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La Costituzione e la sua attuazione

L’attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione, di tutte le Istituzioni, compresi Governo, Parlamento, Regioni e Giudici[1]. È necessario sgomberare il campo da una serie di fraintendimenti che ricorrono nel dibattito attuale. Trovo del tutto fuori bersaglio il richiamo allo stato di eccezione per descrivere i provvedimenti emanati per fronteggiare l’epidemia. In passato lo stato di eccezione ha forgiato la spada della repressione liberticida contro il cittadino, in visa dell’autoconservazione del potere costituito o della trasformazione autoritaria del sistema politico. Sarà ovvio ma ripetere aiuta: non è questa la ratio che ispira i provvedimenti messi in campo fino ad ora, finalizzati, in ultima istanza, a proteggere la persona e la comunità in cui vive. È la portata straordinaria e transitoria dell’emergenza a consentire forti limitazioni ai diritti fondamentali, a delineare la misura della legittimità delle misure adottate. In questo senso, la proporzionalità dei provvedimenti non va valutata in astratto ma in concreto, alla luce della particolare situazione di fatto che giustifica tale limitazione ( nel nostro caso: alla virulenza dell’epidemia, alla misura del contagio, alla tenuta del sistema sanitario, alla transitorietà dell’evento). Bisogna renderci conto che i provvedimenti adottati servono a mantenere inalterato il tessuto sociale ed economici della comunità in cui viviamo. Il concetto di libertà è molto ampio e comprende situazioni che vanno dalla compressione della libertà di circolazione, alla compressione alla libertà personale, alla compressione della libertà di culto, ecc… Tutte queste misure devono essere proporzionate, devono comportare il minor sacrificio per gli altri interessi in gioco, devono essere temporanee, protraendosi la loro durata nel tempo si incorrerebbe in una illegittimità.

La società ai tempi del Covid 19

L’epidemia di Coronavirus, come quella di peste, trova la società impreparata a gestirla. L’Epidemia da Coronavirus, come quella di peste,  ha compresso la nostra socialità, costringendoci a ridefinire  le modalità con cui facciamo esperienza dell’alterità.  Essa si configura come un fatto sociale totale[2], la cui portata può essere compresa solo nel tempo e tuttavia è già evidente il totale stravolgimento della nostra concezione di normalità. Le limitazioni ai diritti fondamentali sono state necessarie ma di fronte a beni come economia e società, intesa quest’ultima come relazionalità con l’altro, devono regredire progressivamente e nel tempo, man mano che la situazione si normalizza.  All’inizio della pandemia che ha segnato tanto tristemente la vita del mondo intero nell’anno appena chiuso, un fremito di speranza attraversò la vita di molti di noi. Di fronte a un disastro le cui proporzioni diventavano di giorno in giorno più terribili, ci si trovò a disperare magari di noi stessi, ma a sperare nella possibilità di un vero rinnovamento della vita italiana. Tanto inascoltabili sembravano improvvisamente diventate le uscite sguaiate e incompetenti, e non solo dei capifazione politici, ma di chiunque di noi avesse osato esprimere un parere sbrigativo anche in una cerchia di amici, senza cognizione vera di causa. Tanto acuto, anche se ancora oscuro, era il sentimento che aveva cominciato a insinuarsi in molti di noi, per la forza delle cose: il sentimento prezioso che nel gran rumore vitale e morale della democrazia un rinnovamento potesse venire alla vita di tutti dal toccare con mano, ormai, il valore della scienza e della conoscenza. Come fosse finalmente venuto il tempo, in un mondo che aveva troppo a lungo tollerato l’indifferenza al vero, di accogliere la conoscenza fra le virtù civili. E di farle finalmente il posto necessario: nella mente delle persone alla lunga, ma subito nelle governance del mondo.

Non soltanto per quanto riguardava la medicina e i medici, però. La sanità pubblica è certamente una condizione necessaria a una vita decente e sensata dei più, ma non è certo una condizione sufficiente: è un mezzo e non un fine. E tuttavia, quanto abbiamo dovuto approfondire la conoscenza dei mezzi in questo anno di altalena fra l’ondata della speranza o addirittura della spensieratezza e quella della disillusione, con il suo carico di discordia pubblica e di drammi privati, con l’avanzata spietata della povertà e delle disuguaglianze, e soprattutto con la cancellazione (quanto temporanea?) dei mestieri più fragili. Che sono i mestieri dei fini e non dei mezzi: i mestieri del senso, le arti precarie di ciò che sembra grazia più che necessità: dalle arti dei convivi a quelle dello svago e dei viaggi, della bellezza e della sua conservazione, dello spettacolo…  Abbiamo scoperto le colpe grandissime dei responsabili dei tagli nel finanziamento dei mezzi: abbiamo sofferto l’umiliazione della disfatta dove si credeva a torto di eccellere, la sanità pubblica ancora una volta, e l’accresciuto disagio per le debolezze di sempre – cattive amministrazioni, infrastrutture, trasporti.

