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Merito e meritocrazia, un dibattito secolare: tra la prospettazione distopica di Young e la visione utopica di Ferdinando IV di Borbone

Riconoscere, valutare e premiare il merito, scegliere i parametri per misurarlo in modo quanto più oggettivo e trasparente possibile, dovrebbe oramai esser chiaramente considerato “une affaire” tutt’altro che facile e men che meno vicino a soluzioni definitive o almeno a lungo termine.

Basti pensare che il tema è oggetto di studio e riflessioni da secoli da parte di autorevoli studiosi.

A tal riguardo, si condivide in dottrina che il termine “meritocrazia”, sia comparso per la prima volta tra le pagine dell’opera del sociologo britannico Michael Young (1915-2002): “The rise of the Meritocracy (1870-2033) del 1958, il quale, tra l’altro, scriveva: «Gli uomini, dopotutto, si distinguono non per l’uguaglianza ma per l’ineguaglianza delle loro doti. Se valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza o la loro efficienza, ma anche per il loro coraggio, per la fantasia, la sensibilità e la generosità, chi si sentirebbe più di sostenere che lo scienziato è superiore al facchino che ha ammirevoli qualità di padre, o che l’impiegato straordinariamente efficiente è superiore al camionista straordinariamente bravo a far crescere le rose?». Sottolineava, altresì, la differenza con il passato: «A quei tempi nessuna classe era omogenea dal punto di vista dell’intelligenza: i membri intelligenti delle classi superiori avevano tanto in comune con i membri intelligenti delle classi inferiori quanto ne avevano con i membri stupidi della propria classe. Ora che gli individui vengono classificati secondo l’intelligenza, la distanza tra le classi è diventata inevitabilmente maggiore. Da una parte, le classi superiori non sono più indebolite dai dubbi su se stesse e dall’autocritica. Oggi le persone in vita sanno che il successo è la giusta ricompensa della loro capacità, dei loro sforzi e delle loro innegabili conquiste. Esse meritano di appartenere a una classe superiore. Inoltre sanno non solo che il loro valore è alto in partenza, ma che sopra le loro doti naturali è stata costruita un’istruzione di prim’ordine»

L’illustre autore coniò il termine meritocrazia nel suo saggio/romanzo sull’educazione e l’uguaglianza (attribuendolo ad un immaginario sociologo del 2034, che morirà durante una rivolta di massa), all’insegna della distopia/anti-utopia[1], nel quale delinea una società futura degli anni ’30 del XXI secolo segnata dalla crisi del sistema educativo e sociale frutto delle leggi scolastiche adottate dalla fine dell’800 e della metà del ‘900 in Inghilterra, che ha acuito le divisioni di classe e che si punta a superare con una nuova struttura sociale, ecco perchè nasce, appunto, “L’avvento della meritocrazia”.

Così si immagina la classe sociale costituita dalle persone più intelligenti e più capaci, selezionati dalle scuole[2], e che guidano l’intera comunità. Quindi il merito, premiato con l’essere riconosciuti quale classe dirigente nec plus ultra, è legato al criterio tangibile dei test per la misurazione del Quoziente di intelligenza-QI[3] (che rilevano il potenziale di ciascun individuo), unitamente all’impegno, che si può riassume nel termine talento individuale. Infatti, c’è chi vede nella definizione di meritocrazia ideata da Young, un’equilibrata sintesi tra talento intellettuale e impegno sociale.

Ma ben presto anche questo sistema mostra il suo lato patologico: la classe sociale degli intelligenti si trasforma in una vera e propria oligarchia senza tanti scrupoli e nemmeno i valori morali e politici della soppiantata aristocrazia nobiliare. Ciò porta all’inasprimento dello scontento sociale, all’esasperazione e alla sommossa delle classi subalterne (a quella degli intelligenti, ritenuta la migliore possibile) che si sentono oppresse, ai margini del nuovo sistema sociale e, per ciò , escluse dalla desiderata ascesa sociale. Infatti, Young, a tal proposito, fa notare che “Anche le persone stupide possono dar vita a una progenie intelligente che dovrebbe avere la possibilità di salire sulla scala del successo di carriere modellate in gran parte dall’amministrazione dello Stato”.

