La pietas di J. J. Rousseau: possibile fondamento della soggezione rispetto alle norme e della "condivisione" di Koki Tanaka
di Francesco Zappia
Il concetto di Catastrofe trattato il mese scorso ne “L’Umanista” , ma in questa sede inteso per come rivisitato dall’arte quale idonea forma espressiva degli effetti che un vero e proprio evento catastrofico possa far gravare sull’uomo e sulla collettività, assume il carattere di premessa rispetto ai comportamenti che gli individui pongono in essere se colpiti, ad esempio, da un fenomeno calamitoso.
Il contesto di riferimento è il Giappone colpito dal terremoto dell’11 marzo 2011 di cui tutti noi abbiamo conoscenza.
In occasione della 55ma Biennale d’Arte di Venezia, l’artista giapponese Koki Tanaka ha inscenato, presso il padiglione Giapponese, “Il dialogare astratto – condividere azioni indeterminate e collettive”, una serie di progetti collettivi (precarious tasks), tutti audiovisivi e rappresentativi di come creativamente più individui condividono il medesimo atto o fenomeno.
In una delle rappresentazioni, “A pottery produced by 5 potters at once (silent attempt)”, la nota dell’artista riporta:
“Se la nostra vita fosse messa a soqquadro da un disastro naturale o da altri eventi al di fuori del nostro controllo, ci ritroveremmo con l’opzione di scegliere tra assumere decisioni individuali a nostro personale vantaggio e cercare invece di sopravvivere attraverso l’aiuto reciproco con chi ci sta vicino. Credo che la collaborazione tra individui sia un tema fondamentale della nostra società. Le nostre vite si basano sul lavoro svolto da altri individui; hanno come fondamenta l’accumulazione di svariate forme di collaborazione tra persone diverse. Quando andiamo in ufficio o in fabbrica, oppure anche quando incontriamo i nostri vicini, collaboriamo, patteggiamo e negoziamo. La collaborazione è il nostro quotidiano. Per questa serie di progetti ho voluto identificare alcuni momenti / processi puramente collaborativi nell’ambito delle nostre attività quotidiane. Ho ritenuto che essi possano essere rilevabili soprattutto in atti come tagliare i capelli, suonare il piano, scrivere poesie e produrre ceramiche. Lavorare la ceramica è un processo che si svolge in silenzio”.
Conclude, poi, scrivendo: “In questo processo, gli uni e gli altri si dimenticano di sè stessi. Nel luogo in cui si svolge l’azione, ognuno si concentra su un solo gesto: un momento di azione cooperativa”.
Al di là del contenuto e dello spessore/valore artistico, ciò che appare evidente è la modalità secondo cui un popolo (giapponese, nella fattispecie) possa riuscire ad autocontrollarsi ed autogovernarsi in determinate situazioni.
Il sapere come comportarsi, l’osservanza di precise regole e, dunque, l’assumere individualmente un comportamento che nel complesso rispetti l’ordine sociale (anche e soprattutto in condizioni di collettiva difficoltà), son tutti elementi grazie ai quali è possibile ottenere una via di uscita da qualsiasi emergenza (posto che le regole da seguire siano quantomeno funzionali alla soluzione).
Dunque, la decisione individuale infallibile è, per l’insieme sociale, quella di rispettare pedissequamente le regole di condotta, così da poter essere partecipi di un’identità collettiva che abbia come base fondamentale la cooperazione tra singoli individui.
Appunto, concentrarsi “su un solo gesto: un momento di azione cooperativa”.
Scrive il Prof. Alessandro G. Gervini (Letteratura giapponese, Waseda University – Tokyo) in “I giapponesi giudicano se stessi e gli altri in base alle categorie di << autocontrollo>> e << autogoverno>>: “In un Paese in cui l’identità nazionale si forma soprattutto attraverso il gruppo, piuttosto che il singolo, anche in situazioni di emergenza estrema è importante non uscire dai propri spazi, rispettare le regole. Soltanto così è possibile mantenere l’ordine sociale e conservare la propria identità”.
