Alcuni profili di illegittimità degli swap, sul modello degli interest rate swap: i costi impliciti e la mancata indicazione del mark to market (di C. N. Sforza)
Alcuni profili di illegittimità degli swap, sul modello degli interest rate swap: i costi impliciti e la mancata indicazione del mark to market.
(di Carlo Nunzio Sforza).
Sommario: 1. Introduzione. Gli strumenti finanziari derivati, in generale. – 2 Gli interest rate swap. Caratteri principali. – 3 I costi impliciti. – 4 La mancata indicazione del mark to market. – 5 Conclusioni.
1. Gli strumenti finanziari derivati, in generale.
Gli strumenti finanziari derivati sono contratti la cui caratteristica principale, da cui il nome “derivati”, è rappresentata dal fatto che il loro valore deriva dall’andamento del valore di una attività ovvero dal verificarsi di un evento osservabile oggettivamente[1].
L’attività ovvero l’evento, che può essere di molteplice natura o genere (derivati su azioni, indici, tassi di interesse, tassi di cambio, merci, obbligazioni, etc), costituisce il “sottostante” del prodotto derivato, definito anche “underlying asset”.
Questi contratti sono utilizzati, principalmente, per tre finalità: di copertura (cd. hedging), al fine di ridurre il rischio finanziario di una posizione costituita dall’attività che si intende coprire; speculativa (cd. trading), assumendo esposizioni al rischio al fine di conseguire un mero profitto in base all’aspettativa circa il futuro andamento della situazione sottostante; di arbitraggio, allo scopo di conseguire un profitto privo di rischio attraverso transazioni combinate sul derivato e sul sottostante tali da cogliere eventuali differenze di valorizzazione.
Ovviamente e come si sarà già compreso, ne sussistono molteplici tipi, a seconda delle finalità che tendono a realizzare.
A scopo esemplificativo e di comprensione del fenomeno, possiamo indicarne alcuni, con l’immediata avvertenza che il presente approfondimento riguarderà gli swap, ed in particolare i diffusissimi interest rate swap, con riguardo a specifiche ipotesi di illegittimità sulla base della normativa e giurisprudenza recente.
I contratti forward e future sono i principali contratti derivati a termine.
Nel contratto forward, i flussi di cassa si manifestano alla scadenza (maturity date), quando l’acquirente riceve il bene sottostante in cambio del prezzo concordato nel contratto (cd. physical delivey), ovvero le due parti si scambiano la differenza fra il prezzo di mercato dell’attività alla scadenza ed il prezzo di consegna indicato nel contratto che, se positiva, sarà dovuta dal venditore all’acquirente e viceversa se negativa (cd. cash settlement). Ovviamente, le variazione del sottostante determina alla data stabilita il profilo di rischio/rendimento del contratto, che può avvantaggiare o svantaggiare l’una o l’altra parte a seconda che il bene sottostante subisca un deprezzamento o apprezzamento. Questi contratti si caratterizzano per essere stipulati over the counter, riguardando quindi sottostanti non presenti nei mercati regolamentati, che, quindi, non figurano nei listini di borsa. Pertanto, la regolamentazione risulta demandata alle parti ed il prezzo finale, con il conseguente rischio, determinato dal mercato.
Un esempio concreto, e frequente, può essere fatto con riferimento al prezzo del barile: due parti si impegnano a scambiarsi, alla data stabilita, una certa quantità di barili di petrolio ad un prezzo stabilito originariamente (physical delivey), ovvero si impegnano a scambiarsi, sempre alla scadenza, la differenza fra il prezzo di mercato di quella data quantità di barili di petrolio ed il prezzo indicato originariamente nel contratto. Come ben si comprende, le oscillazioni del prezzo del petrolio sono all’origine del rischio assunto con il contratto.
I contratti future presentano le medesime caratteristiche, ma si differenziano da quelli forward per il fatto di essere standardizzati e negoziati sui mercati regolamentati (ad esempio, parametrandone il valore ad un titolo azionario). Il prezzo di consegna alla scadenza prende il nome di future price, e la standardizzazione fa sì che esistano serie di contratti uguali per oggetto, dimensione, date di scadenza, regole di negoziazione e così via. Altra caratteristica peculiare dei future è la presenza di una controparte unica per tutte le transazioni (cd. clearing house), che per il mercato italiano è la Cassa di compensazione e garanzia, con il compito di assicurare il buon fine delle operazioni e la liquidazione (intesa come calcolo) e corresponsione giornaliera dei profitti e delle perdite conseguiti dalle parti. La Cassa di compensazione e garanzia si interpone in ogni scambio sui future e garantisce l’operazione (salvo, ovviamente, rivalersi sui soggetti inadempienti).
Sempre in funzione di garanzia, è stato attivato nel sistema italiano il meccanismo dei margini, per il quale le parti versano un margine iniziale e dei margini di variazione, a garanzia del buon andamento dell’intera operazione.
Come ben si comprende, i contratti future, per tutte queste caratteristiche, risultano molto meno rischiosi per le controparti, ed in generale per la parte meno informata e professionale, rispetto ai contratti forward.
Un’altra categoria di strumenti finanziari derivati è rappresentata dagli swap, la cui traduzione è, non a caso, “scambio”.
Attraverso gli swap, infatti, due parti si accordano per scambiarsi flussi di pagamenti (cd. flussi di cassa) a date certe, espressi nella stessa valuta o in valute differenti, il cui ammontare è determinato sempre attraverso il sottostante, che rappresenta l’elemento di rischio. Si tratta di contratti over the counter, e pertanto non negoziati nei mercati regolamentati.
I più importanti e diffusi, oggetto specifico del presente approfondimento, sono gli interest rate swap (il cui nome deriva dal fatto che risultano simili a pagamenti di interessi su un debito), nei quali le controparti si scambiano pagamenti periodici di interessi, calcolati su una somma di denaro (denominata nozionale di riferimento) per un periodo di tempo predefinito pari alla durata del contratto. Nel paragrafo successivo, avremo modo di approfondirne la tipologia prevalente (cd. plain vanilla) e le caratteristiche specifiche.
Un altro tipo di swap è rappresentato dai currency swap (letteralmente “scambio di valute”), caratterizzati dal fatto che le parti si scambiano il capitale e gli interessi espressi in una valuta contro capitali ed interessi espressi in un’altra valuta, con la conseguenza che il valore del rapporto di cambio fra le valute determina un ulteriore elemento di incertezza.
Negli asset swap, le parti si scambiano pagamenti periodici liquidati in relazione ad un titolo obbligazionario (asset) detenuto da una di esse. Pertanto, chi detiene l’obbligazione corrisponde l’interesse connesso alla stessa, mentre l’altra parte riceve l’interesse dell’obbligazione e paga un tasso di natura diversa (se l’obbligazione è a tasso fisso pagherà un tasso variabile, e viceversa).
Nei credit default swap, un soggetto (cd. protection buyer), a fronte di pagamenti periodici effettuati alla controparte (cd. protection seller) si protegge dal rischio di credito associato ad un determinato sottostante, generalmente denominato reference asset, che può essere costituito da una specifica emissione, da un emittente o da un intero portafoglio di strumenti finanziari, con funzione quindi di copertura dei rischi associati a quella determinata attività. Ad esempio, la parte che vende protezione si impegna a rimborsare la controparte nel caso in cui un terzo (il “soggetto di riferimento” sottostante al contratto) non sia in grado di far fronte ai propri impegni finanziari, in particolare al ricorrere di un evento identificato come una situazione di default.
Inoltre, e fermandoci qui per evidenti motivi, possiamo citare i total return swap, molto simili per funzione ai precedenti, nei quali un soggetto (cd. protection buyer) cede alla controparte (cd. protection seller) l’intero profilo di rischio/rendimento di un sottostante (cd. reference asset), a fronte di un flusso di pagamenti periodici.
