ai minimi tariffari commetterebbero violazioni delle norme deontologiche e sarebbero esposti a sanzioni disciplinari. I parametri dettati dal D.M.127/2004 e D.M. 55/2014 non possono costituire vincoli per il professionista il quale rimane libero di decidere in via autonoma il proprio compenso. La condotta di prezzo non può essere sindacata deontologicamente dall’Ordine di appartenenza nel caso di mancata corrispondenza con i parametri fissati. Gli avvocati, in questo modo, non solo non sarebbero incentivati a discostarsi dalle indicazioni fornite dal CNF per paura di ritorsioni (rectius sanzioni) deontologiche ma la stessa pubblicazione della circolare sulla homepage, sotto la voce tariffe, sarebbe idonea ad limitare le condotte dei professionisti in materia di compensi. E’ importante citare, ai nostri fini, una pronuncia della Cassazione, riportata dall’AGCM nella sua istruttoria, che afferma “l’abrogazione della obbligatorietà delle tariffe riguarda la generalità delle professioni e la riforma Bersani possiede una valenza di sistema e riforma economico-sociale con l’esplicito obiettivo di assoggettare tutte le professioni ai principi della tutela concorrenza”.[35]La stessa Corte, in riferimento al comma secondo dell’articolo 2233 c.c., sostiene che il principio del decoro professionale esplica rilevanza esclusivamente nell’ambito dei rapporti tra professionista e cliente e non si rivolge agli ordini professionali i quali non hanno il potere di pretendere, sul piano deontologico che il compenso della prestazione professionale, liberamente pattuito, sia in ogni caso adeguato ai parametri fissati che concretamente reintrodurrebbero la obbligatorietà delle tariffe. In ordine, infine, al divieto di svolgere pubblicità in apparente conflitto con l’articolo 19 del Codice Deontologico, l’Autorità ha affermato che l’impiego di piattaforme come Amicard costituiscono un mezzo idoneo per fornire agli avvocati di un importante canale per la diffusione della informazione circa la natura e la convenienza dei servizi professionali offerti in grado di raggiungere un ampio numero di consumatori in tutta Italia. Alla luce delle considerazioni effettuate, l’Autorità Garante per la concorrenza e il mercato riteneva che le condotte assunte dal CNF avessero natura anti-competitiva perché incidevano sulle politiche di prezzo degli avvocati che operavano in tutta Italia. La stessa Autorità contesta al CNF non due distinte intese, id est, circolare 22/2006 e il parere 46/2012, ma una intesa unica e continuata sulla base del comune obiettivo anticoncorrenziale delle stesse consistente nel limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato sia sul versante dei compensi che su quella dell’offerta dei servizi professionali. Non vi è dubbio che il CNF adottando le decisioni di cui sopra abbia realizzato un illecito amministrativo ex l.689/1981. Lo stesso infatti avrebbe violato più norme giuridiche in maniera ripetuta o, utilizzando una terminologia propria del diritto penale, continuata. Pertanto, la decisione dell’Autorità di sanzionare il CNF contestandogli una intesa unica, restrittiva e continuata sarebbe giustificabile dal comune scopo perseguito dal Consiglio dell’Ordine: limitare la competitività tra professionisti e mantenere ancora in vigore, nonostante l’abrogazione espressa da parte del legislatore, vincoli protezionistici come l’obbligatorietà delle tariffe.

L’AGCM condannava, in conclusione dell’istruttoria, il CNF ad una sanzione pari a 912.536,40 ritenendolo responsabile della violazione dell’articolo 101 TFUE.

  1. Conclusioni e prospettive

Sulla base degli orientamenti così come tratteggiati emergono due capisaldi all’interno del nostro ordinamento riguardo le professioni legali: da una parte la loro natura di impresa ai fini della applicazione dell’articolo 101 TFUE e di associazione di impresa dei relativi organi associativi di rappresentanza, dall’altro, l’imposizione di minimi inderogabili è di oltralcio alla competitività tra professionisti e contrasta con la normativa antitrust. I recenti interventi normativi si sono mossi nell’attuare le norme comunitarie inserendole in un contesto italiano che ormai appariva obsoleto rispetto al panorama europeo. La timidezza del nostro legislatore di trasferire in un progetto di riforma la nuova figura di professionista veniva giustificata dalla esigenza di proteggere il prestigio dell’avvocato quasi che l’abolizione delle tariffe e la logica della concorrenza significassero svincolare l’avvocato da norme deontologiche.[36]

