Economia

Il mercato degli artisti emergenti (Alternative Market) – Prima parte

(di Marco Guenzi)

Introduzione

Si è visto nel passato articolo che per gli artisti emarginati, ovvero coloro che non hanno rappresentanza da parte di una galleria, le opportunità di farsi strada nel mondo dell’arte sono minime, se non nulle. In questo e nel prossimo scritto si passerà in rassegna invece il mercato degli artisti emergenti, cioè di coloro che, una volta entrati nelle grazie di un gallerista, da una condizione di apolidi vengono ad acquistare a pieno titolo l’appartenenza al sistema dell’arte. In particolare si andrà ad analizzare: quali sono gli attori principali di questo segmento; in base a quali fattori un artista acquista appetibilità per essere selezionato da una galleria; quali sono le problematiche che caratterizzano i rapporti tra artisti e galleristi ai primi stadi delle loro carriere; le politiche commerciali che vengono messe a punto da questi ultimi; quali sono le determinanti che influenzano la domanda e l’offerta di opere in questo comparto; come viene raggiunto l’equilibrio di mercato; come nel settore viene distribuito il surplus e quali sono le politiche economiche attuabili per indirizzare questo comparto verso una maggiore efficienza, equità e meritocrazia.

Analisi degli attori

Il settore degli artisti emergenti risulta essere più articolato e complesso nella sua struttura e nei suoi meccanismi di funzionamento rispetto al Junk Market. In questo segmento infatti si riscontra la presenza di numerose figure accessorie che vengono ad affiancare gli artisti da una parte (ovvero l’offerta) e i collezionisti dall’altra (ovvero la domanda): in particolare quelle delle gallerie, che svolgono nel settore un ruolo di prime donne, in quanto rappresentano i gate-keeper del mercato, poiché sono in grado di aprire agli aspiranti artisti le porte di accesso al sistema dell’arte vero e proprio.

La funzione di scoperta di nuovi talenti, appena usciti dalle accademie o ingiustamente ignorati per lungo tempo dagli attori del sistema, è svolta in gran parte da piccole gallerie, denominate gallerie di scoperta o commerciali, caratterizzate da mezzi economici limitati e da scarse entrature all’interno del mondo dell’arte. Talvolta questa funzione è svolta anche dalle più potenti gallerie tradizionali e di brand, ma ciò costituisce un’eccezione a favore di pochi e fortunati artisti.

La professione di gallerista agli inizi richiede un certo investimento, sia in termini di capitali, sia in termini relazionali, per cui l’appartenenza ad una certa classe sociale facilita di molto il compito dei galleristi di scoperta[1].

Tra le gallerie commerciali è possibile operare una classificazione arbitraria ma indicativa delle motivazioni che spingono i galleristi a svolgere questa professione[2]. Da una parte si trovano coloro, in precedenza denominati “appassionati”, che sono prevalentemente mossi da un forte interesse per l’arte e dall’idea di svolgere la funzione di dare spazio agli artisti, categoria con la quale si sentono molto affini. Questi galleristi sono in genere dotati di un gusto raffinato e di un certo network di conoscenze, avendo spesso un passato di artisti, critici, curatori, storici dell’arte, che, o per insufficiente vocazione o per disillusione (dopo le difficoltà incontrate per emergere), ad un certo punto hanno deciso di intraprendere un ruolo attivo e centrale nel sistema, a essi più consono; tuttavia mancano spesso di attitudini per l’attività commerciale.

Vi sono poi i “galleristi speculatori”, incentrati soprattutto sul guadagno, che svolgono tale attività spinti da motivazioni prettamente economiche. Essi sono dotati di una notevole abilità commerciale, in parte innata, in parte sviluppata grazie a esperienze professionali passate in altri settori. Il problema di questi galleristi è che vendono quadri come si potrebbe vendere mele al mercato, secondo un’ottica di profitto immediato, con la conseguenza di possedere una scarsa sensibilità sia nei confronti dell’arte, sia nei confronti di chi la produce.

