Economia

La struttura del sistema dell’arte (terza parte)

(di Marco Guenzi)

Con questo articolo quasi si conclude la disamina del sistema dell’arte, cioè dell’insieme di individui e istituzioni che influenzano, in un fitto intreccio di relazioni e di rapporti di tipo economico, la struttura e l’evoluzione del mercato dell’arte contemporanea. Oggetto dell’analisi di questo scritto saranno gli sviluppi del sistema nel periodo più recente: nell’ordine gli art broker e i consulenti d’arte, le biennali, le fiere, i premi, gli investitori istituzionali. Per motivi di opportunità si è dovuto lasciare al prossimo mese la trattazione delle associazioni culturali e dei nuovi spazi espositivi, degli internet art hub, delle figure ancillari e infine del ruolo del pubblico, inteso secondo due accezioni, cioè in primis quello del contesto istituzionale e delle politiche economiche in ambito artistico e, last but not least, la cosidetta vox populi, cioè l’apprezzamento generale da parte degli spettatori.

Gli art broker e i consulenti d’arte

Gli art broker costituiscono quell’insieme di individui che aiutano artisti, gallerie, musei, collezionisti, investitori istituzionali, mercanti d’arte e case d’asta nella ricerca di una controparte. Essi in genere sono liberi professionisti, molto introdotti da un punto di vista relazionale nel sistema, che svolgono una vera e propria funzione di brokeraggio, cioè di mettere insieme sul mercato domanda e offerta, offrendo alle controparti anche tutta una serie di servizi accessori (ad es. valutazione, contrattualistica e logistica, consulenza legale, fiscale ed assicurativa).

La figura del broker d’arte si è sviluppata parallelamente a quella del consulente d’arte (art advisor), cioè quel professionista preposto a consigliare i collezionisti, gli investitori istituzionali e i musei in merito alla loro attività di investimento. Gli art advisor, a differenza degli art broker, svolgono una funzione più dal lato dell’offerta. Entrambe le professioni hanno sicuramente radici molto antiche, ma si sono sviluppate in senso moderno nel corso dell’ultimo secolo.

In realtà la differenza tra queste due figure è minima e sfumata, in quanto ad esse è richiesto un background che spesso coincide. Si può dire che agli art broker sia richiesta più un’abilità dal lato di negoziazione e legale, mentre i consulenti d’arte hanno in genere un’approfondita conoscenza della storia dell’arte (a volte infatti possono svolgere parallelamente l’attività di critico) e del mercato, nonché degli aspetti economici-finanziari legati all’investimento.

L’importanza degli art broker e degli art advisors è legata alla presenza di inefficienze del mercato, specie sotto l’aspetto informativo. Il loro ruolo dal punto di vista economico, come meglio si avrà occasione di vedere, è quello di ridurre le asimmetrie informative che vengono a crearsi tra venditore e acquirente. Tuttavia questo ruolo può essere compromesso qualora esistano conflitti di interessi all’interno della loro attività, dando origine a quello che gli economisti definiscono un azzardo morale (moral hazard). Il classico esempio è quello di un art broker che svolge contemporaneamente un’attività di consulenza nei confronti di collezionisti, investitori istituzionali o musei ed è parallelamente legato da rapporti professionali continuativi con gallerie o case d’aste.

Nella fattispecie il ruolo dei consulenti d’arte e degli art broker è molto rilevante perché essi spesso costituiscono una corsia preferenziale per i collezionisti per attingere alle liste di attesa dei galleristi. Un collezionista sconosciuto, che si avvalesse della consulenza di un affermato art advisor, verrebbe infatti preso in considerazione molto più seriamente da una galleria che presentandosi direttamente ad essa[1].

I consulenti d’arte svolgono a volte la propria professione per conto di banche e altri istituti finanziari, venendo così chiamati art bankers. Gli art bankers sono assimilabili ai consulenti finanziari, ma su dei prodotti molto particolari, le opere d’arte, in grado di attuare una diversificazione del portafoglio. I clienti in genere sono quelli del private banking (i cosiddetti HNWI, High Net Worth Individuals), che dispongono di ingenti liquidità da investire.