Infine, è annoverabile tra gli strumenti finanziari derivati anche l’opzione, cioè il contratto che attribuisce il diritto, e non l’obbligo, di comprare (opzione call) o vendere (opzione put) una data quantità di un bene (sottostante) ad un prezzo prefissato (cd. prezzo di esercizio o strike price) entro una certa data, nel qual caso si parla di opzione americana, o al raggiungimento della stessa, nel qual caso si parla di opzione europea. Il bene sottostante, che deve essere scambiato in un mercato con quotazioni ufficiali o riconosciute ovvero, nel caso di evento, deve essere oggettivamente riscontrabile, può essere un’attività finanziaria, una merce, o appunto un evento di varia natura.
Ovviamente, nel momento in cui il compratore dell’opzione esercita il diritto, acquistando o vendendo (a seconda che sia call o put), si determinerà il ricavo delle parti sulla base della differenza fra il prezzo corrente del sottostante (cd. prezzo spot) ed il prezzo di esercizio[2].
2. Gli interest rate swap. Caratteri principali.
Dopo aver, seppur brevemente, citato i principali strumenti finanziari derivati, con l’avvertimento che il loro numero è pressoché sconfinato, rispondendo ognuno di essi a specifiche funzioni e finalità stabilite dalle parti, possiamo dirigere il nostro sguardo agli interest rate swap.
Abbiamo già detto che gli interest rate swap (IRS) sono contratti nei quali le controparti si scambiano pagamenti periodici di interessi, calcolati su una somma di denaro (denominata nozionale di riferimento) per un periodo di tempo predefinito pari alla durata del contratto.
La forma più diffusa di IRS, e su cui concentreremo la nostra attenzione per motivi di comodità espositiva, è quella denominata plain vanilla swap, le cui caratteristiche principali sono, sostanzialmente, le seguenti: la durata dello swap è un numero intero di anni; uno dei flussi di pagamenti è basato su un tasso di interesse fisso, mentre l’altro è indicizzato ad un tasso di interesse variabile; il capitale nozionale resta costante per tutta la vita del contratto.
Generalmente, in tale contratto viene definito acquirente dello swap chi corrisponde i pagamenti a tasso fisso e riceve quelli a tasso variabile, affermandosi che assume una posizione lunga (long swap position), mentre venditore la parte che in cambio del tasso variabile riceve il tasso fisso, affermandosi che assume una posizione corta (short swap position).
“Gamba fissa” e “gamba variabile” sono definiti i due flussi di pagamenti di interessi, rispettivamente a tasso fisso e a tasso variabile, i quali vengono determinati moltiplicando il valore del tasso per il capitale nozionale di riferimento in relazione alla frazione d’anno di pertinenza. Ad esempio, se il capitale nozionale, spesso collegato al valore di un contratto di leasing se lo swap ha finalità di copertura (cd. hedging), è di centomila euro, il tasso fisso del 2% ed il tasso variabile corrispondente all’Euribor a 3 mesi, la parte che si è obbligata al pagamento della gamba fissa dovrà corrispondere gli interessi determinati dalla moltiplicazione tra il capitale di riferimento ed il tasso (il 2% di centomila), mentre l’altra parte dovrà corrispondere gli interessi determinati dall’euribor in quel dato momento (ad esempio, 1,5% dei centomila).
Sussistono, tuttavia, oltre al modello plain vanilla, diverse tipi di interest rate swap, come ad esempio il cd. ammortising swap, in cui il capitale nozionale si riduce con il passare del tempo, ovvero il cd. step-up/accreting swap, in cui al contrario tale capitale si accresce col passare del tempo, e così via.
Dopo averne indicato i contorni essenziali, possiamo brevemente accennarne i caratteri fondamentali e la normativa italiana corrispondente, frutto ovviamente anche di molteplici interventi e sollecitudini europee e internazionali (basti citare, tra i provvedimenti recenti più importanti, la Direttiva 2014/65/UE ed il Regolamento UE n. 600/2014[3]), vista la diffusione del fenomeno.
In particolare, gli elementi fondamentali di un plain vanilla swap, da indicare nel contratto (ovviamente stipulato in forma scritta, ex art. 23 Testo Unico Finanziario), sono i seguenti: la data di stipula del contratto, il capitale nozionale di riferimento, la data di inizio della maturazione degli interessi, la data di scadenza del contratto, le date di pagamento quando vengono scambiati i flussi di interessi, il livello del tasso fisso e di quello variabile.
Lasciando da parte l’ampia normativa attinente all’utilizzo degli strumenti finanziari derivati da parte delle pubbliche amministrazioni, possiamo dire che la regolamentazione della prestazione dei servizi di investimento è essenzialmente contenuta, nel nostro ordinamento, nel Testo Unico Finanziario[4] e nel Regolamento Consob n. 16190 del 2007[5], che ha abrogato il precedente n. 11522/1998.
In realtà, poi, come ben si sarà compreso, il mondo degli strumenti finanziari derivati è molto vasto e variegato, ed ovviamente tocca ambiti fra loro differenti. Basti citare, al riguardo, brevemente i dati del fenomeno per rendersi conto della portata effettiva di esso: secondo una rilevazione della Banca dei Regolamenti Internazionali sul mercato dei derivati OTC delle maggiori banche di 13 paesi sviluppati, a fine 2014 il valore nozionale dei contratti era di circa 520 mila miliardi di euro, otto volte il PIL mondiale, con un mercato cresciuto complessivamente del 21% dal 2008[6].
In Italia, il valore nozionale dei contratti derivati risulta essere inferiore, in rapporto al PIL, alla media globale, e risulta essersi contratto di circa un quarto tra la fine del 2008 e dicembre 2014, ma si tratta comunque di quattro volte il valore del PIL. Per la precisione, il valore di mercato lordo era pari a 477 miliardi a fine 2014, 164 verso residenti, di cui il 14% relativo a soggetti non finanziari. Il valore negativo per la clientela residente non finanziaria (positivo per le banche) dei contratti a tale data ammontava a circa 7 miliardi per le imprese, 9 per le Amministrazioni pubbliche, 0,1 per le famiglie[7].
Tutto ciò ha determinato, anche in Italia come in tutto il mondo, controlli maggiori sull’utilizzo di tali strumenti, anche in via sistemica generale, mediante la Banca d’Italia a cui sono affidati i controlli prudenziali di stabilità, e la Consob per i controlli sulla trasparenza di tali prodotti e la correttezza dei comportamenti.
Il presente lavoro, tuttavia, data l’estensione del fenomeno, che coinvolge in modo notevole anche le Pubbliche Amministrazioni, spesso con situazioni gravissime cui sono esposti gli Enti locali[8], è diretto ad approfondire alcuni profili di illegittimità degli interest rate swap, sul modello dei plain vanilla, oggetto di pronunce recenti della giurisprudenza, al fine di comprenderne portata e novità esistenti. Tuttavia, i ragionamenti che si faranno nel prosieguo possono ritenersi valevoli (seppur, magari, con qualche differenza) anche per le altre tipologie di swap ed, in qualche caso, persino per i diversi tipi di strumenti finanziari derivati, sebbene, per evidenti ragioni espositive, ci si concentrerà come già detto sugli interest rate swap.
In premessa, però, a tale ragionamento che appronteremo di seguito, non possiamo esimerci, vista la rilevanza del fenomeno e degli interessi sottostanti, dal sottolineare come la giurisprudenza ed anche la normativa, in modo sempre più pressante, facciano riferimento all’interesse del cliente nella conclusione degli swap ed, in generale, degli strumenti finanziari derivati.