Eppure abbiamo anche scoperto la grandiosità possibile di un mezzo che si è rivelato indispensabile alla sopravvivenza delle democrazie nel tempo globale: la cooperazione internazionale nella formazione delle decisioni che ci riguardano tutti. È in questo spirito che l’ex primo ministro britannico Gordon Brown invitò su The Guardian  i leader del mondo a creare una forma magari temporanea di governo globale, una task force che comprendesse capi di Stato ed  esperti: della salute, ma anche di tutti gli altri campi nei quali esistono organizzazioni internazionali. È in questo spirito anche che un’onda di speranza si è alzata in direzione del Parlamento e della Commissione europea – quando, a dispetto degli scettici e dei sovranisti, l’Unione Europea (UE) ha risposto alla crisi con una straordinaria svolta verso una più vera unione economica, una svolta di per sé necessaria una volta imboccata la via dell’unione monetaria, ma quanto a lungo ostacolata e rinviata, anche a prezzo di gravi storture nella relazione fra gli Stati membri. Con il recovery plan, l’Europa si è dotata di un vero bilancio pluriennale, ha riconosciuto l’importanza dei beni pubblici europei, ha stanziato risorse proprie per finanziarli, si è dotata della capacità di emettere titoli UE, di fare una politica economica europea per contrastare la recessione. Ecco un mezzo la cui esistenza rende più vicino un ideale radicato nella migliore eredità umanistica della nostra storia – una Res Publica sovranazionale, nata per cessione di sovranità particolari e non per il gioco delle potenze. Nata dalla libertà e non dalla guerra.

In effetti, la storia sembra insegnarci che ogni grande crisi suscita nell’umanità che la subisce imprevisti risvegli. C’è qualcosa di prezioso in ogni grande sconvolgimento, tanto più degno d’attenzione e di cura quanto alto è il prezzo pagato, la rovina, le morti subite. Così il tempo seguito alla Grande guerra vide una poderosa ondata di emancipazione femminile, promossa dal ruolo che le donne avevano saputo conquistare nella società durante la macelleria che coinvolgeva gli uomini. E il tempo dopo la Seconda guerra mondiale ha visto eventi spettacolari e rivoluzionari come l’incarnarsi della ragion pratica – l’eredità migliore della filosofia – nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la nascita delle organizzazioni internazionali e dell’Unione Europea, la costituzionalizzazione dei diritti umani, il welfare. Eppure questa ondata di speranza, per elevati che siano gli ideali che la suscitano, riguarda ancora i mezzi, non i fini della vita umana associata e civile. I fini, non li vediamo mai. Perché i fini non possono apparire se non alle vite personali, all’incrocio delle circostanze loro date e dei beni e dei mali che ciascuna ha incontrato – dei valori di cui ha fatto esperienza, e questo vuol dire, spesso, dei dolori sofferti, dei rimorsi e dei rimpianti, ma vuol dire anche delle passioni e delle vocazioni. Il senso e il valore delle grandi trasformazioni della civiltà umana sfuggono ai contemporanei. Pochissimi vedono l’insieme. Eppure molti immaginano e fanno. Il Regno dei Fini è fra le cose che nascono in solitari mattini, all’incrocio delle singole giovani vite col mondo: come una grandiosa costellazione, di cui ciascuno vede solo la sua minuscola stella. E non si realizza, imperfettamente e precariamente, che nel miracoloso convergere della creatività, dell’iniziativa, della spontaneità felice di ciascuno, che sono le figlie intellettuali e morali di una riconquistata libertà di tutti. Il filosofo la cerca invano, questa costellazione dei fini, e non trova che i cascami di sogni già sognati. Perché c’è una luce di conoscenza di cui il filosofo ha nostalgia infinita, ma che al suo pensiero non è dato che commentare quando s’è già spenta. È la luce di cui s’accende il sentire – quando la cognizione improvvisa del morire e di ciò che lo sovrasta rivela quello che importa, chiaro come il sole, eppure nuovo come il mattino della creazione. Pensate al cielo di Austerlitz, alto sopra gli occhi spalancati del principe Andrea ferito, supino a terra, nel cuore di Guerra e pace – in una delle sue pagine più celebri. Quando il principe Andrea rivive in milioni di occhi spalancati, si chiama apocalisse, che vuol dire rivelazione. Allora milioni di volontà deste si mettono all’opera e la civiltà rinasce dalle sue ceneri, per un’altra stagione ancora – imperfetta e precaria. Ma che diventerà indimenticabile.