Le biennali

Le biennali d’arte, così chiamate perché in genere hanno cadenza ogni due anni, sono manifestazioni che si tengono periodicamente o in uno apposito spazio espositivo, o di volta in volta in luoghi diversi (biennali itineranti), trattando tematiche ad hoc decise da un curatore incaricato. Accanto alle biennali d’arte sono sorte parallelamente biennali che trattano altri eventi culturali come il cinema, l’architettura, la musica, il teatro.

Le prima biennale d’arte a nascere fu quella di Venezia nel 1897. Nel secondo dopoguerra le Biennali hanno avuto un’esplosione, divenendo un fenomeno globale. Nel 1955 si tiene la prima edizione di Documenta di Kassel (con cadenza quinquennale). Si citano inoltre le storiche biennali del Whitney Museum e di Rio de Janeiro, più le più recenti di Berlino, Lione, Istanbul, Tirana, Città del Capo, Dakar, Taiwan, Gwangju, Shangai, Pechino e Sydney[2].

Da un punto di vista organizzativo le biennali sono in genere enti pubblici che fanno capo a un direttore artistico, cui spettano le scelte curatoriali dell’edizione corrente, e a un comitato artistico, che ne stabilisce le politiche in senso lato. Alcune biennali (come quella di Venezia) sono organizzate per padiglioni che fanno riferimento a un singolo paese, ognuno seguito da un curatore ad hoc. Altre sono legate più alla specificità dei luoghi (site specific), dove i curatori invitano gli artisti ad intervenire sul territorio (come ad esempio Manifesta, manifestazione itinerante che si tiene ogni due anni in una diversa terra di confine europeo). Altre semplicemente sono organizzate come un insieme di mostre, raccolte nei diversi spazi metropolitani.

Si può dire che rispetto ai musei le biennali non sono istituzioni che hanno un’attività continuativa, ma espongono solo nel periodo programmato. Non si può neanche dire che esse siano delle mostre periodiche, in quanto realtà molto più complesse e articolate. Si può affermare invece che il ruolo di tali manifestazioni sia quello di mettere assieme le più diverse tendenze dell’arte contemporanea, mettendone spesso in risalto un fil rouge che accompagna la sua evoluzione.

La partecipazione alle Biennali è in genere ad inviti. Per questa ragione è per gli artisti motivo di orgoglio e un primo punto di arrivo della loro carriera parteciparvi. E’ anche motivo di interesse per le gallerie che li rappresentano, perché la partecipazione ad una biennale costituisce un importante selling out event, cioè un evento che ne giustifica un aumento delle quotazioni. Per questo motivo non è raro che sussistano delle forti pressioni sui curatori incaricati riguardo la scelta degli artisti. Un ulteriore (e ancor più ambito) riconoscimento per gli artisti è la ricezione di premi speciali assegnati da un’apposita giuria, come ad esempio il Leone d’Oro al miglior artista a Venezia, che rappresenta una vera e propria consacrazione alla carriera artistica.

Le fiere

Le fiere sono luoghi preposti alla compravendita di opere d’arte, dove vengono rappresentate numerosissime istituzioni, in gran parte gallerie (ma anche editori, enti di formazione, case d’asta, premi d’arte, ecc..), che espongono le proprie opere (o il proprio materiale) negli stand appositamente assegnati dal comitato organizzatore.

E’ da rilevare che sebbene il fulcro del business dell’arte fosse negli Stati Uniti, il fenomeno fieristico ebbe origine prettamente europea. La prima fiera si tenne nel 1967 a Colonia. Nel 1970 nacque Art Basel, che al giorno d’oggi rappresenta l’evento fieristico più importante a livello mondiale. Successivamente furono numerosissime le fiere che aprirono i battenti, sia in Europa, che in Italia (si citano Torino e Bologna), e più recentemente negli altri continenti. Interessante è rilevare che contemporaneamente alla nascita della prima fiera fu imposto nel 1968 alla Biennale di Venezia, in piena epoca di contestazione, il divieto di messa in vendita delle opere, venendo così a creare una netta linea di demarcazione tra eventi culturali ed eventi commerciali nel mondo dell’arte[3].