Per alcuni galleristi (quelli “strategici”) infine l’obiettivo principale della loro attività risiede nel successo e nel potere. Essi infatti aspirano a scalare le gerarchie del sistema ed essere annoverati nella cerchia di coloro che contano nell’arte mondiale. Tuttavia per riuscire nell’intento è necessario essere dei fuoriclasse, in grado sia di riconoscere la qualità artistica, sia di mettere in piedi una strategia commerciale, sia di intrattenere relazioni a tutti i livelli, con artisti e con persone di un ambiente sociale privilegiato e sofisticato.

Accanto alle figure centrali dei galleristi ve ne sono altre ancillari, tuttavia non marginali. Tra queste troviamo i critici e i curatori, che dovrebbero garantire grazie alla loro imparzialità di giudizio una selezione meritocratica degli aspiranti artisti. Essi tuttavia nella gran parte dei casi non sono ancora che agli inizi della loro carriera e fanno fatica a sbarcare il lunario con la loro attività. La loro indipendenza è quindi messa a dura prova dalla necessità di accettare compromessi per andare avanti.

Nel settore degli artisti emergenti i critici adempiono il ruolo di scopritori di talenti da segnalare alle gallerie e quindi la loro funzione dovrebbe assumere un rilievo particolare per il mondo dell’arte. Spesso tuttavia, essendo legati a rapporti di collaborazione continuativa con le gallerie di scoperta, il loro ruolo diventa più quello di gregari asserviti agli interessi dei galleristi piuttosto che di intellettuali al servizio della comunità. Non è raro infatti che i critici scrivano recensioni a pagamento con il proposito di elogiare e sostenere artisti al di là delle qualità e meriti effettivi di questi ultimi.

Stesso discorso vale per i curatori (figura che spesso in questo segmento tende a coincidere con quella del critico): essi organizzano eventi sia per le gallerie, sia, in maniera apparentemente indipendente, per gli spazi istituzionali. Non c’è quindi da stupirsi se essi, sulla base di questa commistione di interessi, organizzino mostre personali, a collettive, proprio degli artisti rappresentati dalle gallerie per le quali hanno prestato servizio.

Alla luce di tali fatti è possibile quindi affermare che, sebbene siano molteplici le figure che possono contribuire alla nascita della carriera di un artista, i veri gape-keeper del sistema sono propriamente i galleristi. Sarà quindi interessante chiedersi in base a che criteri essi scelgono un artista piuttosto che un altro.

Le discriminanti del processo di selezione

Prima di poter rispondere alla domanda è bene considerare il tipo di rapporto che si instaura tra gallerie e artisti. I galleristi si trovano nella posizione di dover fare un investimento ad alto rischio nella promozione degli artisti che sostengono, dovendo inizialmente anticipare le spese, per poi eventualmente raccoglierne i frutti. Ciò risulta particolarmente vero per gli artisti emergenti, che partono praticamente da zero e si devono costruire una credibilità che possa fare salire le loro quotazioni.

Naturalmente per ricompensare i notevoli sforzi iniziali profusi dalle gallerie nel sostenere i propri artisti, il rapporto di collaborazione si deve configurare come continuativo e di lunga durata.

E’ allora particolarmente importante per i galleristi a questo stadio cercare di scegliere la tipologia di artisti (e viceversa) che più si confà al proprio modo di percepire la professione[3]: per un “gallerista appassionato” possono essere più consoni gli artisti di avanguardia; per un “gallerista speculatore” quelli di mercato; per un “gallerista strategico” i sensazionalisti. Quello di trovare degli artisti con i quali creare una solida partnership (che si è visto configurarsi come una vera e propria joint-venture) è quindi sicuramente un fattore chiave per l’avanzamento di carriera di una galleria. Naturalmente ciò resta valido invertendo le parti.

Le motivazioni (che sono poi specchio dei valori personali condivisi tra galleria e artista) sono quindi forse l’elemento più profondo e importante in base al quale costruire una relazione professionale di collaborazione: queste sono infatti alla base di quella sensazione irrazionale di “simpatia” reciproca dalla quale non si può prescindere per un rapporto proficuo. Tuttavia spesso è difficile, sia per i galleristi che per gli artisti, capire chi si ha davanti. La scelta quindi avviene dopo un periodo di corteggiamento reciproco, proprio come una coppia di innamorati che si frequenta prima di mettersi insieme[4].