A questo riguardo, particolarmente interessante è l’articolo 21 del Testo Unico Finanziario[9], il quale impone delle regole di comportamento nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento ed accessori, affermando al primo comma che “i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati; b) acquisire, le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati; c) utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti; d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee e ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività”. La giurisprudenza, richiamando tale articolo, è solita sostenere che “l’interesse del cliente deve, quindi, sempre costituire il punto di riferimento dell’attività professionale espletata dall’intermediario finanziario [..]. I doveri di diligenza, correttezza, trasparenza e di informazione impongono all’intermediario il dovere di proporre strumenti finanziari adeguati alle esigenze che il cliente abbia opportunamente manifestato..”[10], “Questo dovere di correttezza e diligenza cui l’intermediario è tenuto [..] è espressione del generale principio di buona fede oggettiva”[11], “Le operazioni in strumenti derivati dovrebbero presentarsi come potenzialmente vantaggiose per il cliente quanto meno nell’ipotesi di scenari economici a lui favorevoli”[12], ed infine, in una importantissima pronuncia che analizzeremo ampiamente nel prosieguo: “La dottrina e la giurisprudenza sono da tempo unanimi nell’affermare che, ai sensi dell’art. 21 TUF, è dovere inderogabile dell’intermediario finanziario agire, nella sostanza, quale cooperatore del cliente e nel suo esclusivo interesse, secondo il modello proprio della causa mandati […]. Inoltre, nella negoziazione di contratti derivati over the counter, come gli interest rate swap, i doveri di cui all’art. 21 TUF presentano caratteri peculiari. L’intermediario, allorché negozia un interest rate swap, deve prestare una specifica consulenza al cliente, indipendentemente dalla conclusione di un apposito contratto consulenziale, sul solo presupposto che la natura stessa dello strumento finanziario richiede che nella definizione dei suoi contenuti l’intermediario si raffiguri il miglior interesse del cliente, del tutto irrilevante restando il motivo che lo abbia indotto a contrattare, sia esso di copertura, ovvero speculativo. Costituisce principio ormai consolidato che l’Intermediario deve agire curando al meglio l’interesse dell’investitore, alla stregua di un cooperatore sostanziale di quest’ultimo, a tutela dell’integrità dei mercati, quale principio di ordine pubblico economico (art. 21 TUF)..” .
Ebbene, se, da un lato, come affermato nelle fondamentali “sentenze gemelle” della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 26724 e 26725 del 2007[13], la violazione di tali doveri non comporta di per sé la nullità del contratto, bensì una responsabilità precontrattuale con conseguente obbligo risarcitorio, dall’altro lato, tale elemento di cura dell’interesse del cliente rileva particolarmente in una visione più ampia dei doveri delle parti e della posizione delle stesse nella conclusione degli strumenti finanziari derivati, essendo specificamente richiamato nella ricostruzione dei vizi che analizzeremo. Ovviamente, poi, la norma dell’articolo 21 T.U.F. va collegata al Regolamento Consob n. 16190 del 2007, in particolare con la sua Parte II, artt. 27-38, che disciplina la trasparenza e correttezza nella prestazione dei servizi/attività di investimento e dei servizi accessori, prevedendo una serie di obblighi informativi, e con la Parte III, artt. 39-44, in particolare con riferimento all’adeguatezza e appropriatezza di tali strumenti finanziari proposti alla clientela.
A questo punto, avendo un sia pur semplice quadro d’insieme, possiamo dirigere la nostra attenzione verso alcuni particolari stati vizianti, i costi impliciti e la mancata previsione nel contratto del mark to market, con l’avvertenza iniziale che essi rappresentano ipotesi che potremmo definire (in modo atecnico) quasi residuali di illegittimità degli interest rate swap: degli stati vizianti sotterranei, oggetto di profondo sviluppo giurisprudenziale, e che anche per tale aspetto non possono non attirare l’attenzione di chi si trovi a valutare, per le più diverse ragioni, un contratto di swap, ed in particolare di interest rate swap.
3. I costi impliciti.
La prima ipotesi di illegittimità degli interest rate swap che intendiamo approfondire attiene alla possibile presenza di costi impliciti nel contratto stipulato tra le parti.
Partendo dalla normativa, occorre osservare come il paragrafo 4.1, Parte “B”, dell’Allegato 3 del Regolamento Consob n. 11522/1998, abrogato a seguito dell’approvazione del Regolamento Consob n. 16190 del 2007, recitava in maniera chiara che “alla stipula del contratto, il valore di uno swaps è sempre nullo”.
Con tale espressione, voleva intendersi che il fair value doveva essere pari a zero (derivato cd. par), cioè che le componenti periodiche del derivato stimabili alla luce del mercato, corrispondenti alle due gambe (tasso fisso e tasso variabile, nella tipologia plain vanilla) e alla loro proiezione sulla base di modelli matematico-probabilistici, dovevano essere pari a zero, altrimenti risultava squilibrato a vantaggio di una delle parti contraenti.
L’attualizzazione dei flussi di cassa attesi viene definito mark to market (mtm), e sarà oggetto di analisi in quanto tale e non in relazione allo squilibrio iniziale, successivamente nel presente studio.
Tale normativa, come detto, risulta superata a seguito della approvazione del Regolamento Consob n. 16190 del 2007 e della giurisprudenza concreta, ritenendosi attualmente che lo swap possa essere all’origine anche “non par”, laddove sia previsto un adeguato up front, cioè un vantaggio in termini economici che una parte dà originariamente all’altra al fine di compensarla della posizione svantaggiosa assunta.
A testimonianza e comprensione del concetto, si possono richiamare le precise parole dal Direttore Generale della Consob in audizione presso il Senato della Repubblica: “Normalmente, uno swap valutato al tempo zero, ossia al momento in cui viene costituito, ha un valore nullo, perché i valori attuali dei flussi delle cosiddette “due gambe”, tasso variabile e tasso fisso, dovrebbero essere uguali e pareggiare. Tuttavia, da parte di molti intermediari e di molti Enti territoriali è invalso avere due flussi iniziali non coincidenti, per cui all’inizio viene corrisposta all’Ente una somma, chiamata up front..”, ed ancora, in relazione all’indagine compiuta dalla Consob circa i prodotti derivati conclusi con gli Enti territoriali (ma il discorso è il medesimo per imprese e privati) “la Consob nel 2004 svolse un’indagine conoscitiva su un gran numero di banche, dalla quale risultò che alcune di esse – due in particolare in Italia – costituivano la “fabbrica” dei prodotti derivati. Successivamente furono eseguite delle ispezioni che, da una parte, confermarono quanto era emerso dall’indagine conoscitiva e, dall’altra, accertarono che molto spesso i prodotti derivati venivano venduti agli Enti territoriali come non par, cioè non alla pari, e qualche volta, magari, anche senza la commissione di up front. Sulla base di queste ispezioni due intermediari sono stati sanzionati: la stessa autorità giudiziaria ha confermato le sanzioni comminate dalla Consob”[14].
Ovviamente, come ben si comprende, alle volte può essere temporaneamente conveniente per l’impresa, il privato, o anche l’Ente locale, accettare condizioni “non par” con la previsione di un up front iniziale, perché si ottiene in tal modo un finanziamento monetario immediato sicuramente utile, anche se oggettivamente rischioso nella prospettiva complessiva dello swap.
Tuttavia, ed è qui il punto di questo primo profilo di illegittimità che intendiamo analizzare, accade alle volte che il contratto sia “non par”, ma non sia al contempo previsto alcun up front a vantaggio della parte originariamente svantaggiata e nel contratto sia indicata a chiare lettere l’assenza di commissione per l’attività di intermediazione finanziaria.