La funzione delle fiere è ovviamente quella commerciale. Esse sono in grado di competere egregiamente con le altre strutture di vendita in funzione del valore aggiunto che creano per il collezionista. Quest’ultimo infatti si trova nella condizione di poter scegliere tra una grandissima gamma di opere, tutta a portata di mano nello stesso luogo senza quindi perdite di tempo, facilmente confrontabile in un dato instante, sia visivamente che in termini di prezzi. La fiera rappresenta quindi per i collezionisti un’ottima occasione per avere un’idea sul trend del mercato, in termini di prodotti venduti, sulle mode e sulle evoluzioni del gusto e sulle quotazioni raggiunte dai singoli artisti[4].

Se per i collezionisti i vantaggi delle fiere appaiono evidenti, essi si presentano, in maniera contraddittoria, anche per le gallerie. Le fiere infatti rappresentano per esse una vetrina fondamentale per vendere, poiché potranno avere nel giro di pochi giorni decine di migliaia di visitatori (e non qualche decina come in galleria). Il fatturato delle gallerie viene quindi a concentrarsi in pochi eventi fieristici, mentre l’attività espositiva presso la propria sede diventa quasi un surplus.

Gli organizzatori delle fiere, consapevoli del fatto di poter raccogliere in pochi giorni un numero di visitatori pari a quello di una piccola biennale in alcuni mesi, sanno bene che le gallerie sono disposte a pagare salatamente l’opportunità di presenziare tra gli stand selezionati. Poi tanto più la fiera risulta essere esclusiva, cioè frequentata da gallerie e collezionisti di spicco, con opere di artisti di trend, e la cui partecipazione risulta essere su invito solo per le gallerie più virtuose, tanto più diventa un must aderirvi.

Anche per le fiere quindi si può distinguere una stratificazione: al vertice vi sono le poche dove si respira un’aria internazionale e molto esclusiva, poi le molte importanti a livello nazionale, con partecipazione di operatori stranieri, e infine le piccole fiere “alternative”, fuori dal circuito e organizzate spesso in spazi di associazioni, che offrono in genere opere a prezzi concorrenziali.

Il concetto di élite, che fa riferimento all’esclusività della fiera, si scontra però con l’esigenza di avere nello stesso tempo una partecipazione abbastanza ampia da rendere la fiera profittevole per gli organizzatori e appetibile al pubblico. La strategia di marketing degli organizzatori sarà quindi quella di lusingare le gallerie di punta con condizioni particolarmente favorevoli e la promessa di creare da un punto di vista della location dei veri e propri ghetti tra gli stand, per cui le gallerie minori e d’avanguardia vengono messe in aree ben distinte da quelle di brand e commerciali. Un’ulteriore segmentazione a volte messa in opera è quella di distinguere trai diversi segmenti di mercato (classical contemporary, cioè gli artisti storicizzati – avant-garde, le promesse internazionali, e alternative, gli artisti emergenti a livello nazionale)[5].

Se le fiere rappresentano per i collezionisti un modo per “stare al passo con il mercato”, si può dire che siano un po’ meno in grado di rappresentare lo status quo dell’arte contemporanea da un punto di vista culturale (meglio visitare le biennali). In queste manifestazioni in genere sono proposti per lo più prodotti commerciali già testati, a prezzi abbordabili e di qualità in genere non molto elevata. E’ quindi difficile che ci sia traccia di qualcosa di veramente significativo e innovativo. Consapevole di questo loro limite, gli enti fieristici organizzano eventi collaterali quali conferenze, tavole rotonde, incontri, mostre tematiche.