Per come si sviluppa la narrazione, si ritiene che lo studioso abbia associato la meritocrazia ad una connotazione negativa della stessa[4], ma parte della letteratura ci tiene a perseverare nella visione general-positivista ed a valutare il libro come profetico, in quanto affronta il complesso e mai sopito problema dell’ambigua della meritocrazia, della posizione politica nei confronti di tale tematica e del riflesso delle loro decisioni sulla gestione della Pubblica Amministrazione, del pathos legato al merito e delle diseguaglianze scoiali, in Inghilterra come altrove, a quei tempi come in epoca successive.

Young parte dal declino dell’aristocrazia di nascita/nobiliare che si identifica con il potere, trasmesso per via di successione: “… la società era dominata dal nepotismo. Nel mondo agrario che prevalse per buona parte del XIX secolo, il rango veniva assegnato per nascita e non per merito. Classe per classe, posizione per posizione, occupazione per occupazione, i figli ricalcavano fedelmente le orme dei padri, come i padri avevano ricalcato fedelmente quelle dei nonni … Quasi sempre alle occupazioni si accedeva non per selezione ma secondo la regola della successione ereditaria”. A tale contesto vi contrappone coloro che hanno merito, esponenti di una c.d. aristocrazia dell’ingegno, ponendo in rilievo il rapporto tra le due strade per l’ascendenza socio-economica: la prima basata sul ceto, trasmesso per diritto di nascita, l’altra sull’esaltazione del talento individuale: “… non un’aristocrazia del sangue, non una plutocrazia di ricchi, ma una vera meritocrazia dell’ingegno”.

È questo uno dei passaggi più significativi della critica di Young, che potrebbe rappresentate un ottimo spunto per riflette sul concetto di merito/meritocrazia oggi, in questi anni molti vicini a quelli in cui si ambienta la visione futuristica e distopica di quel sociologo inglese che vive nel 2034 ed al quale presta la sua penna, per denunciare una società QI-centrica ed una preoccupante meritocrazia, schiacciata su un’élite risultato di test intellettivi e della selezione scolastica-educativa, come era stata riformata. L’aristocrazia elitaria, ed i relativi privilegi sociali e non solo, diventerà ben presto ereditaria e sorreggerà un nuovo regime in cui “la divisione tra le classi è diventata più netta, la posizione delle classi superiori più alta e quella delle classi inferiori più bassa”. Pertanto, i figli dei più intelligenti, anch’essi già avvantaggiati e ben avviati dalla nascita, saranno addestrati nelle scuole migliori (e non più unica), vivranno in un ambiente ricco di stimoli e manterranno la posizione socio-economica privilegiata. Infatti, Young scriveva nella sua citata opera: “I migliori di oggi partoriscono i migliori di domani in una misura che non ha precedenti nel passato. L’élite si avvia a diventare ereditaria; i principi dell’ereditarietà e del merito tendono a fondersi.” Or bene, per tutto ciò, da adulti tenderanno ad essere portatori di un QI, corrisponde a un certo percentile, mediamente più elevato di coloro che appartengono alle classi inferiori.

Dunque, parrebbe proprio che il merito, o meglio una società meritocratica, non funzioni.

Va però detto, che Young, ovviamente, esagera nel linguaggio satirico e nella narrazione in stile iperbolico, ciò perché nel suo romanzo descrive un’immaginaria società indesiderabile e spaventosa, simile a quelle raccontate da Aldous Huxley ne “Il mondo nuovo” e “L’isola” e da George Orwell in “1984“ e “La fattoria degli animali”, considerati capolavori del genere distopico.

Ma in verità, non è revocabile in dubbio, che il merito, quello che si evince da un operare efficace, efficiente e talentuoso, che rappresenta il risultato di esperienze lavorative pregresse le quali hanno prodotto arricchimento professionale e personale, non possa rappresentare quel criterio oggettivo accettato da tutti, così come lo potranno essere le differenti valutazioni dei singoli che dalla misurazione dello stesso ne discendono, se ciò avviene nella massima trasparenza e correttezza. D’altronde, per evitare la deriva temuta e prospettata da Young, le società democratiche c.d. mature hanno creato, nel tempo e non senza battaglie sociali, gli antidoti al dominio elitario dei ceti abbienti, uno su tutti è indicato nella nostra Carta Costituzionale all’art. 34, comma 3: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, che si estrinseca concretamente in tante istituzioni e sussidi che aiutano i soggetti in difficoltà a non essere costretti ad abbandonare le loro attitudini professionali ed ambizioni personali[5].