Al di là delle componenti caratteriali e delle sensazioni a pelle provate dalle controparti al loro primo incontro, vi sono elementi di valutazione più oggettivi, che il gallerista valuterà successivamente in maniera più razionale.

Tra essi troviamo in primis il segno dell’artista, ovvero l’utilizzo di un linguaggio innovativo che porta ad una sua certa riconoscibilità nel panorama dell’arte, rendendo più semplice una sua commercializzazione e creando le premesse per la creazione di un brand riconosciuto[5]. Questo fattore è in genere maggiormente preso in considerazione da galleristi appassionati e strategici, che, in quanto maggiormente inclini al rischio e alla prospettiva di una collaborazione di lunghissimo periodo, tendono ad investire su artisti maggiormente innovativi.

Le gallerie speculatrici invece tendono a prediligere artisti di sicura vendibilità (sebbene con minori prospettive di carriera), la cui produzione sia in linea con i trend del momento, privilegiando più che l’originalità le capacità tecniche: la tecnica di un artista infatti è di facile apprezzamento da parte del pubblico e la sua valutazione non richiede particolari conoscenze o sensibilità artistiche.

Un altro elemento molto importante (quasi una conditio sine qua non) perché un artista venga selezionato è la sua capacità di intrattenere relazioni pubbliche e il capitale relazionale che ha accumulato. Le conoscenze di un artista, oltre ad essere, come si è visto, determinanti per un rapido e proficuo sviluppo di carriera, risultano fondamentali in quanto permettono di entrare in contatto con il gallerista che poi dovrà rappresentarlo. In genere infatti i galleristi non vedono di buon occhio chi si presenta direttamente con il proprio portfolio (caso per cui spesso non si viene neanche presi in considerazione), ma è buona prassi piuttosto essere presentati personalmente da un amico, parente o conoscente (meglio se collezionista, critico o altro artista).

Una volta ottenuta l’attenzione del gallerista e stabilito un feeling, l’artista cercherà di convincerlo di essere “speciale”, ovvero di possedere le caratteristiche per cui valga la pena investire su di lui piuttosto che su altri.

E’ interessante notare che in questo stadio del processo selettivo si ha un problema di inefficienza informativa, per cui il gallerista sa poco dell’artista, e deve interpretare i segnali che quest’ultimo cerca di dargli circa le sue qualità. Egli, per avere una prima idea del lavoro dell’artista, in genere visiona un suo book: una specie di portfolio e curriculum vitae assieme, che mostra, oltre naturalmente alle opere più significative prodotte, anche gli studi effettuati (non sempre è necessaria l’accademia), le precedenti mostre, le recensioni ottenute da critici, le esperienze in residenze di artisti, le selezioni a premi e borse di studio. Le scuole frequentate risultano essere spesso più importanti per l’acquisizione di conoscenze e appoggi che per la formazione vera e propria[6]; le mostre, le recensioni, i premi e le artist in residence testimoniano una capacità dell’artista di sapersi muovere nel sistema e di conoscerne le leve.

Come si vedrà un altro elemento di valutazione delle gallerie è la produttività dell’artista. Le gallerie infatti, come meglio si vedrà, necessitano in questa fase di vendere molte opere per coprire i notevoli costi fissi che l’attività promozionale comporta. Più quindi un artista è prolifico nel suo lavoro (a volte anche a discapito dell’originalità e della qualità artistica), più esso sarà considerato positivamente dalle gallerie.

Un ulteriore fattore (ma non di minore importanza) è quello anagrafico: le gallerie ovviamente, come d’altronde le aziende, preferiscono investire nei giovani, piuttosto che in chi ha già una certa età ed esperienza (nonostante la maturità porti speso a una maggiore qualità artistica), per ovvi motivi di maggiori opportunità e possibilità di controllo della carriera che minimizzano i rischi di un investimento già molto elevato.

