Prometeo e Epimeteo
(di Nicola Sguera)
Craig Venter, scienziato che rappresenta bene la pericolosa commistione della tecnoscienza contemporanea con l’imprenditoria, ha annunziato di aver sintetizzato il primo batterio sintetico, «primo passo verso la creazione della vita artificiale».
Pensare il futuro è stato un compito affidato in passato a filosofi (penso a Francesco Bacone) o scrittori, nel Novecento, detti di “sci-fi”. Tra questi il maggiore è sicuramente quel Philip K. Dick, visionario saccheggiato da registi, che scrisse un racconto dal titolo apparentemente enigmatico: Gli androidi sognano pecore elettriche? da cui Ridley Scott trasse nel 1982 Blade Runner. Nel racconto e nel film si narra di un mondo le cui industrie producono serialmente androidi, in tutto e per tutto simili agli uomini, seppur potenziati, e addirittura capaci di provare sentimenti ed emozioni. Usati come strumento di piacere o di lavoro nelle colonie, alcuni di essi, ribellatisi, vengono eliminati dal “cacciatore di androidi”, che si innamora, però, proprio di un androide. L’opera si chiude con interrogativi filosofici senza risposta.
La scoperta di Venter è un altro passo, decisivo, verso il superamento di un limite invisibile che l’umanità dovrebbe imparare, invece, attraverso la pubblica discussione a riconoscere. Nelle epoche precedenti della storia umana il concetto di limite è stato fondante: si pensi all’idea di ὕβϱις (hybris) dei Greci, si pensi al «folle volle» condannato da Dante nella figura di Ulisse. Il limite è evidentemente mobile, e ogni civiltà ha il dovere di stabilirlo se non vuole perdere se stessa.
A me pare preoccupante che si possa delegare la solo tecnoscienza a normare quest’ambito. Günther Anders, nel suo capolavoro (L’uomo è antiquato) mi ha insegnato che, purtroppo, ciò che può essere fatto sarà fatto. Ovvero: la tecnoscienza, che non è solo l’ultima fase di sviluppo del sapere scientifico prodotto dall’umanità ma una ben precisa forma di “metafisica” (direbbe Heidegger), e dunque di comprensione (o incomprensione) dell’Essere, non ha, per statuto, limite. La sua essenza, al contrario, è il costante superamento di ogni limite. Tutto il XX secolo e il suo prosieguo mostrano questa incredibile tensione all’autosuperamento, spesso sganciata da bisogni reali (e penso in particolare alla corsa alla conquista dello spazio).
La creatura che si fa creatore, per altro, evoca alcuni miti moderni di straordinaria potenza, in primis quello dello scienziato Victor Frankenstein, immaginato in una notte buia e tempestosa dalla scrittrice Mary Shelley. La facile obiezione è che limitare la ricerca avrebbe impedito e impedirebbe il progresso dell’umanità. Bisognerebbe dimostrare, però, che di reale progresso di sia trattato (e non è scontato). Soprattutto esiste una posizione terza fra l’idolatria tecnoscientifica e il suo opposto, e cioè lo sforzo sempre rinnovato di statuire confini, fondati su bisogni umani discussi “politicamente, su ciò che l’uomo può e ciò che non può fare. La totale “anomia” in questo ambito può produrre disastri, evocati nel celebre racconto di Goethe sull’apprendista stregone, privando l’umanità della sua stessa umanità.
Come suggeriva Ivan Illich, dunque, appare quanto mai necessario affiancare all’uomo prometeico, quello che ha scoperto il fuoco ed elaborato oggi il primo batterio artificiale, l’uomo epimeteico, che mettendo al centro del proprio progetto non il dominio aumenti «la propria capacità di assistere, curare e aiutare gli altri, sapendo che “ognuno ha un mondo misterioso tutto suo / e in esso c’ è l’attimo più bello / e l’ora più angosciosa, / solo che noi non ne sappiamo niente». Epimeteo, dunque, sia il simbolo di un’umanità “del limite” di contro a Prometeo, per troppo tempo modello positivo di una ricerca affannosa e ottusamente inconsapevole dei rischi di disumanizzazione cui espone.