Riguardo la restaurazione dei minimi tariffari inderogabili, da una parte si sostiene che la fissazione di minimi tariffari costituirebbe una natura corporativistica a finalità protettiva dei professionisti,[37] dall’altra, invece, si ritiene che mancherebbero oggi nell’ordinamento forense gli elementi costitutivi della corporazione che sarebbero un modello ormai tramontato.[38] La reintroduzione dei minimi sarebbe controproducente e dannosa per la concorrenza e per i consumatori. La parte debole, sulla base della normativa attuale, avrà il diritto di essere informato preventivamente sull’ammontare del servizio professionale nonché sulle qualifiche professionali e culturali del professionista. Questo scambio di informazioni avrà il compito di colmare il gap di asimmetria informativa della parte meno esperto rispetto al professionista e di favorire la trasparenza del mercato. Diversamente con la obbligatorietà delle parcelle, il sistema dei compensi era imperniato sulla opacità dei pagamenti. Il cliente, infatti, solo ex post, una volta effettuata la prestazione, poteva conoscere l’ammontare del compenso. Prima di allora era assai difficile poter prevedere il costo dell’attività richiesta, il quale era affidato a variabili imponderabili.[39] Sembrerebbe condivisibile, secondo un indirizzo dottrinale, la redazione di best practise guidelines idonee a guidare sia il professionista nella determinazione del compenso sia il consumatore per renderlo edotto, sulla base di alcune caratteristiche delle prestazione (quantità, tempi e risultato), su costi che, in linea di massima, dovrà sopportare.[40] L’insieme di questi dati costituirebbe una valida base documentale sulla quale fondare il compenso professionale. Naturalmente la predisposizione di questi cataloghi dovranno essere curata dal CNF e non costituirebbero alcuna forma surrettizia di tariffe obbligatorie per il professionista. Questi, infatti, potrà ben discostarsene in riferimento alla natura della prestazione nel caso concreto.

Note

[1] A. FIGONE, Tariffe professionali in Digesto, sez. civile, XIX, p. 278

[2] G. COPPOLA, Cultura e potere. il lavoro intellettuale nel mondo romano, Milano, 1994, pp. 211 ss

[3] Corte Costituzionale 4 aprile 1960 n. 20

[4] C. GESSA- P.TACCHI, Tariffe professionali, Enc. giur., 1993, Roma, p.2

[5] A. FIGONE, voce tariffe professionali, cit., p.279

[6] Cassazione civile 13 luglio 1965 n. 1475

[7] C. LEGA, Su alcuni criteri per determinare il compenso del professionista, Giur. it., 1967, p. 362.

[8] A. BERLINQUER., Sulla vexata quaestio delle tariffe professionali forensi in Merc.,conc.,regole, 1/2011, p.70

[9] Cass. 8 luglio del 1960 n.1827 in Giur.it., 1960, I, p.1092

[10] Ex multis, Cass. 3094/1990, 2240/1990

[11] C. GESSA- P.TACCHI, Tariffe professionali, cit., p.2

[12] Comunicazione della Commissione del 9 febbraio 2004 COM (2004)83

[13] A tal proposito la Commissione europea sia nel 2004 che nel 2005 (COM(2005)405) ha sostenuto che, pur sussistendo ragioni per ritenere giustificato un certo grado di regolamentazione del settore professionale, le tradizionali regole restrittive della concorrenza sono legittime solo se necessarie per raggiungere un obiettivo di interesse generale. Si tratta, infatti, di operare un bilanciamento tra il principio della concorrenza e, dall’altro, gli interessi pubblici che possono essere connessi alle attività libero professionali. Dello stesso avviso il Parlamento europeo che, nella Risoluzione sulle regolamentazioni e le norme di concorrenza per le libere professioni del 16 dicembre 2003, ha auspicato una maggiore apertura delle professioni alla libera concorrenza.

[14] Corte CE 41/1990 Hofner and Helser/Macroton

[15] Corte di Giustizia C180/1998 Pavel Pavlov; F.GHEZZI-G.OLIVIERI, Diritto Antitrust, Giappichelli, Torino, 2013, pp.85ss

[16] Corte di Giustizia causa 309/99 Wouters

[17] Corte di Giustizia, C35/96 Spedizionieri doganali

[18] A tal proposito in dottrina si fa notare come la distinzione tra professione e impresa nasce nel contesto di una logica mercantilistica nella convinzione che l’omologazione dei professionisti all’impresa possa tutelare illusoriamente il consumatore nel rispetto delle regole della concorrenza e l’offerta del prodotto a minor costo. Sulla adozione di minimi tariffari chi vive la vita professionale sa bene quanta parte della qualità della prestazione sia condizionata dalla capacità del professionista di accaparrarsi la clientela con la professionalità e la cultura piuttosto che con lo sconto sugli onorari: G. LAURINI, Tariffe professionali e libera concorrenza, Notariato, 2, 1995, pp.105-106.

[19] Corte di Giustizia, C35/99 Arduino

[20] A. BERLINQUER, Professione forense, Impresa e Concorrenza, cit., pp.287 ss.

[21] Corte di Giustizia, causa 5012006 GlaxoSmithKline services unlimited v. Commissione

[22] P. MENGOZZI, Dottrina e problemi del notariato, argomenti e attualità, Riv. Not., anno LXI, 2007, pp.248-249.

