Dimentica Platone?
(di Nicola Sguera)
Alfred North Whitehead ha affermato che «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone». La venerazione che circonda il più celebre degli allievi di Socrate impedisce, ha impedito (con rarissime eccezioni) di criticarne il pensiero. Prendere la filosofia sul serio significa anche avere l’ardire di mettere in discussione il pensiero dei giganti proprio individuandone le responsabilità in relazione alla storia nella sua interezza, non solo quella della cultura.
Hannah Arendt, la più grande pensatrice politica del Novecento, la cui opera ancora attende di dispiegare pienamente i suoi effetti liberatori, ha dedicato molte celebri pagine Platone. La responsabilità maggiore dell’ateniese è quella di aver pensato sempre a partire dall’Uno (quindi in termini metafisici), dimenticando che la vita umana si fonda sulla pluralità, sui Molti. Anche in campo politico Platone ha applicato il suo schema “ideale”, pensando la sfera delle relazioni nella polis sul modello di quello del pastore e del gregge. Pastore è colui che detiene “la verità” ed è legittimato a guidare coloro che non la possiedono. Alla base di questa scelta ci sarebbe un evento traumatico. La filosofia politica, scrive la Arendt, «è provocata da un evento, un evento politico: il processo contro Socrate, nato da un conflitto tra la polis e la filosofia […]. La nostra tradizione di pensiero politico ebbe inizio quando la morte di Socrate diede motivo a Platone di perdere la fiducia nella polis, e al contempo di dubitare di alcuni fondamenti della dottrina di Socrate. Il fatto che Socrate non fosse stato capace di convincere i suoi giudici della sua innocenza e dei suoi meriti, che per la parte più giovane e migliore dei cittadini di Atene erano stati così evidenti, alimentò i dubbi di Platone sulla validità della persuasiva. Dover assistere allo spettacolo di Socrate costretto a esporre la sua doxa alle irresponsabili opinioni degli ateniesi, e vederlo sconfitto da una maggioranza di voti, indusse Platone a disprezzare le opinioni e a esigere criteri assoluti con i quali giudicare gli atti umani e conferire alle azioni umane un certo grado di affidabilità». Questo, dunque, spiega l’originaria inimicizia fra filosofia e politica, una delle grandi catastrofi dell’Occidente, secondo la pensatrice ebreo-tedesca.
A mio avviso, il pensiero platonico segretamente ha nutrito tutte le concezioni politiche sviluppatesi nel corso dei secoli, tutte fondate da una parte sulla “reductio ad Unum” della pluralità che gli uomini ontologicamente sono, dall’altra sulla delega del potere al detentore del sapere ritenuto di volta in volta veritativo (dai filosofi ai conoscitori delle leggi storiche ai “tecnici”). Insomma, il platonismo tuttora è la filosofia politica dominante perché si accetta pacificamente che il politico debba essere uno specialista, delegato dagli altri affinché deliberi e conduca la polis, lo Stato.
Tra il XX e il XXI secolo è maturata una svolta che potrebbe, dopo più di duemila anni, consentire il superamento del paradigma “platonico” della politica e il recupero della “pluralità” umana. La lettura, ad esempio, di Reti di indignazione e di speranza di Manuel Castells consente di capire come la terza rivoluzione industriale e la nascita della “Rete” possa modificare radicalmente la teoria e la pratica politica, e come in realtà la cosa stia già accadendo. Stefano Rodotà in Iperdemocrazia scrive: «È indubbio che siamo di fronte a una vera crisi delle forme tradizionali della democrazia rappresentativa che può tradursi (o già si traduce) nel rifiuto delle istituzioni da parte di molti cittadini. Poiché una possibile via d’uscita viene indicata in una integrazione tra forme della democrazia rappresentativa e forme della democrazia diretta, diventa giusto chiedersi se la tecnologia dell’informazione – rendendo tecnicamente possibile una associazione più immediata dei cittadini alle fasi della proposta, della decisione e del controllo – possa aiutarci a inventare la democrazia del XXI secolo».
Dunque, innanzi a noi, ma in saldo legame con alcune esperienze del passato, si apre la strada di un superamento del platonismo politico. La polis, che valorizzava la pluralità degli uomini e dei loro punti di vista, ma anche le assemblee che prepararono la rivoluzione americana, i club del 1789 o i soviet del 1905 e del 1917, si ripresentano a noi con le loro potenzialità ancora inesperite. Sta finendo il tempo della delega, che già Rousseau irrideva come forma solo apparente di libertà “per un giorno”. Può iniziare il tempo in cui, come auspicava la Arendt, l’attività politica, fondata sull’azione e sul discorso, non venga ridotta al rango di “necessità” da delegare, per dedicarsi a presunte attività superiori (che siano esse il lavoro o la contemplazione poco conto) ma torni ad essere l’attività “umanizzante” per eccellenza, che ha il suo fine in sé, nell’essere manifestazione di aspetti dell’umano che altrimenti resterebbero inespressi (esattamente come l’arte) e non “strumento” atto a risolvere problemi. Solo l’azione “politica” può rendere pienamente umana la vita nel suo splendore tutto mondano.