Infine, benché questo aspetto di natura più antropologica venga raramente preso in considerazione, va ricordato che per un artista spesso il processo di selezione e la progressione di carriera dipendono anche dall’inclinazione ad accettare compromessi. Come il mondo dello spettacolo (sebbene forse in misura meno accentuata), il mondo dell’arte è regolato da una logica di scambio di favori (do ut des) che connota tutti i rapporti interpersonali al suo interno che nulla ha che fare con l’arte stessa. Non è raro purtroppo vedere spregiudicati (e a volte sedicenti) gate-keeper, che possono configurarsi come galleristi, critici, curatori, collezionisti o altre figure del sistema, adottare comportamenti non deontologici, usando il proprio potere e il senso di frustrazione (se non la disperazione) degli artisti esclusi per ottenere dei vantaggi personali per sé o, come partita di contraccambio, per altri soggetti. Gli artisti, soprattutto quando sprovveduti, scoraggiati, alle prime armi, senza appoggi, nonché con grandi aspettative di carriera, si trovano talvolta a dover accettare richieste di prestazioni di diverso genere (che vanno da anticipi in denaro, a collaborazioni professionali a titolo gratuito, favori sessuali e di altro genere) nella speranza di vedersi finalmente aprire qualche porta.

Al di là delle vie seguite e dei meriti effettivi, gli artisti, una volta entrati nel circuito delle gallerie, si trovano davanti a un lungo percorso di convalida (endorsement) che inciderà sulla loro carriera[7]. Tuttavia tale percorso si preannuncia tortuoso per tutta una serie di problematicità che stanno alla base del rapporto tra artisti e galleristi.

Problematiche della collaborazione tra artisti e gallerie

Benché quella tra gallerista e artista si prefiguri come un’unione di lunga durata, alla stregua di un matrimonio, nella realtà dei fatti spesso non è così. La durata della collaborazione infatti dipende da diversi fattori tra cui una sintonia nei rapporti, la capacità del gallerista di vendere e l’appetibilità dell’artista sul mercato.

Se appare ovvio che una partnership deve basarsi su un buon rapporto interpersonale (che però può guastarsi nel tempo per i più svariati motivi) su di questa hanno comunque un peso rilevante le variabili di tipo economico. Va comunque sottolineato come il legame tra l’artista e gallerista di scoperta si basi soprattutto sulla fiducia reciproca (tenuto conto che gli aspetti contrattuali spesso non sono neanche stipulati per iscritto, ma vengono discussi solo oralmente[8]). L’auspicio è quello di una progressione parallela di carriere, in cui l’artista ottenga fama e consenso grazie all’attività del gallerista e quest’ultimo acquisti reputazione e credibilità grazie al lavoro dell’artista. Nel caso infatti che l’artista non riscuotesse abbastanza consenso, le opere rimanessero invendute, i prezzi non decollassero dalle quotazioni iniziali e quindi la sua scelta si rivelasse sbagliata per la galleria, ciò si rifletterebbe negativamente sull’immagine di quest’ultima. A questo punto il gallerista si troverebbe nella condizione di interrompere il rapporto di collaborazione.

Ma può avvenire anche il contrario: cioè l’artista si può rendere conto che la galleria non lo promuove in maniera proficua, sia esso per scarsità di impegno, per mancanza di mezzi o per incapacità del gallerista. Anche in questo caso la via di uscita è nella risoluzione del rapporto.

Tra le cause che spesso rovinano queste relazioni, oltre a malintesi e disillusioni, sono i comportamenti sleali tra le parti. Paradossalmente risulta essere un problema anche quando gli sforzi profusi dalla galleria spingono la carriera di un artista verso il successo. In tal caso infatti si prefigura per la galleria un moral hazard, e cioè che l’artista, dopo aver goduto i frutti dell’attività promozionale della galleria, decida di passare ad una galleria più importante (tradizionale o di brand) per fare un salto di carriera. Altro rischio concreto per le gallerie è quello che gli artisti, pur usufruendo dei servizi della galleria, decidano di vendere parte delle proprie opere direttamente ai collezionisti, bypassandola (fenomeno in economia denominato free riding).