Va detto però, che oltre all’importante contributo di Young, il criterio del merito/meritocrazia, come pilastro oggettivo del meccanismo valutativo applicabile ai più svariati settori, improntato alla giustizia ed all’uguaglianza sociale, si fa risalire addirittura a Confucio (551-479 a.C.). Infatti, anche se principi del confucianesimo sono tali e tanti che rendono la relativa dottrina molto articolata, ma uno dei principi fondanti, introdotti dal più eminente maestro e influente filosofo della storia cinese, è proprio quello dell’eminenza basata esclusivamente sul merito.

Tant’è che in linea con la generale visione di Confucio, che si fondava sui principi di un’etica – sia individuale che sociale – improntata al senso di rettitudine e giustizia, all’armonia nelle relazioni sociali, cristallizzate secondo precise norme etiche e rituali tramandate dalla tradizione culturale dell’antichità, sono effettivamente le capacità e le abilità personali, acquisite nel tempo, e non i diritti/privilegi connessi all’essere nato in una famiglia benestante, a prospettare la buona riuscita di un uomo al comando. Il merito, sempre secondo Confucio, non può prescindere dall’apprendimento e dallo studio, che per secoli restò legato agli stessi testi confuciani. Infatti, ad eccezione di alcune cariche più elevate che erano una prerogativa dei componenti della famiglia imperiale, l’accesso ai ruoli dell’apparato burocratico dell’epoca si aveva solo per meriti.

Inoltre, sul merito si soffermò anche un altro antico e ben noto autore cinese, Han Feizi (280-233 a.C.), filosofo, intellettuale e studioso della vita politica del tempo, le cui idee sono raccolte nell’opera omonima composta da cinquantacinque capitoli, in cui è racchiuso il suo pensiero circa gli eterni problemi delle dinamiche politiche. Han Feizi si esprime, tra l’altro, sulla funzione politica del sovrano ed il rapporto con la legge, ritenendo quest’ultima la soluzione precipua ai problemi del primo, in quanto essa non ha dei sentimenti. Proprio nel mentre spiega tale rapporto, fa cenno al merito che deve guidare le scelte del sovrano, la cui neutralità è garantita dall’applicazione della legge generale ed astratta che, per ciò solo, si mostra priva di ogni individualità[6]. Infatti, anche Feizi afferma che riconoscimenti e punizioni si devono applicare esclusivamente per meriti oggettivi, facendo riferimento ad un regolamento insensibile rispetto a qualunque altra considerazione che non sia appunto quella meritocratica: “I sovrani intelligenti applicherebbero la legge e non i propri gusti personali per scegliere i loro sottoposti, tralasciando qualunque soggettività e utilizzando norme oggettive che chiariscano chi abbia acquistato meriti reali per il bene della Nazione”. E a tal ultimo proposito scriveva: “Chiarire leggi e statuti vietando l’apprendimento letterario e concentrarsi sui servizi meritori sopprimendo i vantaggi privati, sono benefici pubblici”. Ma anche Feizi si chiese quale metodo per valutare il merito, così che ideò il primo sistema di esami di servizio civile per i funzionari chiamati a far parte dell’apparato burocratico.

Altro autorevole riferimento alla meritocrazia si rinviene nel libro quinto dell’opera “Etica Nicomachea” di Aristotele (385-323 a.C.), nel quale il famoso filosofo greco richiama la nozione di merito all’interno della trattazione della dikaiosyne, la virtù della giustizia, ed in particolare, discettando di giustizia distributiva: “Il rapporto tra le cose deve essere lo stesso che quello tra le persone. Se queste, infatti, non sono uguali, non avranno cose uguali; ma le lotte e le recriminazioni è allora che sorgono: o quando persone uguali hanno o ricevono cose non uguali, o quando persone non uguali hanno o ricevono cose uguali. Questo risulta chiaro anche dal principio della distribuzione secondo il merito. Tutti, infatti, concordano che il giusto nelle distribuzioni deve essere conforme ad un certo merito, ma poi non tutti intendono il merito allo stesso modo”. Anche se Aristotele, discutendo delle cause della stasis (il conflitto civile) al principio del libro V della sua opera “La Politica”, riteneva che la “meritocrazia” alimenti un regime tendenzialmente oligarchico, perché conferisce autorità a chi già gode di un vantaggio. Concetto che ha recentemente ripreso il prof. Zamagni sulle pagine de “Il Corriere della sera”; egli scrive: “In buona sostanza, il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento – come Aristotele aveva chiaramente intravisto – verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano, alla lunga, alla eutanasia del principio democratico”[7].