In tal caso, come vedremo di seguito, l’interest rate swap risulta indubbiamente squilibrato, ma tale squilibrio determina conseguenze giuridiche diverse a seconda della sua incidenza ed anche della ricostruzione giuridica dello strumento finanziario.
In un caso, riguardante il Comune di Penne (ma, anche qui, il discorso è il medesimo per il contraente privato), il Tribunale di Pescara[15] ha affermato come “ove invece gli swaps fossero ab origine contratti non par, ossia laddove presentassero al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, in quanto uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato, l’equilibrio finanziario delle condizioni di partenza dovrà essere ristabilito attraverso il pagamento di una somma di danaro da parte del contraente avvantaggiato al contraente svantaggiato e tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up front. Dunque l’up front, che costituisce un pagamento immediato a favore dell’altra parte, è tanto più alto quanto più è negativo il valore del contratto per la controparte, ed è evidentemente in ragione dell’accettazione di un rischio maggiore”. Nel caso concreto, il Tribunale, dopo aver richiamato gli obblighi di informazione e trasparenza incombenti sulla Banca, e sulla base della CTU riguardante entrambi gli IRS conclusi tra le parti, ha osservato come fossero presenti commissioni implicite, in quanto, nonostante la previsione di up front in ambedue i contratti, tuttavia il mark to market (cioè il valore di mercato del contratto, stimato attualizzando i flussi di cassa attesi) era negativo, malgrado “i contratti di swap escludevano qualunque importo a titolo di commissioni”. Di conseguenza, ha afferma il Tribunale che “la circostanza che la Banca abbia corrisposto, per ciascun contratto, l’up front non in misura integrale, per come sarebbe stato in considerazione del valore negativo di MTM dei contratti per il Comune, caricando sul cliente il pagamento di commissioni non previste, ed anzi escluse dai contratti de quibus, configura l’ipotesi di pagamenti, da parte del Comune, ab origine indebiti, mancando la causa contrattuale giustificativa dei pagamenti stessi (art. 2033 cc)”, così disponendo la ripetizione degli importi delle commissioni implicite, oltre al diritto agli interessi dal giorno di negoziazione di ciascun contratto.
Richiamata questa prima sentenza, non può sottacersi, tuttavia, come sussista oramai una copiosa giurisprudenza che affermi come la presenza di costi impliciti non dia luogo solo alla ripetizione degli stessi, qualificandoli come indebiti oggettivi, ovvero non determini esclusivamente il risarcimento del danno a vantaggio della parte svantaggiata, ma vizi la causa del contratto, determinandone la nullità, con conseguente ripetizione di ogni somma versata in sua esecuzione. Possiamo citarne, al fine di comprenderne il ragionamento sottostante, alcuni esempi.
Il Tribunale di Torino[16], con riguardo ad un interest rate swap con finalità di copertura dei rischi legati alle variazioni dei tassi di interesse in relazione ad un contratto di mutuo sottoscritto tra la stessa ricorrente e la Banca, ha pronunciato la nullità del contratto per il difetto di causa sulla base della presenza di costi impliciti, oltre che per altri elementi che peraltro saranno analizzati nel paragrafo successivo (mancata indicazione del mark to market). Interessanti le parole utilizzate dal Giudice nel caso in oggetto: “E’ comunque matematicamente evidente (sicché non è necessario procedersi a Ctu) come lo swap oggetto di causa non fosse in partenza par (ovvero nullo) da un punto di vista dei rischi rispettivamente assunti, ma negativo per la B., la quale, pertanto, ha sopportato un rischio di fatto diverso e maggiore rispetto a quello sostenuto dalla banca. L’attrice, infatti, si era obbligata a pagare alla controparte un tasso di interesse annuo pari al 4,72%, mentre la convenuta si era obbligata a pagare gli interessi calcolati sulla base dell’euribor a sei mesi, che, al momento della stipulazione del contratto, valeva all’incirca 4,24%. Di conseguenza, risulta evidente che il valore atteso dei flussi cedolari attualizzati alla data di stipulazione del contratto (ovvero il mark to market) era negativo per l’attrice atteso che gli interessi che essa si era impegnata a versare superavano gli interessi che si era impegnata a versare la banca (atteso il calcolo attualizzato del valore dell’euribor al momento della sottoscrizione dello swap). Per rendere quindi l’operazione in pari, la banca avrebbe dovuto corrispondere il cd. up front alla B., cioè una somma pari alla differenza di valore dei flussi esistente al momento della stipulazione del contratto, cosa pacificamente non avvenuta. [..] Detto squilibrio, inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della convenuta, non poteva certamente essere considerato manifesto in quanto mera applicazione dei criteri matematici esposti nello swap oppure ritenuto implicito nella natura dell’operazione intrapresa. [..] A ciò si aggiunga che il foglio informativo relativo ai contratti di interest rate swap espressamente escludeva l’applicazione di commissioni a carico della cliente”.
Al di là della ormai consueta, per tutte le ragioni già esposte, dichiarazione di illegittimità della previsione dei cd. costi impliciti, peraltro in questo caso desunti in qualche misura “ictu oculi” per la semplice sperequazione tra gli impegni assunti dalle parti (senza necessità nemmeno di una CTU), su cui forse si può sollevare qualche perplessità di fondo, ciò che va sottolineato sono le premesse del ragionamento sostenuto dal giudice e le sue conclusioni, determinanti la nullità del contratto per un vizio della causa.
Il Tribunale, infatti, partendo da un concetto di causa in “concreto” (peraltro richiamando una cospicua giurisprudenza, Cass.. Civ. n. 10490/2006, Cass. Civ. 23941/2009, Cass. n. 4612/1998), cioè in termini non di mera ed astratta funzione economico sociale del negozio bensì di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, nell’ottica di una dimensione funzionale del contratto stesso, ritiene viziata la causa laddove un contratto di swap sia strutturato in modo tale che uno dei contraenti sia in posizione svantaggiata, per l’appunto a causa della presenza di costi impliciti.
Peraltro, la base di tale dichiarazione di nullità è anche la visione dell’interest rate swap come una scommessa legalizzata, nella quale l’alea deve essere pre-determinata e chiara per entrambe le parti, come afferma la fondamentale sentenza della Corte di Appello di Milano n. 3459/2013, che analizzeremo successivamente.
Sempre in questa prospettiva, e riportando altri esempi giurisprudenziali, è stato osservato dal Tribunale di Orvieto[17] come “la possibilità di ravvisare nello schema delle operazioni “interest rate swap” una causa in astratto – coincidente con lo scambio di flussi corrispondente al differenziale che, nel tempo di esecuzione del contratto, si determina tra due tassi di interessi differenti e predefiniti, applicati a un capitale nozionale di riferimento – non preclude di verificare, con riguardo al contratto intervenuto tra le parti e considerato nella sua specifica conformazione, l’esistenza di una causa in concreto. Ne consegue che nell’ipotesi di contratto “non par” (ovvero non presentante, al tempo della sottoscrizione, un differenziale nullo), qualora la misura dell’ “up front” non valga a ristabilire la condizione di parità tra le parti, l’operazione dovrà ritenersi affetta da squilibrio genetico e pertanto qualificarsi nulla per difetto di causa in concreto”.
Ed ancora, il Tribunale di Monza[18], riscontrando che il contratto Plain Vanilla Swap in oggetto, concluso per finalità di copertura, fosse “connotato dalla previsione, a carico della cliente, di tassi d’interesse fissi crescenti di anno in anno in misura prestabilita e tale da rendere residuale l’ipotesi di un loro superamento da parte del tasso variabile dell’Euribor a tre mesi posto a carico della Banca, con un preordinato squilibrio del contratto a detrimento della prima e a tutto vantaggio della seconda”, e rilevata l’esistenza di costi impliciti, ha affermato come “la non rispondenza delle condizioni economiche contrattuali alla funzione di copertura del rischio negli stessi enunciata ne comporta la nullità per difetto di causa (art. 1418, comma secondo, c.c.), da intendersi quale sintesi degli interessi concretamente perseguiti dalla negoziazione”.