La finalità di una fiera tuttavia non si estingue con il suo ruolo commerciale (e pseudo-culturale). Molto importante risulta essere in queste manifestazioni anche l’attività relazionale. Le fiere sono principalmente un luogo di incontro, oltre che di merci, anche di persone (galleristi, collezionisti, direttori di musei, critici, curatori, direttori di riviste, giornalisti, artisti e appassionati che pagano solo il biglietto e che vivono la fiera come un divertissement). In particolare per le gallerie è fondamentale l’attività di acquisizione di nuovi clienti da fidelizzare, in modo da renderli frequentatori stabili della galleria.

Concludendo le fiere sono come una porta d’ingresso obbligata per le gallerie d’arte contemporanea se vogliono competere sul mercato. Di fronte ai costi spesso molto rilevanti per parteciparvi, esse hanno in contropartita, oltre naturalmente alle vendite, la visibilità del brand e l’acquisizione di nuovi clienti. Se si vuol fare un paragone con la distribuzione di prodotti commerciali, mentre le gallerie sono come dei negozi con poche marche e le case d’asta delle boutique di prodotti esclusivi di brand, le fiere risultano essere come i centri commerciali, con partecipazione di massa e dove trovano spazio prodotti di qualità medio-bassa.

I premi

I premi d’arte contemporanea sono riconoscimenti che vengono assegnati (da un’apposita giuria o da un pubblico votante) ad artisti in base al loro merito, e più precisamente in base alla qualità di un lavoro svolto. I premi rappresentano eventi veri e propri del mondo dell’arte, perché prevedono sempre una fase preparatoria in cui viene pubblicato un bando, una fase di selezione in cui tra gli artisti iscritti vengono scelti i finalisti e una fase conclusiva, nella quale vengono esposte le opere più interessanti e infine vengono proclamati i vincitori (divisi in genere per sezioni: pittura, scultura, fotografia e video). Naturalmente l’importanza di un premio varia notevolmente in funzione dell’ente organizzatore, dei sostenitori e dell’importanza storica acquisita.

I premi sono un fenomeno piuttosto recente nel mondo dell’arte, se si pensa che il primo di essi e anche il più importante, il Turner Prize della Tate Gallery di Londra, risale al 1984, e l’Hugo Boss, principale premio americano, organizzato in collaborazione con la fondazione Guggenheim, nasce solo nel 1996. Nel nostro paese sono numerosi i premi istituiti, tutti nati dopo il 2000. Si può dire in generale che si sta avendo un rapidissimo sviluppo del settore, anche se si deve dire che non tutti quelli che vantano di essere premi d’arte meritino di fatto questo nome[6].

Prima di entrare meglio nell’analisi delle tipologie di premi bisogna notare che alla base di quest’attività vi è una contraddizione intrinseca: può l’arte (e più in generale la cultura) essere basata, al pari dello sport e del business, sulla competizione? (Come comparare mele, arance, biciclette e scolabottiglie, si chiede giustamente Sarah Thornton[7]). La risposta è ovviamente no[8]: non ha senso costruire una scala di valore assoluta sulle opere d’arte, la cui forma espressiva e i cui significati sono così differenti tra di loro.

Naturalmente la facoltà di istituire premi d’arte prescinde dalla capacità di saper rispondere da un punto di vista filosofico a questi interrogativi, e quindi gli organizzatori hanno ben pensato che fosse interessante (se non remunerante) procedere alla messa a punto dei bandi. Se si va ad analizzare meglio la questione, la costituzione di premi corrisponde fondamentalmente a due finalità: una di promozione e comunicazione artistica e una di ricavo di un profitto.

La prima finalità risiede nel creare un evento che faccia da cassa di risonanza nel mondo dell’arte, e in quanto tale possa far beneficiare parte dei suoi partecipanti di tanto clamore. In questo caso il premio, in quanto selling out event, diventa, al pari di una mostra in un museo importante o di una partecipazione ad una biennale, un meccanismo di lancio di un artista.

I premi che si rifanno ad una finalità di promozione sono in genere gratuiti, spesso di una certa importanza e si avvalgono di sponsorizzazioni per il pagamento delle spese organizzative e delle ricompense agli artisti. Essi inoltre sono il più delle volte ad inviti e non a partecipazione libera. Tra questa tipologia di premi se ne annoverano alcuni alla carriera, che intendono premiare l’artista più che la singola opera.