Dunque, una condizione di emergenza è un fatto topico per la generazione della necessaria consapevolezza dell’uomo di dover riconoscersi in un’identità collettiva?
Jean Jacques Rousseau (Ginevra, 28 giugno 1712 – Ermenonville, 2 luglio 1778), nella sua opera “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini” , “decostruisce” l’uomo sociale, a ritroso, dunque, ricavando l’uomo naturale e analizzandolo, se si può dire, sin dalla sua fase di isolamento.
Egli mette in evidenza come, sebbene l’uomo naturale vivesse agiatamente nella sua condizione, appunto, naturale (nello stato di natura), restò comunque soggetto alla progressiva necessità di avvicinamento ai suoi simili:
“immaginate una primavera perpetua sulla terra; immaginate ovunque acqua, bestiame, pascoli: immaginate gli uomini, uscenti dalle mani della natura, dispersi in un mondo come questo: non vedo come essi avrebbero mai rinunciato alla loro libertà primitiva e abbandonato la vita isolata e pastorale così conveniente alla loro indolenza naturale, per imporsi, senza necessità, la schiavitù, i lavori, le miserie inseparabili dallo stato sociale”…”In questa età felice, ove nulla scandiva le ore, nulla obbligava a contarle; il tempo non aveva altra misura che il divertimento e la noia. All’ombra di vecchie querce, trionfanti degli anni, un’ardente giovinezza dimenticò gradualmente la propria ferocia, ci si familiarizzò a poco a poco gli uni con gli altri; sforzandosi di farsi capire, si imparò a spiegarsi. Qui si fecero le prime feste; i piedi saltellavano di gioia, il gesto sollecito non bastava più, la voce l’accompagnava con toni appassionati, il piacere e il desiderio, confusi insieme, si facevano sentire a loro volta”
Gli uomini – lasciandosi alle spalle autoconservazione e pietà (tratti comuni che legano l’uomo naturale all’animale) ed anche colpiti da eventi naturali, straordinari e catastrofici – si avvicinano e fondano le prime società:
“Così, per quanto gli uomini fossero divenuti meno tolleranti, e la pietà naturale avesse già sofferto qualche alterazione, questo periodo dello sviluppo delle facoltà umane, tenendo un giusto mezzo fra l’indolenza dello stato primitivo e la petulante attività del nostro amor proprio, [dovette esser l’epoca più felice e durevole]. Più ci si pensa, più si trova che questo stato era il meno soggetto a rivoluzioni, il migliore per l’uomo, [che ha dovuto uscirne solo per qualche funesto caso], che per l’utilità comune non avrebbe dovuto mai sopravvenire”
La scoperta della metallurgia, addirittura, fu probabilmente possibile solo grazie alla “circostanza straordinaria di qualche vulcano che, vomitando materie metalliche in fusione, avrà dato agli osservatori l’idea di imitare questa operazione naturale”.
Importante è comprendere come una simile ricostruzione, che delinea il passaggio dall’uomo naturale all’uomo sociale, veda il proprio principio attivo nella passione generata dalla necessità dell’uomo di sopravvivere, dalla reazione ingenerata dall’insorgere di difficoltà estreme derivanti, ad esempio, da fenomeni naturali che inevitabilmente portano l’uomo stesso a doversi ingegnare e partorire idee e passione per l’avvicinamento agli altri simili. Per poi, passo dopo passo, confrontarsi con essi sino a sviluppare empatia e riconoscimento di un codice di condotta vantaggioso per la sicurezza e l’ordine collettivo.
Si è sempre meno distanti, così, dalla formazione del valore/dovere del rispetto delle regole all’interno di un gruppo costituito paragonabile, anche se certamente ancora troppo “preistorico”, alla gemeinschaft del sociologo tedesco Ferdinand Tönnies.