A ciò consegue tutta una serie di problemi: da una parte le gallerie saranno disincentivate ad avere un’ottica di investimento di lungo termine nella carriera degli artisti, privilegiando piuttosto una strategia speculativa del tipo “mordi e fuggi”, che prevede un basso impegno nell’attività promozionale; dall’altra avranno una minore capacità reddituale, con un conseguente restringimento del portafoglio di artisti, creando un collo di bottiglia all’ingresso del sistema; infine comporta che esse siano più inclini ad accogliere nelle loro fila artisti la cui carriera non sia destinata ad una continua ascesa, privilegiando coloro che producono arte “sicura” da un punto di vista commerciale (quelli “di mercato”) rispetto a chi è più innovativo (quelli “di avanguardia”).[9]

Tuttavia di fronte a questi rischi le gallerie non rimangono inerti ma cercano di cautelarsi con alcune contromisure. Una contromisura praticata spesso dai galleristi, ma come si vedrà di scarsa efficacia, è quella di aumentare, sfruttando il proprio potere contrattuale, le commissioni di intermediazione, cioè la percentuale sul prezzo di vendita percepita dalla galleria, così da aumentare il ritorno immediato sulla propria attività. Tale strategia non risulta tuttavia ottimale per il semplice fatto che disincentiva gli artisti, rendendoli meno produttivi e inclini a cambiare gallerista appena possibile.

Un’altra via molto praticata è quella di assumere l’artista contrattualmente a busta paga, in modo che egli si impegni a produrre un ammontare minimo di opere l’anno che saranno poi acquisite e rivendute dalla galleria. Tale misura tuttavia può risultare molto limitante per l’artista che si trova spesso nella condizione di dover produrre opere in serie (del genere più richiesto dal mercato) a discapito della ricerca artistica e dell’innovatività. La galleria in questo caso acculerà uno stock di opere alla stregua di un premio assicurativo, in modo da una parte da poterne controllare successivamente il mercato, disincentivando quindi altri agguerriti concorrenti dal tentare di strapparle l’artista, e dall’altra da poterle rivendere una volta che questi abbia ottenuto un certo successo, ottenendo un guadagno in conto capitale.

D’altra parte anche per gli artisti vi è un azzardo morale, quello cioè di scegliere delle gallerie che non investano sufficientemente su di loro. Sono infatti molte le gallerie che, essendo avverse al rischio, preferiscono ottenere un guadagno immediato di fronte a investimenti minimi. Tali gallerie prefigurano il rapporto con gli artisti di brevissima durata, spesso limitato all’organizzazione di un singolo evento (una personale o una collettiva), dove l’obiettivo è fondamentalmente quello di lucrare sulle loro aspettative. Vi sono poi gallerie (“gallerie negozio” o “vanity galleries”) che per non assumere rischi, preferiscono rinunciare ad eventuali commissioni di vendita lasciando però tutti gli oneri organizzativi, tra cui quello di un canone di locazione dello spazio espositivo della galleria, a carico dell’artista. Tale situazione, sebbene assuma di facciata la parvenza di una collaborazione, di fatto costituisce un’operazione di autopromozione. Ma forse il rischio principale nel rivolgersi ad una galleria negozio non è tanto che esso comporta un inutile dispendio di risorse, tempo e denaro in un’occasione che probabilmente non porterà a nessun frutto, quanto il pericolo di perdere di credibilità. Spesso infatti gli aspiranti artisti ingenuamente, pur di riempire il proprio scarno curriculum, mettono le mostre organizzate presso queste pseudo-gallerie nel proprio book, ignari del fatto che questo genere di iniziative sono mal viste dai veri galleristi di scoperta poiché testimoniano una incapacità di sapersi muovere scientemente nel sistema e una scarsa tenacia nel cercare di conseguire i propri obbiettivi, elementi che in ultima analisi fanno presumere che l’artista non abbia le qualità per sfondare.

Oltre alla mancanza di un serio investimento promozionale vi è un’altra situazione in cui si configura un moral hazard per l’artista, e cioè quella per cui la galleria che lo rappresenta, i cui prezzi di vendita sono in genere tenuti confidenziali, dichiari di aver venduto un’opera a un prezzo inferiore di quello effettivo, così da dovergli pagare minori commissioni di intermediazione.