Più che una conclusione, questa riflessione sostiene una sorta di laicissima preghiera. Che ogni ragazzo cresca in questi mesi e anni come un principe Andrea, che ogni ragazza impari il finito e l’infinito con gli occhi principeschi di Natascia. Molti non scoprirebbero sennò – e molti non scopriranno comunque – ciò che era in serbo per loro, solo per loro, fuori dalla scuola. È una preghiera rivolta a chi la scuola la fa, e a chi la governa. Fate che la scuola riprenda in presenza, certo, ma soprattutto, non dite mai più soltanto “promuoveremo tutti”. Non lo umiliate così, Il Regno dei Fini che forse sta nascendo in loro. Non lo avvilite sul nascere.

Ma dipenderà anche da noi, che di cultura e ricerca viviamo – e in primo luogo da tutti quelli che hanno voce pubblica, sui giornali, nelle università, nei teatri, sulla rete: di far crescere questa preghiera ragionata, ferma, pacifica e quotidiana, che si levi in tutte le case, in tutte le strade, contro l’umiliazione dello spirito, opposto, e quanto stupidamente, ai bisogni primari. Dipenderà da noi di alzare un coro altissimo, un coro simile a quello dell’aquila dantesca degli spiriti giusti (Paradiso XIX), che sono innumerevoli voci distinte, e parlano di sé come di un solo io: ed è questo il solo luogo in cui non fa paura questo noi che è un io, questa unità di un noi, in cui sembra davvero levarsi sui millenni il volo di quest’aquila, che fu la nostra lingua.

La questione delle fonti del diritto

In un Paese sospeso dalla pandemia, nel quale le giornate si susseguono tutte uguali, monopolizzate dalle notizie televisive sulla curva del contagio e cadenzate sul bollino del Covid, quasi un rituale traumaturgico, il rischio[3] che rimangano sospese molte questioni cruciali, che ci toccano da vicino, è tutt’altro che remoto. La prima questione che balza prepotentemente ad evidenza è l’impatto della crisi sanitaria sull’impianto delle fonti del diritto che hanno prodotto la limitazione di un grande numero di diritti.

Alcune domande nascono spontanee dall’osservazione del dato empirico:

In tempi di pandemia da Covid 19, in quale organo vanno collocati i poteri normativi?[4]

Cosa afferma la Costituzione sullo stato di emergenza?

Come possiamo giustificare la congerie di atti amministrativi di fonte secondaria (i DPCM) con cui sono stati derogati i diritti fondamentali?

Dall’inizio della emergenza nota a tutti, in molti si sono interrogati sul fatto che le misure poste in essere dal nostro esecutivo avessero o meno una rispondenza giuridico normativa, oppure fossero oggetto di liberalità dettate dal fronteggiare la tragicità di quel che accade. Abbiamo assistito ad un prolificare, senza eguali, di provvedimenti come i DPCM che si sono susseguiti in maniera non solo spasmodica ma spesso fortemente contraddittoria gli uni con gli altri.

Consapevoli della estrema difficoltà nel cercare di arginare il diffondersi dell’epidemia, gli operatori del diritto si sono posti, però, la domanda alla quale è estremamente importante dare riscontro. La pandemia ha davvero aggredito anche il diritto?

  • Si è ripetutamente parlato di diritti costituzionali, per così dire, sospesi accantonati, congelati nell’ottica del rispetto della tutela della salute complessiva. Ma è veramente così?

E’ bene, da subito, chiarire che la nostra Carta costituzionale NON prevede l’ipotesi dello stato di emergenza (a differenza delle altre) né tantomeno quella dello stato di eccezione ma esclusivamente quello dello stato di guerra che, ai sensi dell’art. 78, deve essere dichiarato dalle Camere le quali conferiscono al Governo i poteri necessari.