[23] A. BERLINQUER, Il punto e la linea su servizi legali e diritto comunitario, Contratto e Impresa/Europa, 2, 2007, pp. 944-945

[24] CORTE CE, grande sezione, 5 dicembre 2006, nei procedimenti riuniti C94/2004 e C202/2004.

[25] Provvedimento del 1 dicembre 1994 n.2523 in Bollettino 48/1994 in www.agcm.it.

[26] V. MELI, L’indagine dell’Autorità Antitrust sugli ordini e collegi professionali, Riv. dir. priv. , 4, 1997, pp. 664-665

[27] L’articolo 1 della legge 233/2006 fa riferimento “alla improcrastinabile esigenza di rafforzare la libertà di scelta del cittadino (…) viene manifestata l’esigenza di garantire il rispetto degli artt. 43,43,81 e 86 TCE nonché l’osservanza delle raccomandazioni e dei pareri della Commissione e della Autorità Antitrust ”.

[28] A. CORSIRI, Le tariffe professionali forensi tra diritto interno e comunitario: le liberalizzazioni viste alla luce del diritto Antitrust e della libera circolazione dei servizi in Studium Iuris, I, 2007, pp.399 ss.

[29] Il CNF rilevando il fatto che le tariffe minime non siano più obbligatorie non esclude che le parti contraenti possano concludere un accordo con riferimento alle tariffe prevista dal Decreto Ministeriale. Tuttavia nel caso in cui l’avvocato concluda patti che prevedono un compenso al di sotto dei minimi tariffari, pur essendo legittimo civilisticamente, esso può risultare in contrasto con il Codice deontologico in quanto il compenso irrisorio lede la dignità del professionista e viola l’articolo 36 Cost.

[30] M.CLARICH, Liberalizzazioni: una lettura delle norme non in linea con il diritto antitrust, Guida al dir., 2006, 37, pp.13 ss.

[31]   IC34 in Bollettino 2/2007. L’indagine conoscitiva terminata nel 2009 ha rilevato che non sussiste alcun nesso di causalità tra tariffe uniformi e predeterminate e qualità dei servizi professionali prestati; la fissazione delle tariffe produce l’effetto di uniformare i comportamenti di mercato degli esercenti la professione ed, infine, ha constatato che le norme deontologiche che impongono il rispetto dei tariffari costituiscono restrizioni alla concorrenza. L’Autorità ha poi affermato che la permanenza dopo la Riforma Bersani, del secondo comma dell’articolo 2233 c.c. spiega i suoi effetti sul piano dei rapporti di tipo privatistico non potendosi attribuire a tale disposizione rilevanza sul piano deontologico. Ciò nonostante, si fa notare che sono ancora numerosi i Codici Deontologici che continuano a considerare le tariffe professionali, la cui obbligatorietà e di fatto reintrodotta con riferimenti al decoro della professione, che costituirebbe un parametro di riferimento per la determinazione dei compensi. L’Agcm ha concluso la sua indagine conoscitiva, proponendo che i Codici Deontologici rispettino alcuni criteri quali la libertà di pattuire i compensi e la abrogazione della obbligatorietà delle tariffe in Boll. 9/2009 in www.agcm.it.

[32] I748, provvedimento 24455 in Bollettino 30/2013 in www.agcm.it

[33] Art. 19 ­– Divieto di accaparramento di clientela. E’ vietata ogni condotta diretta all’acquisizione di rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi alla correttezza e decoro. I.  L’avvocato non deve corrispondere ad un collega, o ad un altro soggetto, un onorario, una provvigione o qualsiasi altro compenso quale corrispettivo per la presentazione di un cliente.  II. Costituisce infrazione disciplinare l’offerta di omaggi o prestazioni a terzi ovvero la corresponsione o la promessa di vantaggi per ottenere difese o incarichi. III.  E’ vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico. IV.  E’ altresì vietato all’avvocato offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata e, cioè, rivolta a una persona determinata per un specifico affare in www.consiglionazionaleforense.it.

[34] I748 provvedimento n.25154 in Bollettino 44/2014 in www.agcm.it.

[35] Cassazione civile sentenza 3715/2013

[36] G. AMENTA, La professione forense nell’Italia comunitaria, Giappichelli, Torino, 2001, p.207.

[37] A. CORSIRI, Le tariffe professionali forensi tra diritto interno e comunitario: le liberalizzazioni viste alla luce del diritto Antitrust e della libera circolazione dei servizi, cit., p.399

[38] A.BRAMBILLA, Dalle arti liberali alle professioni in Corpi e professioni tra passato e futuro, Giuffrè, Milano, 2002, pp. 62 ss.

[39] A. BERLINQUER., Sulla vexata quaestio delle tariffe professionali forensi, cit., pp.90-91.

[40] Ibidem, pp. 91-92.