Alla luce di questo fatto è possibile affermare che per gli artisti sia più conveniente un mandato “con rappresentanza” (per conto e in nome dell’artista), ovvero vendere direttamente al collezionista tramite l’attività di mediazione della galleria, con la possibilità di controllarne il prezzo di vendita. Le gallerie tuttavia (prescindendo dagli aspetti fiscali, che si affronteranno nel prossimo numero) preferiscono, e spesso impongono, agli artisti un mandato “senza rappresentanza” (per conto dell’artista e in nome della galleria), ovvero che l’artista venda l’opera alla galleria e che si ripromette di piazzarla successivamente sul mercato in cambio di una commissione. Questo meccanismo garantisce infatti alla galleria di gestire in maniera univoca i rapporti con i collezionisti, evitando che gli artisti possano poi bypassarli. E’ possibile quindi dire che allo stato attuale sussiste un rilevante conflitto di interesse tra artista e gallerista al momento della stipula del contratto.

Si può concludere che i problemi insiti nella relazione tra gallerie ed artisti vengano a dipendere in gran parte da una situazione in cui le controparti sono ignare dei rischi che tale relazione può riservare. Quando invece le parti sono ben consce delle problematiche cui possono venire incontro e condividono, oltre ai valori, una visione comune rispetto al ruolo dell’arte, allora il loro rapporto può prefigurarsi come proficuo e duraturo.

Una volta iniziata la collaborazione, il passo successivo sarà quello di organizzare di comune accordo una strategia commerciale adeguata alle aspettative di crescita e successo rispettivamente dell’artista e della galleria, argomento a cui si rimanda al prossimo numero della rivista.

[1] Zampetti Egidi C. (2014), Guida al mercato dell’arte moderna e contemporanea, Skira, Ginevra-Milano.

[2] Cfr. Guenzi M. (2014), “Anomalie del mercato dell’arte contemporanea: il problema della selezione avversa degli artisti”, Economia e Diritto, n. 11.

[3] Cfr. Guenzi M. (2014), Op. Cit..

[4] Il corteggiamento prevede un rituale secondo cui l’artista si presenta al gallerista, mostrandogli un proprio book e invitandolo a visitare il proprio studio. Il gallerista che apprezzi il lavoro dell’artista, prima di sottoscrivere un contratto, in genere lo segue per un certo periodo (introduttorio) nella sua evoluzione artistica, facendo spesso visita al suo studio (Zampetti Egidi C. (2014), Op. Cit.).

[5] Un linguaggio innovativo in genere non può prescindere da una solida conoscenza della storia dell’arte, soprattutto contemporanea, che permette all’artista di avere una visione del panorama artistico e di trovare scientemente una collocazione all’interno di esso.

[6] Si pensi ad esempio al caso dei Young British Artist (YBA) che hanno tutti frequentato il Goldsmiths College di Londra alla fine degli anni ottanta, esponendo spesso assieme e trovando l’appoggio del famoso collezionista Charles Saatchi. Cfr. Thornton S. (2008), Il giro del mondo dell’arte in sette giorni, Feltrinelli, Milano.

[7] Di questo argomento si avrà modo di parlare nei prossimi articoli.

[8] Negri-Clementi G. – Stabile S. (2012) (a cura di), “Le relazioni tra artisti, gallerie e collezionisti”, Art&Law, n. 1. A questo proposito gli autori sostengono: “[..] in questo senso, il contratto scritto è uno strumento giuridico utile perché fa chiarezza nei rapporti; evita, in sostanza, inutili fraintendimenti e previene le liti. Come detto, sono pochi gli artisti che firmano contratti con le gallerie. In Italia, è infatti inusuale che gli artisti chiedano alla galleria di esaminare il contratto prima di consegnare le proprie opere alla galleria perché questa le metta in vendita; allo stesso modo, non accade quasi mai che il collezionista sottoscriva con la galleria il contratto per la vendita di opere d’arte, né il collezionista, di norma, conclude contratti scritti con l’artista, anche quando ha rapporti diretti con quest’ultimo.”

[9] Per questo motivo i “galleristi speculatori” che si abbinano agli “artisti di mercato” sono coloro che hanno minori problemi nell’Alternative Market, e costituiscono quindi la maggioranza delle gallerie (e degli artisti) in questo segmento. Cfr. Guenzi (2013), “Anomalie del mercato dell’arte contemporanea: il problema della selezione avversa degli artisti”, Economia e Diritto, n.11.