La virtù della collaborazione tra individui, auspicata da Koki Tanaka quale “tema fondamentale della nostra società”, è strettamente connessa alla presenza, nell’essenza umana, del sintomo della necessità (evidentemente individuale, se ci riferiamo allo stato di isolamento dell’uomo) connaturata allo stato naturale dell’uomo di Rousseau.
La necessità caratterizza l’essenza umana già nello stato di natura, dunque in epoca antecedente rispetto alla successiva fase durante la quale si assiste alla generazione ed evoluzione della moralità dell’uomo stesso (l’uomo naturale di Rousseau, sebbene perfettibile e dissociato dal regno animale, non diviene socievole, morale, “un animale ragionevole, il re degli altri animali e l’immagine di Dio sulla terra”, se non grazie alla “mutua frequentazione” con altri individui durante la quale sviluppa “le più sublimi facoltà”, “il canto e la danza, le idee della stima e dell’onore e con queste i primi elementi della persona sociale” ).
Valore della collaborazione, dunque, scaturente da una sorta di deja vu (forse qui termine improprio) che “connette” l’uomo sociale al suo stato naturale (dunque, pre-sociale) in cui alberga l’amor di sé stesso che, pur essendo tipico dello stato di natura (a differenza dell’amor proprio che è tipico dell’uomo sociale), travalica questo stesso stato perché “diretto [l’amor di sé stesso] nell’uomo dalla ragione e modificato dalla pietà, produce l’umanità e la virtù”.
Non sarebbe infondato, anzi a questo punto diviene necessario, scorgere un diretto collegamento tra il sentimento della pietas ed il valore/dovere (ed auspicabile risultato) della collaborazione tra individui. Il riferimento alla pietà è, dunque fondamentale! Essa è per Rousseau “un altro principio, che Hobbes non ha scorto, e che, essendo stato dato all’uomo per mitigare in talune circostanze la ferocia del suo amor proprio [tipico dello stato sociale] o il desiderio della conservazione anteriore al sorgere di questo amore, tempera l’ardore ch’egli ha pel suo benessere con una ripugnanza innata a veder soffrire il proprio simile”.
Il senso di livellamento tra uomini che trasmettono sia il costante richiamo alla pietas, sia, dunque, il valore attribuito alla necessità, si traduce in una spontanea disposizione (che diviene, poi, senso civico individuale che a sua volta si cristallizza nella società come macro-contesto) all’assoggettamento alle regole, alle norme, ad un codice di condotta comune, valido e socialmente efficace (per affrontare situazioni catastrofiche e di estrema emergenza, sia per rispettare/raggiungere quotidianamente il bene comune funzionale al rispetto delle necessità collettive).
Parallelamente, si può affermare che il valore e l’efficacia, ad esempio, delle norme che nei disparati ambiti regolano la vita degli uomini ed i loro rapporti, cresce quanto più elevato è il comune riconoscimento, in capo alla norma stessa, della sua capacità di stabilire un comportamento condiviso secondo i valori presenti all’interno di un gruppo sociale.
Il tutto passando necessariamente attraverso il riconoscimento della condizione di eguaglianza gli uni rispetto agli altri.
Non è un caso, a mio modo di vedere, se Rousseau proprio grazie all’assenza di nozioni quali tuo o mio (lo stato pre-sociale e tutti relativi valori dell’uomo naturale – la pietas per prima – sono ancora fatti salvi dall’intervento dell’istituzione della proprietà), ha attribuito alla pietà la sua piena funzione moderatrice dell’istinto conservativo individuale del tutto a favore di quello della specie.
E quale migliore occasione, per considerarsi tutti uguali, se non dinnanzi alla necessità scaturente da un comune disagio? Forse, soprattutto oggi, per l’uomo sociale è l’unico modo per sviluppare l’attitudine, per dirla alla maniera dell’artista giapponese Koki Tanaka, ad un’infallibile propensione all’ “aiuto reciproco con chi ci sta vicino”.
Ed oggi anche Jean Jacques Rousseau avrebbe approvato!