La forma del consenso al trattamento sanitario alla luce della Legge 219/2017
L’annosa questione della modalità di manifestazione delle volontà terapeutiche da parte del paziente rappresenta senza dubbio uno dei terreni su cui si è più sviluppato il dibattito giuridico in tema di consenso alle cure. Sul punto, si è assistito ad un processo di evoluzione che ha determinato il passaggio dal principio della libertà della forma a quello della forma scritta e documentata. infatti, da quando si è affermato l’istituto del consenso informato alle cure e fino a pochi anni or sono, in attuazione del generale principio della libertà delle forme vigente nel nostro ordinamento, dottrina e Giurisprudenza sono stati concordi nel ritenere che il consenso potesse essere espresso e raccolto in qualsiasi modo, non essendo soggetto, in linea generale, a particolari requisiti formali, salvo normative speciali [1]. Insomma, si è per lungo tempo circoscritto l’obbligatorietà della forma scritta ad substantiam ai soli casi in cui la legge lo prevedesse espressamente: si tratta di ipotesi di trattamento per le quali il legislatore (tutt’oggi) richiede espressamente l’acquisizione della volontà del paziente per iscritto, e ciò in ragione della complessità e della delicatezza degli interventi in questione [2]. Perfino il Codice di Deontologia Medica più recente si è allineato a tale orientamento liberale, prevedendo infatti che il sanitario debba obbligatoriamente acquisire il consenso in forma scritta (o con altre modalità di pari efficacia documentale) soltanto nei casi previsti dall’ordinamento, dal CDM stesso [3], o laddove l’intervento sia prevedibilmente gravato da elevato rischio di mortalità o da esiti che incidano in modo rilevante sull’integrità psico-fisica (art. 35 CDM del 2014).
Tuttavia, a fronte di questo indirizzo che pareva essersi consolidato, negli ultimi anni si è registrato un cambio di prospettiva nel senso dell’obbligatorietà della forma scritta per l’acquisizione del consenso: dapprima con l’intervento della Giurisprudenza di legittimità, che in una serie di occasioni ha dichiarato l’opportunità che il consenso informato sia prestato per iscritto, disconoscendo quindi la validità del consenso in caso di acquisizione dello stesso con modalità improprie (alias solo oralmente e senza documentazione scritta) [4]; e, da ultimo, con l’intervento del legislatore, che ha stabilito espressamente che il consenso informato, pur potendo essere in prima battuta raccolto “nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente”, deve essere in seguito comunque “documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare” [5].
Oggi dunque sembra essere definitivamente tramontato il principio della libertà della forma con riferimento alla manifestazione delle volontà terapeutiche, richiedendosi ormai in via generale che queste siano registrate con apposita documentazione scritta. Tale soluzione, che potrebbe a prima vista apparire come un’indebita formalizzazione delle pratiche sanitarie e come un inutile irrigidimento dell’iter di determinazione delle cure, risulta essere in realtà coerente con la nostra esperienza giuridica, la quale è solita ravvisare nella forma scritta uno strumento di garanzia e di promozione del consenso: il nostro ordinamento infatti, manifesta spesso una predilezione per l’uso della scrittura proprio come mezzo di riequilibrio dell’asimmetria informativa che caratterizza i rapporti fra contraenti qualificati e non qualificati (si vedano le norme sulla trasparenza delle operazioni bancarie e finanziarie e il fenomeno della predisposizione delle clausole nei contratti fra professionisti e consumatori), cosicché in questi casi la forma viene in rilievo, non solo come elemento costitutivo, ma anche e soprattutto quale strumento di protezione della parte “debole” (è il c.d. formalismo di protezione): e questo è esattamente il caso del rapporto terapeutico, per natura caratterizzato da uno squilibrio conoscitivo tra le parti, non disponendo il paziente di tutte quelle conoscenze tecniche che gli consentano di decidere consapevolmente, invece possedute dal medico. Ecco perché, tra l’altro, è da ritenersi verosimilmente che, così come la prestazione del consenso deve essere scritta, devono esserlo anche le informazioni trasmesse, volendosi con ciò dire non che il processo informativo debba ridursi ad un mero processo documentale, ma semplicemente che, a seguito del necessario e imprescindibile momento dialogico tra medico e paziente, insomma della comunicazione delle informazioni in forma orale, le suddette informazioni debbano essere messe anche per iscritto, cosicché il paziente possa avere un ancora migliore contezza del proprio quadro terapeutico e delle soluzioni disponibili.
RIFERIMENTI
[1] Si riporta, ad esempio, la posizione espressa dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel 1992, secondo il quale il consenso scritto rappresenta esclusivamente un dovere morale (e non giuridico) del medico in tutti quei casi in cui le prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche, in ragione della loro natura (per il rischio che comportano, per la durata del trattamento, per la possibilità di opzioni alternative), sono tali da rendere opportuna una “manifestazione inequivoca e documentata della volontà del paziente” (CNB, Informazione e consenso all’atto medico, 1992).
[2] Si menzionano, a titolo di esempio e senza pretesa di completezza, alcune ipotesi di interventi in ordine ai quali la legge richiede l’espressione del consenso in forma scritta: donazione del rene tra persone viventi e trapianto parziale di fegato (legge 26 giugno 1967, n. 458, art. 2 e legge 16 dicembre 1999, n. 483, art. 1); prelievi di sangue per accertamenti sulla sieropositività (legge 5 giugno 1990, n. 135); prelievi ed innesti di cornea (legge 12 agosto 1993, n. 301, art. 1); procreazione medicalmente assistita (legge 19 febbraio 2004, n. 40, art. 6) etc.
[3] Il Codice di Deontologia Medica obbliga alla raccolta dell’adesione del paziente in forma scritta per alcune situazioni particolari, quali: la prescrizione di farmaci non ancora autorizzati al commercio o per dosaggi non previsti dalla scheda tecnica, se la loro efficacia è scientificamente fondata (art. 13); risoluzione del rapporto fiduciario e conseguente trasmissione della documentazione utile alla continuità delle cure al collega subentrante (art. 28); dichiarazioni anticipate di trattamento (art. 38); prelievo di organi, tessuti e cellule da vivente a scopo di trapianto (art. 41); interventi sul genoma umano (art. 45); indagini predittive (art. 46); sperimentazione umana (art. 48); interventi medici finalizzati al potenziamento delle fisiologiche capacità psico-fisiche dell’individuo, nonché esercizio di attività diagnostico-terapeutiche con finalità estetiche (art. 76).
[4] Si veda ad esempio, Cass. civ., sez. III, 11 dicembre 2013, n. 27751 e Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2015, n. 19212.
[5] Così dispone l’art. 1, comma 4 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 sul consenso informato.
BIBLIOGRAFIA
-Campobasso C.P. et al. (2019), Medicina legale. Per studenti e medici di medicina generale, a cura di E. Silingardi, Napoli, Idelson-Gnocchi, 41-44.
-Norelli G.A.-Buccelli C.-Fineschi V. (2013), Medicina legale e delle assicurazioni, II ed., Padova, Piccin, 32-38.
(A cura di Carmine Iacoviello)
Rivista scientifica digitale mensile (e-magazine) pubblicata in Legnano dal 2013 – Direttore: Claudio Melillo – Direttore Responsabile: Serena Giglio – Coordinatore: Pierpaolo Grignani – Responsabile di Redazione: Marco Schiariti
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