Un ultimo caso che possiamo citare attiene ad una recentissima sentenza del Tribunale di Milano[19], riguardante alcuni contratti di swap. Ebbene, seppure in tal caso si trattava di Collar Swap, conclusi tra un ente provinciale ed una banca (su cui non intendiamo, per evidenti ragioni, entrare nel merito), ai nostri fini risulta particolarmente rilevante la loro dichiarazione di nullità, anche qui a causa della presenza di costi impliciti non palesati nei contratti. Il Tribunale, infatti, seppur non metta in discussione la possibilità di prevedere dei costi a carico di una delle parti per la conclusione del contratto, afferma, dichiarando la nullità dei contratti conclusi, che “presupposto a monte, peraltro, rimane la necessità che anche su tale elemento essenziale del contratto si sia formata la volontà negoziale e ciò, ovviamente, sarà necessario a prescindere dalla tipologia di cliente che sottoscriva il contratto (cliente professionale di diritto, su sua richiesta, piuttosto che cliente non professionale). Quanto sopra già detto in ordine all’incidenza di tali costi sul meccanismo di operatività del derivato e conseguentemente sulla misura di alea assunta da ciascuna delle parti, porta certamente a qualificare tale elemento contrattuale come essenziale, con l’effetto che, in difetto di consenso negoziale sul punto, l’intero contratto deve essere dichiarato nullo ex art. 1418 c.c.”.
Pertanto, richiamata una parte della giurisprudenza concreta degli ultimi anni, possiamo affermare, in prima conclusione su questo punto di analisi, che la presenza di cd. costi impliciti, cioè di uno squilibrio iniziale tra le parti non compensato da un adeguato up front e non palesato nel contratto attesa l’affermazione dell’assenza di commissioni, determini senza ombra di dubbio, per tutte le ragioni esposte, un illegittimo squilibrio nel contratto di interest rate swap concluso. Tale squilibrio, come abbiamo visto, in alcuni casi viene risolto attraverso la ripetizione ed il riequilibrio ex post del contratto, ma in molte pronunce sull’argomento arriva a determinare la nullità del contratto concluso.
In realtà, potremmo tendenzialmente pensare che la nullità si determini laddove lo squilibrio sia tale da incidere l’alea contrattuale, mentre nei casi meno penetranti, in cui lo squilibrio risulta più contenuto, si potrebbero utilizzare i meccanismi di riequilibrio ex post. Tuttavia, non ci sembra di condividere questa impostazione, in quanto i costi impliciti, come già detto, determinano la nullità del contratto di interest rate swap alla luce della considerazione della sua causa concreta, dell’individuazione della sua natura come scommessa legalizzata e, più in generale, in collegamento con la necessaria tutela dell’interesse del cliente ex art. 21 T.U.F. e, pertanto, della necessità di non occultare il compenso contrattuale, indipendentemente dalla loro incidenza determinante o meno (e quale sarebbe la soglia di “tolleranza”?) nella struttura complessiva del contratto.
Peraltro, in contrasto alla ricostruzione giurisprudenziale richiamata, di nullità della causa, non ci sembra decisivo il ragionamento circa la natura gratuita o onerosa dell’attività di intermediazione finanziaria. Ciò in quanto, sia in un senso che nell’altro, comunque ci troveremmo di fronte a costi impliciti, cioè occulti, non palesati ab origine, e pertanto indubbiamente illegittimi. In tal senso, l’articolo 32 del Regolamento Consob n. 16190/2007 nel prevedere gli obblighi informativi a carico degli intermediari stabilisce al punto a) l’obbligo di informare anche circa “il corrispettivo totale che il cliente deve pagare in relazione allo strumento finanziario o al servizio di investimento o accessorio, comprese tutte le competenze, le commissioni, gli oneri e le spese connesse, e tutte le imposte che verranno pagate tramite l’intermediario o, se non può essere indicato un corrispettivo esatto, la base per il calcolo dello stesso cosicché il cliente possa verificarlo”, ed al punto c) “l’indicazione della possibilità che emergano altri costi per il cliente, comprese eventuali imposte, in relazione alle operazioni connesse allo strumento finanziario o al servizio di investimento, che non sono pagati tramite l’intermediario o imposti da esso”, per poi, infine, chiarire che “ai fini della lettera a), le commissioni applicate dall’intermediario vengono in ogni caso indicate separatamente”.
Ed, ancora, non ci sembra per nulla decisivo l’argomento, talvolta sostenuto in dottrina e talvolta anche echeggiato in giurisprudenza, per cui la legittimità dei costi impliciti deriverebbe dalla loro presenza nella prassi, come remunerazione “naturale”, sebbene occulta, dell’attività di intermediazione. Tale prassi non sarebbe altro che un uso, applicato in aperta violazione dell’articolo 23, comma 2, T.U.F., il quale prevede che “E’ nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi nulla è dovuto”.[20]
4. La mancata indicazione del mark to market.
Il secondo profilo di analisi che intendiamo analizzare poggia quasi interamente su una pronuncia della Corte di Appello di Milano del 18/09/2013, n. 3459, a cui già abbiamo fatto cenno, e che di fatto ha creato un precedente interpretativo di notevole importanza, oggetto di analisi in dottrina e, come vedremo, ripreso anche nella recente giurisprudenza.
Si tratta di una sentenza originata dall’appello proposto dalla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza S.p.A. avverso la pronuncia del Tribunale di Pavia, con la quale la ricorrente era stata condannata al risarcimento dei danni, oltre interessi, per responsabilità precontrattuale ed in relazione ai contratti di interest rate swap conclusi tra le parti. La parte appellata, costituitasi, aveva svolto domanda riconvenzionale chiedendo la dichiarazione di nullità di tali contratti, ferme restando le statuizioni contenute nella gravata sentenza.
Nella sostanza, si trattava di una causa generata dalla sottoscrizione da parte di una società in nome collettivo, da lungo tempo correntista della Banca, di due contratti di interest rate swap, con finalità di copertura in relazione ai tassi di un finanziamento stipulato fra le stesse parti. In realtà, il secondo contratto risultava essere stato stipulato successivamente, probabilmente nel tentativo di “ristrutturare” l’indebitamento potenziale originato dall’andamento negativo per il cliente del primo contratto.
In tale sentenza della Corte d’Appello di Milano, al di là dei riferimenti alla dichiarazione di professionalità ex art 31 Reg. Consob n. 11522/1998 (oggi, come visto, abrogato) ed ai già visti richiami all’interesse del cliente nella conclusione dei contratti, ciò che risulta particolarmente importante, e prodromico alle conclusioni cui si giungerà, è la ricostruzione della natura giuridica dell’interest rate swap.
La Corte, infatti, sulla base anche della formulazione dell’art 23, comma 5, TUF, e del suo richiamo ad escludendum dall’applicazione ai contratti derivati dalla disciplina di cui all’art. 1933 c.c., ritiene che tali contratti possano essere inseriti nella categoria della scommessa legalmente autorizzata, la cui causa, ritenuta meritevole dal legislatore dell’intermediazione finanziaria, risiede nella consapevole e razionale creazione di alee che, nei derivati cd. simmetrici, sono reciproche e bilaterali.
