La compatibilità con le convenzioni internazionali del regime di deducibilità dei c.d. costi black list
(di Paolo Antonio Iacopino)
1. Premessa
Nell’ultimo numero della rivista abbiamo esaminato l’istituto regolato dall’art. 110, commi 10 e ss., DPR 917/86, senza affrontare, però, il rapporto intercorrente tra la disciplina in esame e le convenzioni internazionali.
Di seguito verrà analizzato questo altro aspetto dell’istituto, facendo, prima delle conclusioni, un breve accenno alla procedura aggravata prevista per l’accertamento.
2. La compatibilità dell’istituto con le convenzioni internazionali
L’Italia ha sottoscritto con altri Stati delle convenzioni internazionali per evitare la doppia imposizione, ispirandosi al Modello di convenzione elaborato dall’Ocse. Tra queste alcune sono state sottoscritte con Stati rientranti nell’elenco dei paesi a cui si applica la disciplina di cui all’art. 110, commi da 10 a 12-bis, DPR 917/86. Il riferimento è, ad esempio, alla Svizzera, agli Emirati Arabi Uniti, a Singapore, all’Oman, alla Malesya e all’Ecuador. L’esistenza di convenzioni sottoscritte con paesi black list pone un problema di compatibilità tra la disciplina in commento e le disposizioni convenzionali. È opportuno precisare che nella scala gerarchica delle fonti la disciplina convenzionale, in quanto norma speciale, ha una posizione sopraordinata rispetto a quella interna, che è una disposizione generale. Per cui un’eventuale incompatibilità tra le due discipline determinerebbe la disapplicazione della disciplina nazionale in favore di quella convenzionale. Nello specifico la disciplina dell’indeducibilità dei costi black list potrebbe essere in contrasto con l’art. 24 comma 4 del modello di convenzione, secondo il quale “salvo le disposizioni del paragrafo 1 dell’articolo 9, paragrafo 6 dell’articolo 11, o al paragrafo 4 dell’articolo 12, gli interessi, i canoni ed altre spese pagati da un’impresa di uno Stato contraente ad un residente di un altro Stato contraente, ai fini della determinazione degli utili imponibili di detta impresa, sono deducibili alle stesse condizioni in cui sarebbero deducibili se fossero pagati ad un residente di detto primo Stato”. Secondo questa ultima disposizione gli Stati contraenti si impegnano a riconoscere la deducibilità fiscale dei costi sostenuti nei confronti dei residenti dell’altro Stato contraente, nel rispetto del c.d. principio di non discriminazione. Di converso l’art. 110, commi 10 e ss, Tuir pone delle restrizioni al diritto di deducibilità fiscale di alcuni costi. Per cui se si giungesse alla conclusione che l’art. 110 TUIR e l’art. 24 del modello di convenzione regolamentano la stessa fattispecie esisterebbe un problema di compatibilità tra le due discipline. Questo dubbio viene certamente meno nel caso in cui la singola convenzione contiene una clausola che autorizza una deroga al divieto di non discriminazione previsto dall’art. 24, come espressamente previsto nelle convenzioni stipulate dal nostro Paese con gli Emirati Arabi Uniti e l’Oman.
L’Agenzia delle Entrate ritiene che non ci sia una incompatibilità tra le due disposizioni. Infatti, nella circolare 207/2000, al punto 1.1.1, trattando della disciplina sulle CFC, per la quale dovrebbe esistere lo stesso problema, ha precisato che “ considerato che molti Stati hanno stipulato con l’Italia convenzioni contro le doppie imposizioni, si ritiene opportuno precisare che le disposizioni introdotte dalla normativa in esame non appaiono in contrasto con quelle convenzionali ….”.
Sul punto merita particolare attenzione, anche per l’interesse che ha suscitato nei commentatori, la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n. 294/5/12, che ha deciso in merito alla deducibilità di costi sostenuti da un residente nazionale nei confronti di una società Svizzera. Nello specifico la Commissione ha accolto il ricorso del contribuente avverso l’accertamento che contestava la deducibilità di costi c.d. black list, statuendo che l’art. 110, comma 10, Tuir non era applicabile nel caso in cui il soggetto estero, con il quale sono intercorse le operazioni commerciali, è residente in un Paese black list con cui l’Italia ha stipulato una convenzione contro le doppie imposizioni, che prevede una clausola di non discriminazione (articolo 24, paragrafo 4, del Modello Ocse). Infatti, tale clausola prevede che i costi sostenuti da un’impresa di uno Stato per gli acquisti di beni e servizi da un’impresa dell’altro Stato sono deducibili nelle stesse condizioni in cui sarebbero deducibili, se fossero pagati a residenti del primo Stato. Nello specifico il Giudice dì merito ha specificato che “le disposizioni contenute in una convenzione internazionale, in quanto destinate a disciplinare in via esclusiva i rapporti tra i soggetti appartenenti ad uno Stato estero ed i soggetti appartenenti allo Stato italiano, ovvero i rapporti tra uno stato estero e l’Italia, assumano il carattere di specialità e, quindi, assumano rilievo rispetto alle normative nazionali quali, nel caso in esame, il Tuir”.