Ma ci si vuole soffermare, da ultimo, sul merito quale parte importante della visione utopica[8] di società come delineata nell’illuminato statuto disciplinante la vita della popolazione del Real sito Borbonico di San Leucio (Caserta) risalente al 1773 e ricondotto direttamente ad un’idea, un progetto del Sovrano Ferdinando IV. San Leucio, sito borbonico nato come luogo di riposo e colonia di caccia reale (come l’altro Real sito di Carditello), nel 1789 (ed a seguito della morte del principe ereditario Carlo Tito ivi avvenuta nel 1778, che portò i reali a non volervi soggiornare più), fu da Ferdinando IV oggetto di un cambiamento radicale che lo portò all’ampliamento e alla trasformazione in reggia-filanda della costruzione del Belvedere, per poi costruire tutto intorno un grande sito di filande tessili, una vera e propria “città-industria”, da popolare di operai, dando anche leggi, regolamenti di lavoro e norme di vita[9].

Una vera rivoluzionaria istituzione socio-economica, una piccola Città-Stato, considerata uno dei primi tentativi di socialismo di stampo illuminista/utopistica, anche se lo spirito che mosse Ferdinando era il suo paternalismo regale e la volontà di diffondere l’uguaglianza tra gli uomini[10].

Tralasciando le norme dettate per regolare tutte le vicende della vita degli operai, dal matrimonio all’educazione dei figli, i tanti diritti riconosciuti ai coloni, come quello all’abitazione, al lavoro e all’istruzione gratuita, la libera scelta del coniuge (garantita dal Sovrano), ci soffermiamo su un aspetto distintivo del lavoro, a cui tutti gli uomini e le donne si dovevano dedicare con dignità al fine di non cadere nell’ozio[11], il merito e le relative disposizioni previste nello statuto/codice delle Leggi[12], composto di 5 capitoli e 24 brevi paragrafi, redatto dall’intellettuale Antonio Planelli[13], anche se il Re ne fu l’ideatore nonché coautore.

Al paragrafo II – Il solo merito forma distinzione tra gl’ individui di S. Leucio. Perfetta uguaglianza nel vestire. Assoluto divieto contra del lusso, del Cap. II – Doveri positivi – dei Doveri generali, del citato Statuto, si legge: “Essendo voi dunque tutti Artisti, la legge che Io v’impongo, è quella di una perfetta uguaglianza. So, che ogni uomo è portato a distinguersi dagli altri; e che questa uguaglianza sembra non potersi sperare in tempi così contrari alla semplicità, ed alla natura. Ma so pure, che vana e dannevole quella distinzione, che procede dal lusso, e dal fasto; e che la vera distinzione sia quella, che deriva dal merito”. Dunque, il merito quale unica base per distinguersi l’uno dall’altro, in quanto nella comunità si professa un’insolita parità dei sessi e uguaglianza sociale tra gli individui, come si legge nel libro scritto dallo stesso Ferdinando IV nel 1789 dal titolo “Origine della popolazione di S. Leucio e suoi progressi fino al giorno d’oggi colle leggi corrispondenti al buon governo di essa”.

E così si continua nel paragrafo VI – Leggi per la buona educazione de’ Figli del Cap. II – Doveri positivi – dei Doveri particolari: I prezzi del lavoro d’ogni manifattura saranno fissi; ma il giovine, o la fanciulla apprendente salirà per gradi, e come anderà perfezionandosi nell’arte, sino al prezzo, che godesi da’ migliori artisti, nazionale e forestieri. Pervenuti a questo stato, se avran talento da portar la di loro opera ad un altro grado di maggior bellezza, e perfezione, si terran de’ concorsi; e quello, o quella, di cui il lavoro sarà più bello, più esatto, e più perfetto, avrà per premio il distintivo di una Medaglia d’argento, ed in qualche caso anche d’oro, che potrà portare in petto; ed in Chiesa avrà la privativa di sedere per ordine di anzianità nel Banco, che sarà chiamato Del Merito, che sarà situato unicamente per i giovani di tal fatta alla parte sinistra dell’Altare”.