Sulla base di questa ricostruzione, che come accenneremo è oggetto di ampia discussione anche e soprattutto in dottrina, la Corte arriva ad affermare l’essenzialità di alcuni elementi del contratto, come per l’appunto il mark to market e l’eventuale presenza dei costi impliciti, al fine di realizzare quella che viene definita un’alea razionale.
In particolare, si osserva che “nel derivato OTC l’oggetto è uno scambio di differenziali a determinate scadenze. Ma la sua causa risiede in una scommessa che ambo le parti assumono. E nella scommessa legalmente autorizzata, come quella ritenuta meritevole di tutela da parte del legislatore finanziario, l’alea non può che essere (deve essere!) razionale per entrambi gli scommettitori: e ciò a prescindere dall’intento che ha determinato la conclusione del contratto. Sia esso di mera copertura, ovvero speculativo. […] gli scenari probabilistici e le conseguenze del verificarsi degli eventi devono, invero, essere conosciuti ex ante, con certezza. E così pure devono essere esplicitati nel contratto il valore del derivato, gli eventuali costi impliciti, i criteri con cui determinare la penalità in caso di recesso. Elementi, tutti, che incidono sull’alea che assume la parte contrattuale. Solo così siamo in presenza di un’alea razionale”. Ed ancora: “in altri termini, tutti gli elementi dell’alea e gli scenari che da essa derivano costituiscono ed integrano la causa stessa del contratto, perché appartengono alla “causa tipica” del negozio […]. In difetto di tali elementi il contratto deve ritenersi nullo per difetto di causa, poiché il riconoscimento legislativo risiede, ad avviso di questa Corte, nella razionalità dell’alea e, quindi, nella sua misurabilità”, marcando peraltro una differenza tra tale situazione di nullità per mancata determinazione di elementi essenziali, strettamente collegati all’alea contrattuale, ed il mancato rispetto degli obblighi informativi, ex art. 21 T.U.F., che determinerebbe “solo” un inadempimento regolato dai principi che governano le conseguenze della violazione delle norme di condotta dettate dal T.U.F., con effetti risarcitori, come insegnato dalla Cassazione a Sezioni Unite[21]. A quest’ultimo riguardo, peraltro, abbiamo già detto che se tale differenza ci sembra condivisibile, tuttavia ogni qual volta si faccia questione di strumenti finanziari derivati, ed in particolare in relazione ai costi impliciti ed anche al mark to market, l’articolo 21 T.U.F. echeggia necessariamente sullo sfondo, risultando particolarmente rilevante nella visione complessiva del contratto e del rapporto tra le parti.
Con riguardo, poi, al profilo di analisi che qui ci interessa specificamente, appaiono fondamentali le parole utilizzate dalla Corte, che molta eco stanno avendo e continueranno ad avere: “La sola circostanza – non specificamente contestata – che le parti, odierne appellate, non conoscessero, al momento della conclusione del contratto, il cd. mark to market e la circostanza – documentalmente provata – che il mark to market non rientrasse nel contenuto dei contratti stipulati […] comporta la radicale nullità dei contratti di interest rate swap, perché esclude, in radice, che, nel caso di specie, gli appellati abbiano potuto concludere la “scommessa” conoscendo il grado di rischio assunto, laddove, per contro, la Banca, del proprio rischio, nutriva perfetta conoscenza – addirittura nella sua precisa misurazione scientifica – avendo predisposto lo strumento. […] Va, poi, osservato che è vietato ad un contraente determinare unilateralmente, ed in base a criteri non trasparenti e controllabili, elementi del contenuto del contratto. Ed in tal senso è la giurisprudenza della Corte Suprema (da ultimo, Cass. n. 2072 del 2013). […] In mancanza di esplicazione del modello matematico di pricing e del mark to market, deve considerarsi, altresì, arbitraria, come lamentato dalle odierne parti appellate, la stessa liquidazione degli importi asseritamente dovuti a titolo di corrispettivo del recesso, proprio perché siffatta liquidazione appare frutto di una quantificazione unilaterale da parte della Banca, del tutto slegata da criteri predeterminati nei contratti […]. L’assenza di mark to market e di scenari probabilistici rende, infine, del tutto priva di giustificazione causale la stessa clausola che contempla l’eventuale erogazione del cd. up front: perché anche la misura in cui il finanziamento contribuisce ad integrare il riequilibrio del valore iniziale del derivato incide sulla causa del derivato”. Peraltro, ed in aggiunta a ciò, si può osservare come tale ragionamento sull’alea razionale e sui conseguenti elementi essenziali del contratto, viene chiaramente indicato dalla Corte come indifferente allo scopo del contratto stesso, sia esso di copertura o meramente speculativo, in collegamento ad una visione dell’intermediario come titolare di un ufficio di diritto privato, e pertanto tenuto alla migliore tutela dell’interesse dell’investitore.
Non a caso tale pronuncia risulta essere stata accolta col necessario clamore dalla dottrina, arrivando ad affermare l’ “esplosività degli argomenti addotti dalla Corte meneghina, che, se saranno correttamente metabolizzati da dottrina e giurisprudenza, rischiano di spostare drasticamente l’ago della bilancia nel contenzioso in materia fra clienti ed intermediari bancari”[22], ed, anche in relazione ad altre pronunce che vedremo appresso, come tale nuovo orientamento giurisprudenziale rappresenti un vera “rivoluzione copernicana sul ruolo e sulla portata del MtM nei contratti derivati e, in ultima analisi, sulla validità o meno dell’intero negozio giuridico ai sensi del principio generale dell’art. 1346 del codice civile”[23].
Chiariti i punti essenziali di questa pronuncia, indubbiamente importantissima, possiamo confermare tale indirizzo giurisprudenziale citando un altro caso, recentemente oggetto di sentenza da parte del Tribunale di Milano[24], sempre con riguardo all’assenza del mark to market in contratti di interest rate swap.
Anche in quest’ultima vicenda, infatti, attinente alla conclusione di più contratti di interest rate swap con finalità di copertura, il Tribunale, partendo dalla considerazione dei derivati come “scommesse legalmente autorizzate”, ha a chiare lettere sancito l’essenzialità dell’indicazione del mark to market al momento della conclusione dei contratti, in quanto elemento essenziale degli stessi, osservando che “perché possa sostenersi che esso (il mark to market, ndr) sia quanto meno determinabile è comunque necessario che sia esplicitata la formula matematica alla quale le parti intendono fare affidamento per procedere all’attualizzazione dei flussi finanziari futuri attendibili in forza dello scenario esistente. Ciò si rende necessario in quanto detta operazione può essere condotta facendo ricorso a formule matematiche differenti […]”.
Inoltre, nella prospettiva che a noi più interessa, si arriva a qualificare, come già accennato e sulla scia della sentenza della Corte di Appello di Milano, il mark to market come vero e proprio oggetto del contratto, affermando che “ciò appare indirettamente confermato dallo stesso legislatore, là dove all’art. 2427 bis c.c. ha previsto che le società debbano nella nota integrativa di bilancio indicare il fair value del contratto derivato, cioè il valore in sé del contratto (ossia l’MtM); tale previsione normativa, infatti, conferma come il Mark to Market, lungi dal configurarsi solo come elemento eventuale del contratto, sia piuttosto una componente necessaria del suo oggetto, tanto da dover essere esplicitata in sede di bilancio”.
In conclusione, osserva il Tribunale che “se così è, dovendo l’oggetto del contratto e, quindi, tutte le sue componenti, essere determinate o quanto meno determinabili, pena la nullità del contratto stesso, sarà necessario che nel regolamento contrattuale venga indicato il metodo di calcolo di tale valore; in difetto, risolvendosi la quantificazione dell’MtM in una determinazione di una delle parti (la banca), non verificabile dall’altra, deve concludersi come esso non risulti determinabile, implicando la nullità dell’intero contratto ex art. 1418 c.c.”, dichiarando pertanto la nullità di tutti i contratti conclusi tra le parti.