Sempre la CTP di Milano si era espressa in modo analogo nella sentenza 338 del 20/12/2010, specificando che “in merito ai prodotti acquistati dai fornitori esistenti nella Corea del Sud parte ricorrente richiama la convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra quest’ultima e lo stato Italiano nella quale si prevede che sono deducibili dall’acquirente (art. 9, e paragrafo 7 dell’art. 11, e paragrafo 6 dell’art. 12), i costi sostenuti per gli acquisti di beni; tale norma è prevalente rispetto a quella di cui al citato art. 110 e non prevede alcuna eccezione, e tale fatto non viene contestato dall’Ufficio. È ben vero che il D.M. 23/1/2002 prevede all’art. 3 che ai fini della applicazione delle disposizioni di cui occorre fare riferimento alle società art. 110, comma 10, del D.P.R. 917/1986che godono delle agevolazioni previste dalla tax Incentives Limitation Law, ma come detto si ritiene che le convenzioni contro le doppie imposizioni prevalgano rispetto alla normativa nazionale, in ogni caso i fornitori in questione non risultano godere di detta agevolazione”.
Le sentenze della giurisprudenza di merito sopra richiamate interpretano in senso restrittivo l’ambito di operatività dell’art. 110. Sarà interessante capire la posizione che verrà assunta dalla giurisprudenza di legittimità quando sarà investita della questione.
Ad oggi l’Amministrazione Finanziaria non ha modificato il proprio orientamento sulla compatibilità dell’istituto della deducibilità dei costi black list con le convenzioni contro le doppie imposizioni. Per cui la questione rimane ancora aperta.
3. L’iter procedimentale aggravato previsto per l’accertamento
Il comma 10 dell’art. 110 TUIR prevede che “l’Amministrazione, prima di procedere all’emissione dell’avviso di accertamento di imposta o di maggiore imposta, deve notificare all’interessato un apposito avviso con il quale viene concessa al medesimo la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove predette (ovvero la dimostrazione delle esimenti dell’effettiva attività economica o dell’effettivo interesse economico) . Ove l’Amministrazione non ritenga idonee le prove addotte, dovrà darne specifica motivazione nell’avviso di accertamento”. Questo iter aggravato imposto all’Amministrazione Finanziaria nel procedimento amministrativo dell’accertamento fiscale ha la funzione di garantire (obbligare) il contraddittorio con il contribuente in relazione ad una disposizione che impone al contribuente stesso uno sforzo documentale enorme. Questa procedura è tipica degli istituti che contrastano l’elusione fiscale. Infatti, disciplina analoga è contenuta nel corpo dell’art. 37-bis DPR 600/73. L’obbligo per l’Amministrazione Finanziaria, previsto espressamente nell’art. 110, di dover motivare nell’avviso di accertamento le ragioni per le quali non vengono accolte le osservazioni ed i documenti prodotti dal contribuente non introduce un elemento assoluto di novità. Lo stesso contenuto lo troviamo nell’art. 10, comma 1 lett. b), L 241/90, rubricato “diritti dei partecipanti al procedimento”. La legge 241/90 è la legge quadro sui procedimenti amministrativi applicabile a tutte le Pubbliche Amministrazioni compresa quella Finanziaria.
4. Conclusioni
Nel presente lavoro è stato affrontato il regime dell’indeducibilità dei costi c.d. black list, che è il primo argine introdotto dal legislatore per contrastare i paradisi fiscali.
La norma, che è una disposizione antielusiva, ha la funzione di contrastare le strutture di puro artificio finalizzate a localizzare il reddito nei paesi a fiscalità privilegiata. Infatti, la deducibilità del costo è ammessa nel caso in cui il contribuente riesce a dimostrare che il soggetto black list ha una struttura commerciale effettiva nello Stato di residenza o che l’operazione ha avuto concreta esecuzione. La norma ha la funzione di tutelare gli interessi dell’erario, evitando che materia imponibile venga trasferita in paesi a fiscalità privilegiata mediante operazioni fittizie. Il contraltare di questa norma è lo sforzo documentale che viene richiesto ai contribuenti per dimostrare l’esistenza delle esimenti richiesti dalla legge.
Dalla ricostruzione che è stata fatta emerge che la disposizione in commento non è applicabile alla deducibilità dei costi indiretti delle plusvalenze dei beni patrimoniali. Dalle ricerche effettuate in nessun documento di prassi o decisione della giurisprudenza si trova, al momento, un orientamento diverso. La disarmonia del sistema risulta ancor più evidente se analizziamo l’at. 87, comma 1 lett. b, TUIR. Secondo questa disposizione la plusvalenza derivante dalla cessione di un partecipazione in una società residente in uno stato black list non può usufruire dell’esenzione prevista dallo stesso articolo 87. Gli stessi paletti, però, non sono previsti se ad essere ceduto in plusvalenza è una partecipazione acquistata da un soggetto residente in uno Stato black list.