La creatura sociale Ferdinandea, innovativa, valorosa e contrassegnata dalla nobiltà degli intenti, di San Leucio, non fu mai pienamente realizzata, a causa, prima, dell’arrivo di Napoleone in Italia, poi della nascita della Repubblica Partenopea nel 1799, fino al completo abbandono del progetto con l’arrivo dei Savoia, che vendettero l’intero complesso a privati.

Ma ciò che qui interessa è sicuramente l’ardita quanto precorritrice previsione di una società basata sul lavoro, nella quale sono eliminate le discriminazione sociali e le disuguaglianze fondate sulla razza, sulle origini, sul ceto, proprio attraverso il riconoscimento e la valutazione dell’impegno nel lavoro e del connesso merito, ai tempi però legato più ad un riconoscibile e collettivo apprezzamento sociale (medaglia da portare sul petto, posto a sedere in Chiesa) che, come oggi, ad un premio che si riverbera positivamente su un reddito più alto.

In conclusione, appare indiscutibile, nonostante le funeste proiezioni di Young sulla società meritocratica dai risvolti allarmanti – tra l’altro, stando a quanto evidenziato, non così interpretate da tutti – una congrua valorizzazione del merito, inteso come abilità personale, comprovata professionalità e qualificata competenza, non può che portare ad una diffusione di maggior efficienza ed efficacia di ogni azione che se ne serve nonché, facendone estesa applicazione, ad una società, nel suo complesso, migliore e più performante in tutti i vari settori che la animano (sociale, amministrativo, politico).

Ma se è vero che attualmente si è propensi a riconoscere al termine meritocrazia un’accezione positiva, è pur vero che ancora oggi si cerca un “metodo meritocratico” da utilizzare per addivenire ad una consociazione, un sistema, basato esclusivamente sui meriti individuali, dopo esser passati per l’uguaglianza delle pari opportunità, rilevabili e quindi tracciabili.

Si comprendono, dunque, le motivazioni per cui se ne è parlato tanto e, di certo, se ne continuerà a parlare ancora e sempre di più. Ciò, in particolar modo, se il merito viene concepito come il mezzo e non il fine, se allo stesso viene riconosciuto quel ruolo di amplificatore del benessere collettivo, di miglioramento sociale e pubblico e non solo di soddisfazione privata ed individuale. Ma è stato, or dunque, nel passato difficile da osservare, delineare, realizzare e riconoscere e parrebbe esserlo ancora oggi[14], in contesti sociali, economici, politici, istituzionali, culturali ed amministrativi totalmente mutati, ed a distanza di millenni, dai primi pensatori che si avventurarono lungo gli impervi aspetti di ciò che da secoli si cerca di ammantare in un involucro di concretezza al quale parrebbe sottrarsi, per assurgere ad una funzione simbolica, agitatoria ed ideologica, da ostentare alle masse per dimostrare loro che vi è l’intenzione, quanto mai meritevole, di puntare tutto sul merito e la meritocrazia.

 

Riferimenti

  • L. IEVA, “Fondamenti di meritocrazia”, Europa Edizioni, Roma, 2018;
  • R. ABRAVANEL, “Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto”, Garzanti Libri, Milano, 2008.

[1] Distopìa: s. f. [comp. di dis- e (u)topia]. – Previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi, equivale quindi ad utopia negativa (Treccani.it/vocabolario).

[2] Scriveva Young nel suo libro: “Il successo di queste riforme fu reso possibile dalla sempre maggiore efficienza dei metodi di selezione […] Ma quanto più largamente si riconobbe che le scuole migliori dovevano essere riservate ai più intelligenti, tanto maggiore si fece la pressione sugli psicologici scolastici perché migliorassero le loro tecniche. Essi furono all’altezza.”

[3] La formula della meritocrazia, pensata da Michael D. Young, è: M=IQ+E. Dove “M” sta per merito, “IQ” sta per quoziente di intelligenza ed “E” sta per sforzo, l’impegno. Scriveva Young: “Oggi ogni membro della meritocrazia ha un QI minimo certificato di 125 (i posti più alti sono stati riservati agli psicologi, ai sociologi e ai segretari generali di ministero dopo l’istituzione, nel 2018, del premio Crawley-Jay per coloro il cui punteggio supera 160)”.