E’ una dimenticanza dei nostri Padri costituenti? La risposta non può che essere, ovviamente, NO. Motivatamente fu scelto di non inserire nella Carta[5] clausole di emergenza che potessero “aprire il varco” a pericolose lacerazioni in grado di comprimere i diritti delle persone.

È la legge ordinaria, e specificamente l’art. 24 del D.lgs n. 1 del 2018 –  Codice della Protezione Civile – che prevede che con delibera adottata dal Consiglio dei Ministri sia dichiarato lo stato di emergenza di rilievo nazionale, ne sia fissata la durata e l’estensione e  sia autorizzata l’emanazione di ordinanze di protezione civile, che trovano la propria disciplina nel  successivo art. 25.  L’attuale stato di emergenza trova, quindi, la declaratoria nel d.lgs. n. 1 del 2018 (Codice della protezione civile), che fa riferimento a «emergenze di rilievo nazionale[6] connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari» (art. 7).

Nonostante non sia regolata a livello costituzionale, dunque, l’emergenza è già inclusa nei gangli dell’ordinamento, che le riconosce – per così dire – un particolare status da disciplinare con strumenti giuridici puntualmente definiti (cfr., per le emergenze nazionali, gli art. 23 e ss. del d.lgs. n. 1 del 2018).

Non è un caso che, proprio sulla scorta di tale apparato normativo, il Consiglio dei Ministri abbia dichiarato lo stato di emergenza sin dal 31 gennaio 2020, affidando al Capo della protezione civile il compito di adottare ordinanze in deroga alla legge.

L’emergenza ha comunque, concretizzato fattispecie espressamente disciplinate dalla Costituzione:

  • Art. 32 Tutela della salute (valore che consente limitazioni di altre libertà)
  • Art. 14 (il domicilio è inviolabile, ma sono ammessi accertamenti e ispezioni per motivi di sanità)
  • Art. 16 (ogni cittadino può circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni imposte dalla legge “in via generale” per ragioni sanitarie)
  • Art. 17 (diritto di riunirsi dei cittadini)
  • Art. 41 (libertà di iniziativa economica)

A fronte di una così massiccia emissione di provvedimenti, nella loro massima capacità restrittiva delle libertà e dei diritti fondamentali, si pone la domanda se il Presidente del Consiglio fosse legittimato alla loro adozione o se la riserva di legge prevista dall’ art. 16 Cost. per la limitazione del diritto di libera circolazione e soggiorno non imponesse unicamente l’uso dello strumento legislativo ordinario, tenuto conto che il necessario bilanciamento tra valori costituzionali in conflitto costituisce valutazione propria del Parlamento nell’esercizio della funzione che l’ art. 70 gli affida.

Addirittura neanche l’uso dei decreti legge, pur corretto in quanto previsto in Costituzione proprio per far fronte a casi straordinari di necessità e d’ urgenza ed in quanto rende possibile il controllo preventivo del Presidente della Repubblica e quello successivo delle Camere e della Corte Costituzionale, appare uno schermo fragile per supportare misure così fortemente restrittive.

Si evoca da alcuni costituzionalisti il pericolo di eclissi delle libertà costituzionali; si osserva che in questa torsione dell’ordinamento anche la Costituzione nella sua integrità finisce per essere soggetta ad un bilanciamento con l’emergenza, in cui fatalmente è la Carta fondamentale a soccombere.

Come ricordava Cesare Mirabelli le istituzioni non vanno in quarantena e continuano a svolgere pienamente le loro funzioni. E se è vero che nessun diritto è più fondamentale del diritto di tutti alla vita e alla salute, è tuttavia altrettanto vero che la centralità del Parlamento non può essere dimenticata affidando il governo dell’emergenza alle quotidiane determinazioni del Capo del Governo e dei suoi esperti.

(A cura di Valerio Carlesimo)

Riferimenti

[1] Giustizia Insieme, “La pandemia aggredisce anche il diritto?”, 02/04/2020, Franco De Stefano

[2] www.treccani.it., “La pandemia e il Regno dei fini”, di Roberta de Monticelli

[3] Ggil, Camera del Commercio, Reggio Emilia, panemie tra ambiente diritto e società

[4] Osservatorio costituzionale, “Principio di legalità e stato di necessità al tempo del Covid”, 28/04/2020, Marina Calamo Specchia

[5]MaspGroup, Mal Comune: società e relazioni umane alla prova della pandemia, maggio 2, 2016.

[6] Altalex, “La settimana di Altalex: tra Covid e diritto”, 19/03/2021, Redazione


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