Una seconda finalità dei premi d’arte è quella di creare un profitto per gli organizzatori (seppur spesso trattandosi, almeno formalmente, di associazioni culturali). E’ questo il caso dei premi a pagamento, in genere di gamma medio-bassa, che richiedono una quota di iscrizione come rimborso delle spese sostenute (e a volte sono elargiti in cambio della proprietà dell’opera). Se i premi gratuiti, proprio perché non hanno come fine primario un utile, costituiscono dei veri e propri eventi culturali, i premi a pagamento allo stato attuale invece sono più un mezzo per lucrare sulle aspirazioni degli artisti esclusi dal mercato che degli strumenti per la diffusione dell’arte. Si può dire che parteciparvi è un po’ come giocare d’azzardo per gli artisti, sia da un punto di vista economico, che psicologico. Da un punto di vista economico trattasi d’azzardo in quanto c’è un alto rischio di perdere l’iscrizione senza avere nulla indietro. Infatti l’ammontare delle somme versate dagli artisti andrà solo in minima parte a costituire il montepremi restituito: la maggior parte andrà a coprire le spese organizzative e a costituire alternativamente un utile per gli organizzatori. Da un punto di vista psicologico la partecipazione ad un premio è in genere un atto euforizzante (almeno in un primo momento) e come tale può creare anche una (lieve) dipendenza, perché mette in gioco la percezione che l’artista ha del proprio valore artistico, e può costituire nel suo immaginario il punto di svolta in una carriera piena di frustrazioni.

Una categoria a sé stante è quella dei concorsi, che premiano un’opera sulla base dell’attinenza ad un tema specifico. I concorsi in genere hanno alla loro base una motivazione diversa dai premi, e cioè quella di selezionare un opera site-specific, da mettere poi in esibizione temporanea o permanente all’interno di uno spazio riservato.

Se i premi rispondono anche indirettamente alla generica necessità di creare canali alternativi a quello delle gallerie nella scelta di giovani artisti, tuttavia i meccanismi soggiacenti non lasciano meno interrogativi. Infatti, dati gli intrecci di relazioni economiche e ruoli all’interno del sistema, come posso come membro della giuria rimanere imparziale, senza farmi condizionare dalle pressioni o semplicemente dalle simpatie verso una piuttosto che l’altra parte? E io organizzatore, che più semplicemente ricevo generose sponsorizzazioni, potrò essere obiettivo ed indipendente nella scelta della composizione della mia giuria?

Gli investitori istituzionali

Gli investitori istituzionali (corporate investors) sono costituiti da quelle istituzioni private che svolgono in maniera continuativa un’attività di compravendita di opere d’arte sul mercato, al fine di costituire una collezione il cui valore incrementi nel tempo. La finalità degli investitori istituzionali è quindi più articolata di quella dei mercanti d’arte. Mentre questi ultimi hanno come interesse primario il mero profitto della loro attività di intermediazione, collegato come si è visto alla loro capacità di creare un brand, i corporate investors hanno come ulteriori obiettivi la diversificazione del portafoglio, un ritorno più ampio in immagine e la costituzione di una vera e propria collezione da esporre presso il pubblico.

Gli investitori istituzionali sono costituiti in gran parte da istituti di credito (in Italia nella forma di fondazioni bancarie)[9], grandi aziende e fondi di investimento in arte contemporanea (che nel nostro paese al momento attuale ancora non sono esistenti in quanto non hanno trovato una disciplina da parte del legislatore).