[4] Lo stesso Young pubblicò un articolo sul “The Guardian” (Down with meritocracy, Friday 29 June 2001), in cui chiedeva con fermezza al primo ministro inglese Tony Blair, che spesso richiamava il suo libro per pontificare le proprie riforme meritocratiche, a non utilizzarlo più, chiarendo, contestualmente, una volta per tutte, che il suo linguaggio ironico, un avvertimento e l’intento di denunciare i pericoli profondi della piega meritocratica alla quale si stava assistendo in Gran Bretagna nel 1958, se questa davvero avesse avuto seguito.

Anche altri leader politici sono caduti nella medesima tentazione di dare una lettura positiva al lavoro di Young. Così come in Italia vi è Roger Abravanel, che nella sua narrazione di meritocrazia come motore di sviluppo, continua ad utilizzare Michael Young come fautore della meritocrazia, dichiarando solo qualche passaggio ambiguo nella sua analisi.

[5] Un caso molto attuale è la previsione, in riferimento alla situazione scolastica emergenziale venutasi a creare a causa del COVID-19, nei primissimi provvedimenti adottati dal Governo di fondi per mettere a disposizione degli studenti meno abbienti, in comodato d’uso, dispositivi digitali individuali per la fruizione delle piattaforme e di strumenti digitali utili per l’apprendimento a distanza, o di potenziare quelli già in dotazione, nel rispetto dei criteri di accessibilità per le persone con disabilità.

[6] Han Feizi è considerato il massimo ed ultimo esponente della “scuola legista” (făjiā).

[7] Stefano Zamagni, Presidente della Pontificia Accademia di Scienze Sociali, su “Il corriere della sera” del 4.2.2020. Si può leggere l’articolo “Il merito? è frutto di talento e dell’impegno profuso” in versione integrale al seguente link: https://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2020/02/il-merito…-%C3%A8-frutto-di-talento-e-dellimpegno-profuso-s.-zamagni-cds.pdf

[8] Utopìa s. f. [dal nome fittizio di un paese ideale, coniato da Tommaso Moro nel suo famoso libro Libellus … de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia (1516), con le voci greche οὐ «non» e τόπος «luogo»; quindi «luogo che non esiste»]. – 1. Formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia) da Treccani.it/vocabolario.

[9] R. DE FUSCO e F. SBANDI, “Un centro comunitario del ‘700 in Campania” in “COMUNITA’” n. 86 1961, pp. 56/65.

[10] A tal fine, ideò un sistema mutualistico d’assistenza, oltre la “casa degli infermi”, che rientrava nelle dirette cure del Sovrano, esisteva un fondo assistenziale detto “cassa di carità” per il sostentamento degli inabili e dei vecchi.

[11] “Sarà cura dei sopraddetti Seniori ancora d’invigilare rigidamente sul costume degl’individui della Società, sull’assidua applicazione al lavoro, e sull’esatto adempimento del proprio dovere di ciascuno. E trovando, che in ess’alligni qualche scostumato, qualche ozioso, o sfaticato, dopo averlo due volte seriamente ammonito, ne passeranno a me l’avviso, acciò possa mandarsi o in casa di correzione, o espellersi dalla Società, secondo le circostanze”.

[12] In versione integrale al seguente link: http://www.sanleucionline.it/storia/codice3-corpo.htm#%C2%A7%20II%20-%20Il%20solo%20merito%20forma%20distinzione%20tra%20gl’%20individui%20di%20S.%20Leucio.%20Perfetta%20uguaglianza%20nel%20vestire.%20Assoluto%20divieto%20contra%20del%20lusso

[13] Per un approfondimento sulla sua figura, si rimanda al seguente link: http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-planelli_(Dizionario-Biografico)/

[14] Giusto per citare un altro dei tanti studiosi che hanno contribuito e ancora oggi alimentano la sterminata letteratura sul tema, si ricorda il filosofo statunitense John Bordley Rawls (1921 – 2002) che nelle sue opere: Una teoria della giustizia (1971) e Giustizia come equità, Saggi (1951-1969), afferma che non bisogna fare affidamento sul merito per una politica di giustizia sociale. Perché è difficile spiegare con precisione che cosa si debba intendere veramente e concretamente per merito, proprio perché appare impossibile stabilire con certezza il giusto rapporto tra capacità/abilità personali e condizioni sociali.

(A cura di Silvio Quinzone)


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