Lo stesso Tribunale di Milano, peraltro, ha avuto modo di riaffermare tale indirizzo in una recentissima pronuncia[25], nella quale si è censurata ancora una volta la mancata determinazione del mark to market, riprendendo pedissequamente quanto già riportato nelle precedenti pronunce e osservando che “se per la determinazione del mark to market si pretendesse di fare richiamo a non meglio precisate “condizioni praticate da controparti di mercato su operazioni sostitutive di quelle oggetto del Contratto risolto e aventi uguali caratteristiche” (clausola n. 11 del contratto contestato, ndr), senza invece indicare il criterio di calcolo da adottarsi per procedere all’attualizzazione del valore prognostico, non si rende in alcun modo il dato contrattuale effettivamente determinabile, sostanzialmente rimanendo lo stesso unilateralmente quantificabile in termini differenti a seconda della formula matematica di calcolo di volta in volta prescelta dal soggetto interessato”, e dichiarando di conseguenza, per le medesime ragioni già viste, la nullità del contratto concluso tra le parti.
In aggiunta a tali sentenze, se ne può citare brevemente un’altra, del Tribunale di Torino[26], già oggetto di analisi nel presente lavoro con riguardo ai costi impliciti.
Senza richiamarne i contorni essenziali, trattati precedentemente, si può semplicemente osservare quanto affermato sempre in materia di mark to market e sua esplicazione nel contratto.
Il Tribunale, infatti, ovviamente aderendo alla ricostruzione giuridica proposta dalla già analizzata sentenza della Corte di Appello di Milano, osserva che “la circostanza che, al momento della conclusione del contratto, l’investitore non conosca il cd. mark to market e che questo elemento non rientri nel contenuto dell’accordo, comporta la radicale nullità dei contratti di interest rate swap, perché esclude che l’investitore abbia potuto concludere la scommessa conoscendo il grado di rischio assunto, laddove, per contro, l’intermediario aveva perfetta conoscenza del proprio rischio avendolo misurato scientificamente e su di esso predisposto lo strumento finanziario”.
Ecco che, richiamate tali recenti sentenze, e principalmente quella della Corte di Appello di Milano, che in qualche misura potrebbe essere definita “storica”, possiamo tracciare una prima conclusione.
Posto che, come osservato precedentemente, il mark to market è definibile come il valore di mercato del contratto, stimato attualizzando i flussi di cassa attesi, risulta dalla ricostruzione proposta come tale valore, frutto di una valutazione probabilistica dell’andamento dei flussi (cioè di quello a tasso variabile, nell’interest rate swap di tipo plain vanilla), sia un elemento essenziale del contratto, che deve risultare necessariamente dallo stesso al fine di rendere l’alea razionale tra le parti. In particolare, e come chiarito nelle sentenze citate, dovrà essere indicata specificamente la sua modalità di calcolo, comprese le formule matematiche utilizzate per la sua determinazione. Laddove, invece, il mark to market dovesse mancare, secondo sempre la ricostruzioni realizzata da tale indirizzo giurisprudenziale, il contratto sarebbe viziato, in quanto le parti non lo avrebbero stipulato con la necessaria consapevolezza circa tutti i suoi elementi, e quindi il derivato, qualificabile come una scommessa legalizzata, sarebbe nullo.
5. Conclusioni.
Nel presente approfondimento, dopo aver accennato agli strumenti finanziari derivati e alle loro diverse tipologie, abbiamo diretto il nostro sguardo a singole ipotesi di illegittimità degli interest rate swap, avvertendo che i ragionamenti proposti risultano valevoli anche per gli altri tipi di swap, ed in qualche caso persino per la generalità degli strumenti finanziari derivati. In particolare, abbiamo analizzato i costi impliciti e l’assenza del mark to market, anticipandone già in parte le conclusioni che ci apprestiamo ad enunciare.
Sotto il primo profilo, possiamo affermare come ci sembri fuor di dubbio che la presenza di costi impliciti a carico di una delle parti, determinati dall’assenza di un contratto ab origine pari ovvero da un adeguato up front, ed occulti in quanto non palesati nelle commissioni dell’intermediario, determini uno stato viziante che, come visto, e sulla base di una visione della causa contrattuale concreta e non astratta, potrebbe determinare anche la nullità del contratto medesimo. Potrebbe, in quanto, non essendo una sanzione legislativamente definita, la giurisprudenza in qualche caso, magari aderendo ad una visione differente della causa degli interest rate swap, procede al riequilibrio della situazione sottostante mediante il ricalcolo del contratto in assenza dei costi impliciti, prevedendo la ripetizione delle somme in eccesso versate.
Tuttavia, come già abbiamo avuto modo di sottolineare, ci sembra maggiormente dominante, e sicuramente recente, la visione della causa in concreto e del vizio di nullità, con conseguente ripetizione di tutte le somme versate in esecuzione del contratto.
Peraltro, ciò su cui, e lo ripetiamo, non ci sembra di poter dubitare è che se non sia possibile occultare costi dell’attività di intermediazione. In tal senso, risulta importante anche la ricostruzione, talora rimarcata dalla giurisprudenza e dottrina, dell’attività di intermediario in chiave di titolare di un ufficio di diritto privato[27], tenuto come un mandatario a curare nella sostanza l’interesse dell’investitore. Ma, in realtà, la censurabilità dei costi impliciti, con le molteplici conseguenze segnalate, riteniamo prescinda sia dalla ricostruzione della natura dell’attività di intermediazione, sia dalla sua configurazione in termini gratuiti od onerosi, in quanto, come già affermato, tale censurabilità risulta sostanzialmente ancorata alla necessaria tutela dell’interesse dell’investitore (ex art. 21 T.U.F.), agli obblighi informativi ex art. 32 del Regolamento Consob n. 16190/2007, e alla complessiva visione dello strumento finanziario derivato.
Sotto il secondo profilo, di mancata indicazione del mark to market, la sentenza della Corte di Appello di Milano rappresenta un vero e proprio leading case in materia, sia per la ricostruzione dello strumento derivato, sia per le conseguenze giuridiche dell’assenza di tale elemento nel contratto stipulato fra le parti.
Come abbiamo visto, peraltro, l’indirizzo giurisprudenziale sancito da questa sentenza risulta non isolato, ma ripreso in molte altre pronunce citate, in particolare del Tribunale di Milano e Torino.
In realtà, la ricostruzione proposta, e spesso richiamata anche dalle sentenze di nullità sulla base dei cd. costi impliciti, dei contratti derivati come “scommesse legalmente autorizzate”, è oggetto di dibattito e contrasto in dottrina, tanto da arrivare ad affermare come essa rappresenti “un salto indietro di trent’anni”[28].
Nel presente studio, tuttavia, non si è inteso approfondire tale ambito, quanto segnalare l’esistenza di questo indirizzo giurisprudenziale, richiamando in questa sede le parole della Corte di Appello di Milano, di cui si condivide la sostanza giuridica: “anche laddove volesse ritenersi che l’operazione in derivati non coincida perfettamente con il paradigma funzionale della scommessa, non appare revocabile in dubbio che l’oggetto del contratto swap si sostanzia, in ogni caso, nella creazione di alee reciproche e bilaterali: sicché è inconcepibile che la qualità e la quantità delle alee, oggetto del contratto, siano ignote ad uno dei contraenti ed estranee all’oggetto dell’accordo”.