I fondi di investimento in arte contemporanea sono nati negli anni ’70 in contesti istituzionali diversissimi, senza però trovare terreno fertile per uno sviluppo adeguato[10]. Essi sulla carta risultano degli strumenti di investimento interessanti, in quanto costituiscono per l’investitore l’opportunità, come si vedrà meglio in seguito, di diversificare il portafoglio e investire in arte superando quegli scogli che sono costituiti dalle asimmetrie informative e le altre inefficienze del mercato. Producendo una securitization dell’arte, cioè la trasformazione di un’attività da reale in finanziaria, i fondi inoltre permettono di avere, con un minimo capitale investito, una forte diversificazione del portafoglio. Permangono tuttavia alcune perplessità nella loro attività, che ne impediscono con ogni probabilità un ulteriore sviluppo[11]. In primis l’alto livello dei costi di transazione[12] fa sì che l’orizzonte temporale di investimento (e quindi i vincoli relativi alla sottoscrizione del fondo) si allunghi di parecchio fino ad arrivare in media ai dieci anni. Secondariamente i notevoli costi di gestione e transazione determinano un livello delle fees particolarmente elevato (2% annuo del capitale impegnato per la copertura dei costi operativi e 20% dei margini come compenso per le performance), ma comunque in linea con il livello dei costi degli hedge funds e più in generale del capitale gestito. Terzo, come si avrà occasione di vedere nel dettaglio, i prezzi dell’arte sono viscosi verso il basso e ciò determina un aumento cospicuo del rischio di liquidità, in quanto se ci si rendesse conto di avere un portafoglio sovrastimato non si potrebbe procedere a manovre di vendita al ribasso.Last but not least, i prezzi di riferimento sul mercato, come si è visto, non sono quasi mai spot e quindi è difficile avere una quotazione mark to marked del fondo che dia una misura plausibile del portafoglio detenuto (fair value) e un giusto valore di liquidazione.

Al di là dei problemi che allo stato attuale concernono gli investimenti in arte, l’attività degli investitori istituzionali è da vedere positivamente in quanto si affianca a quella dei mercanti d’arte nel ruolo di incrementare la liquidità del mercato, oltre a rendere lo stesso più trasparente ed efficiente.

[1] Thomson D. (2009), Lo Squalo Da 12 Milioni Di Dollari: La Bizzarra E Sorprendente Economia Dell’arte Contemporanea, Milano, Mondadori

[2] F. Poli (2011), Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, Bari

[3] Thornton S. (2008), Il giro del mondo dell’arte in sette giorni, Feltrinelli, Milano.

[4] Se si analizza il comportamento sociale dei collezionisti alle fiere è interessante notare che essi si muovono come dei “banchi di sardine”: dove compra uno devono comprare gli altri. I galleristi più avveduti, tenendo a mente di questa loro tendenza, sanno che esporre il cartellino venduto per le opere un artista significa mettere una bella esca. Nel caso poi si inneschi una corsa all’acquisto, il gallerista riesce contemporaneamente a fare lauti guadagni e a lanciare l’artista. Thornton S. (2008), Op. Cit..

[5] Zorloni A. (2011), L’economia dell’arte contemporanea, Mercati, strategie e star system, Franco De Angeli, Milano

[6] Remotti M. (2008),”I premi che costruiscono la carriera di un artista”, in ArtEconomy, Il Sole24Ore, 2 febbraio 2008.

[7] Thornton S. (2008), Op. Cit..

[8] Nonostante questa contraddizione nelle arti performative, come ad esempio nel canto o nella danza, stiamo assistendo alla nascita di nuovi talenti per mezzo di competizioni come i talent show televisivi. In ambito letterario i premi sono presenti da parecchio tempo.

[9] A volte le fondazioni bancarie decidono di esporre le loro collezioni, come è ad esempio avvenuto con la recente creazione a Milano del polo museale Gallerie d’Italia – Piazza Scala, a cura del gruppo bancario Intesa San Paolo in partnership con la fondazione Cariplo.

[10] Horovitz N. (2011), Art of the Deal, Contemporary Art in a Global Financial Market, Princeton University Press, Princeton.

[11] Horovitz N. (2011), Op. Cit..

[12] Guenzi M. (2014), “Costi di transazione e efficienza del mercato dell’arte contemporanea”, in Economia e Diritto, n. 2, febbraio 2014.