Transfer Pricing: Conflitto d’Interessi, Prezzi di Mercato e Prezzi di Equilibrio
(di Alessio Rombolotti)
I fenomeni di globalizzazione e concentrazione conferiscono sempre più rilevanza alle transazioni intragruppo, che assumono sempre più peso sulla ricchezza prodotta. Indipendentemente dalla questione fiscale vi sono importanti motivi, per gli economisti, per gli istituti di statistica e per i gruppi multi-business, di studiare e capire l’economia e la funzione del transfer pricing, a tale riguardo teoria e pratica non sono certo in accordo. Se ci chiediamo quale sia il “corretto” transfer price la prassi e i regolamenti ci dicono che è il prezzo corrente di mercato, ma se invece di definire “quale” sia il transfer price corretto cercassimo di definirlo in relazione alla “funzione” che svolge ?
Attualmente vi sono tre indirizzi di pensiero relativi alla definizione del “corretto” prezzo di trasferimento. Il primo sostiene che il prezzo applicato alle transazioni intragruppo debba essere pari al costo marginale del fornitore del bene o servizio, anche se è quasi impossibile che le condizioni poste dalla teoria economica si verifichino nella realtà, i.e. concorrenza perfetta.
Il secondo indirizzo sostiene che il transfer price debba essere negoziato fra le parti. In particolare esso stabilisce che la base del prezzo sia il costo marginale, al quale deve essere aggiunto il costo-opportunità di effettuare la transazione. Il costo-opportunità è rappresentato dal fatto che se un bene viene trasferito dalla consociata A alla consociata B, la consociata A perde l’opportunità di acquisire il margine derivante dalla vendita diretta sul mercato. La capacità produttiva libera, che le consociate fornitrici hanno in in dato momento, determina il costo-opportunità e quindi definisce il prezzo di trasferimento utilizzato. Seguendo questa logica è necessario che le parti coinvolte negozino fra loro per determinare il prezzo intercompany.
Il terzo indirizzo, quello adottato dai regolamenti internazionali e dalle amministrazioni finanziarie, dice che il prezzo intragruppo deve essere arm’s length, comunemente inteso come “prezzo corrente di mercato”, anche se in effetti le due nozioni non coincidono. Ovviamente questa definizione è vaga, di prezzi di mercato ce ne sono tanti così come ci sono svariati casi di imprese soggette a rettifiche dell’imponibile senza aver avuto nessun intento evasivo, che sono convinte, benchmark alla mano, di aver applicato alle transazioni intercompany i prezzi correnti di mercato.
Nessuno di questi indirizzi prende in considerazione la funzione che assolve il prezzo di trasferimento: l’allocazione del margine fra le diverse consociate del gruppo. Inoltre, se chiediamo che questa allocazione sia “corretta” dobbiamo evitare gli effetti “distorsivi” che i prezzi, anche quelli di mercato, possono avere sul reddito. Se siamo d’accordo che la contabilità interna serva ad allocare correttamente i profitti fra le diverse consociate del gruppo è immediato verificare che i prezzi di trasferimento utilizzati dalla contabilità interna e quelli utilizzati a scopo fiscale devono essere gli stessi, un transfer price che alloca correttamente il margine della transazione non pone un conflitto d’interessi. Quindi cerchiamo una definizione di prezzo intragruppo che rispetti la funzione che tale prezzo deve svolgere, questo vuol dire slegarci dalla contingenza del livello del prezzo corrente di mercato, infatti per diverse ragioni un prezzo di mercato potrebbe essere un fattore distorsivo di quello che potremmo chiamare “profitto normale”. Un esempio di effetto distorsivo l’abbiamo vissuto quando nel 2008/2009 il mercato delle mortgage-backed securities si congelò, né si comprava né si vendeva, e la Banca Centrale americana dovette intervenire comprando ad un ipotetico prezzo di mercato quei titoli che un mercato non avevano più. Molte istituzioni finanziarie americane erano in fallimento tecnico in quel periodo. Un altro esempio, meno vistoso, è offerto dall’ossido di titanio, i cui prezzi crebbero esponenzialmente per carenza di disponibilità del prodotto ed esempi di questo tipo sono talmente numerosi che non possiamo certo parlare di situazioni straordinarie. In definitiva, ogni volta che si verifica uno shock, anche di modesta intensità, sulla domanda o sull’offerta di un bene o un servizio, si attiva un fattore distorsivo del margine che a sua volta produce una sopra/sottovalutazione del profitto.
Ma qual’è il prezzo maggiormente adatto ad una corretta allocazione dei profitti ? E’ il prezzo di equilibrio del mercato in condizioni reali, ovvero non in regime di perfetta concorrenza. Pur essendo un’astrazione, il prezzo di equilibrio, o meglio l’intervallo in cui può variare tale prezzo, offre un punto di riferimento relativamente stabile. Ragioniamo sulla dinamica di mercato nei due casi in cui i prezzi correnti siano sopra o sotto il punto di equilibrio: se siamo sopra vuol dire che l’offerta è maggiore della domanda e quindi il movimento dei prezzi è in discesa. In questo scenario i prezzi di mercato producono una sopravvalutazione del margine, sopravvalutazione che diminuisce man mano che il prezzo scende e si avvicina al punto di equilibrio; quando invece siamo sotto il punto di equilibrio la domanda è maggiore dell’offerta e il movimento dei prezzi è in salita. In questo scenario i prezzi producono una sottovalutazione del margine, che si riduce di entità man mano che i prezzi salgono verso il punto di equilibrio.
Ovviamente la tesi che ho proposto deve e può essere supportata da un ragionamento rigoroso e comunque offre diversi spazi di critica, ma il mio intento era quello di portare l’attenzione del lettore su una definizione di transfer price che risolva il conflitto d’interessi e che permetta di mitigare il rischio fiscale.