Risulta pertanto evidente, al netto delle varie ricostruzioni proposte, come da un lato sia censurabile indubbiamente sia la presenza di costi impliciti a carico di una delle parti sia l’assenza nel contratto del cd. mark to market, e come, dall’altro lato, tali profili, sulla base della giurisprudenza citata, possano arrivare a determinare la nullità dell’intero contratto, a causa di un vizio che ne mina, potremmo dire, alla radice la sua stessa essenza giuridica.
Tutto ciò è, soprattutto, frutto della giurisprudenza più recente, e risulta particolarmente importante alla luce delle dimensioni del fenomeno e del corrispondente contenzioso immenso in materia. Una materia in perenne evoluzione, di cui abbiamo accennato solo alcuni tratti, e che è ancora molto lontana da una definizione giurisprudenziale, oltre che normativa, completa ed esauriente.
NOTE
[1] Per alcune distinzioni di base relativamente agli strumenti finanziari derivati, si possono consultare http://www.consob.it/web/investor-education/i-derivati o http://www.consob.it/main/trasversale/risparmiatori/investor/prodotti_derivati/principalicategorie_prodottiderivati.html. Nel caso si voglia approfondire la “questione definitoria” degli strumenti finanziari derivati, si veda: E. BARCELLONA, strumenti finanziari derivati: significato normativo di una definizione, in Banca borsa tit. cred., fasc. 5, 2012, pag. 541 e ss.
[2] Per un approfondimento di base circa le tipologie e le differenze fra i prodotti derivati, cui si è attinto per la breve esposizione tipologica realizzata, si veda il documento Consob I principali prodotti derivati, elementi informativi di base, Ottobre 2012, consultabile all’indirizzo www.consob.it/main/trasversale/risparmiatori/investor/prodotti_derivati/prodott.pdf
[3] Per la loro consultazione si veda, rispettivamente: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014L0065&from=IT e http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014R0600&from=IT;
[4] Consultabile all’indirizzo: www.consob.it/main/regolamentazione/tuf/tuf.html?queryid=main.regolamentazione.tuf&resultmethod=tuf&search=1&symblink=/main/regolamentazione/tuf/index.html
[5] Consultabile integralmente all’indirizzo: http://www.consob.it/main/documenti/Regolamentazione/normativa/reg16190.htm?symblink=/main/intermediari/imprese_investimento/reg16190.html;
[6] Ci riferiamo alla rilevazione OTC derivatives market Semiannual Survey, BRI, www.bis.org/statistics/derstats.htm, riportata nell’Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati, Testimonianza del Vice Direttore della Banca d’Italia Luigi Federico Signorini, in audizione presso la Commissione VI Finanze della Camera dei deputati in data 15 giugno 2015, consultabile all’indirizzo: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-direttorio/int-dir-2015/Signorini-150615.pdf. Tale indagine, pertanto, risulta molto importante anche in una dinamica complessiva di comprensione del fenomeno.
[7] Dati riportati, ancora, nell’Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati, Testimonianza del Vice Direttore della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini, in audizione presso la Commissione VI Finanze della Camera dei deputati in data 15 giugno 2015
[8] Per un approfondimento circa l’utilizzo di tali strumenti da parte della pubblica amministrazione si possono consultare i resoconti stenografici attinenti all’ Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni delle pubbliche amministrazioni, audizione del direttore della Consob, dottor. Antonio Rosati, presso la 6° Commissione Permanente (Finanze e Tesoro) del Senato della Repubblica, anno 2009, e all’ Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati, 2015, op. cit.
[9] Consultabile interamente (compreso il nuovo comma 1-bis) all’indirizzo: http://www.consob.it/main/documenti/Regolamentazione/normativa_ln/dlgs58_1998.htm#Art._21;
[10] Tribunale di Milano, sentenza del 23 Marzo 2012, n. 3513, consultabile all’indirizzo:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7098.pdf;
[11] Tribunale di Milano, sentenza del 19 aprile 2011, n. 5443, consultabile all’indirizzo:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/3965.pdf;
[12] Tribunale di Lecce, ordinanza del 09 Maggio 2011, consultabile all’indirizzo: http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/5292.pdf;
[13] Consultabili all’indirizzo: https://www.iusexplorer.it/giurisprudenza/Ricerca;
[14] Così il dottor. Antonio Rosati, in audizione presso la 6° Commissione Permanente (Finanze e Tesoro) del Senato della Repubblica, anno 2009, Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni delle pubbliche amministrazioni, op. cit.
[15] Tribunale di Pescara, sentenza del 03/10/2012, n. 1241, consultabile all’indirizzo:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7967.pdf;
[16] Tribunale di Torino, sentenza del 17/01/2014, consultabile all’indirizzo:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/9949.pdf;
[17] Tribunale di Orvieto, ordinanza del 12/04/2012, consultabile all’indirizzo:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7314.pdf;
[18] Tribunale di Monza, sentenza del 17/07/2012, n. 2028, consultabile all’indirizzo:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/7771.pdf;
[19] Tribunale di Milano, sentenza del 13/05/2016, n. 6001, consultabile all’indirizzo: http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/15065.pdf;
[20] Per un approfondimento, si veda anche: D. MAFFEIS, Costi impliciti nell’interest rate swap, in Giur. Comm., fasc. 3, 2013, pag. 648 e ss.
[21] Ci riferiamo alle sentenze Cass. Sez. Un., 19 Dicembre 2007, n. 26724 e 26725, oggetto di analisi nella sentenza in commento della Corte di Appello di Milano, consultabili, rispettivamente, agli indirizzi: http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/1151.pdf e http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/3383.php;
[22] Così S. GALIMBERTI, Il gioco dei d(eriv)ati fra intermediari e clienti: note su alcuni punti innovativi della sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 3459 del 18 settembre 2013, in Magistra, Banca e Finanza – www.magistra.it – ISSN: 2039-7410, 2013. Si tratta di un approfondito commento alla sentenza in oggetto, utile per comprenderne appieno portata ed effetti.
[23] Così S. GALIMBERTI, C’era una volta il Mark To Market, la formula che non c’è e l’oggetto nullo, in Magistra, Banca e Finanza – www.magistra.it – ISSN: 2039-7410. Ciò viene affermato, in particolare, con riferimento alla sentenza del Tribunale di Milano n. 7398/2015, oggetto di analisi di seguito, ma ovviamente anche nella visione complessiva anche della sentenza della Corte di Appello di Milano n. 3459/2013.
[24] Tribunale di Milano, sentenza del 16/06/2015, n. 7398, consultabile all’indirizzo:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12916.pdf;
[25] Tribunale di Milano, sentenza del 09/03/2016, n. 3070, consultabile all’indirizzo: http://www.dirittobancario.it/sites/default/files/allegati/tribunale_di_milano_9_marzo_2016_n._3070.pdf;
[26] Tribunale di Torino, sentenza del 17/01/2014, consultabile all’indirizzo:
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/9949.pdf;
[27] Si tratta della ricostruzione presente in moltissime pronunce citate, a cominciare dalla fondamentale sentenza della Corte di Apello di Milano, n. 3459/2013.
[28] F. C. NASSETTI, Un salto indietro di trent’anni: “swap uguale scommessa”!, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 2, 2014. pag. 287 e ss. L’autore critica fortemente la sentenza in commento, ritenendo che la Corte abbia erroneamente equiparato fattispecie differenti relative ai due contratti conclusi tra le parti (che sarebbero, in realtà, il primo un interest rate swap ed il secondo un interest rate option), finendo per fare “di tutta un’erba un fascio”, ed osservando come da un lato in alcun modo i contratti derivati possano essere qualificati come “scommesse legalizzate”, e, dall’altro, “la ricerca di una definizione univoca che descriva la fattispecie dello strumento finanziario derivato è destinata all’insuccesso, in quanto non esiste “una” fattispecie giuridica a cui fare confluire tutti i diversi contratti derivati”.