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Emergenza “Coronavirus”: non dimentichiamoci del “diritto alla disconnessione”

ABSTRACT

Il dilagare delle infezioni e la crisi delle strutture ospedaliere prodighe nel curarle ha bloccato lo Stato italiano. Sono state emesse misure “draconiane” con l’intento di ridurre al minimo i contagi ed evitare, così, il collasso non solo del sistema sanitario ma anche di quello economico, colpito anch’esso dagli effetti della pandemia. L’emergenza sanitaria ha dato l’opportunità di sperimentare in maniera diffusa varie forme di “lavoro agile” e di “smart working”, ossia, il lavoro svolto al di fuori delle sedi aziendali mediante l’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione. Tuttavia, queste nuove forme di lavoro presentano numerose insidie, legate al loro possibile uso distorto. Una di esse può essere risolta attraverso il c.d. “diritto alla disconnessione” su cui, in questo periodo, è opportuno svolgere qualche considerazione.

 

Premessa

Tornando agli albori, l’art. 1, comma 7, lett. a) del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (d’ora in poi, “D.P.C.M.”), sottoscritto l’11 marzo 2020 dal premier Conte, prevede che “sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza; […]”. Tale “clausola legislativa” sarà poi ribadita nei successivi provvedimenti emanati per far fronte all’emergenza “Coronavirus”, fino ad arrivare al recente D.P.C.M. del 26 aprile 2020, alle cui lett. gg) e ii) dell’art. 1 viene ribaditala medesima raccomandazione.

Si tratta del c.d. “lavoro agile” (anche detto “smart working”), ossia una modalità di organizzazione della prestazione lavorativa che prevede lo svolgimento della stessa al di fuori delle sedi aziendali (banalmente, ad esempio, presso la propria abitazione) mediante l’utilizzo di tecnologie che facilitino lo scambio di informazioni con i propri datori di lavoro ed i propri colleghi (si pensi a piattaforme, al di là dei servizi mail, quali Workplace, Microsoft Teams, Skype business, ecc.). Tale modalità di organizzazione risulta essere estremamente utile ed efficace in termini di produttività soprattutto nell’ambito del c.d. “lavoro ad obiettivi”, essendo il lavoratore libero di organizzare il proprio tempo nell’ottica di raggiungere lo scopo prefissato.

Questo meccanismo non è certamente applicabile a tutti i campi del lavoro; si sposa al meglio, a mio avviso, con quei soggetti (liberi professionisti e non) che operano presso studi professionali e che svolgono, pertanto, mansioni dal carattere intellettuale per cui è necessario, oltre all’incontro diretto con il Cliente, il solo utilizzo di un computer. Le mansioni prettamente pratiche e meno affini al digitale possono far ricorso allo “smart working” con maggiori difficoltà.

Procedendo, però, con ordine, di seguito, si analizza sinteticamente la fonte normativa del “lavoro agile”, ossia la L. 22 maggio 2017, n. 81.

 

Il “lavoro agile” nell’ordinamento italiano

L’art. 18, comma 1 della succitata L. 22 maggio 2017, n. 81, definisce il “lavoro agile” come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

Diversi elementi si desumono da tale definizione:

  • il “lavoro agile” è una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa per cui le parti possono adottarlo secondo le loro facoltà ed accordi seppur, attualmente, sia necessario sfruttarlo per le esigenze transitorie;
  • particolare enfasi viene posta sull’organizzazione per “fasi, cicli ed obiettivi” che rende meno gravosi i vincoli di orario o luogo di lavoro, essendo maggiormente rilevante il traguardo raggiunto e non le modalità utilizzate per tale fine;
  • l’utilizzo di strumenti tecnologici che, seppur indicato come “possibile” nella Legge, risulta componente essenziale per una corretta esecuzione da remoto della prestazione lavorativa, sia sotto il profilo della comunicazione sia sotto quello della vigilanza, di maggior rilievo nei rapporti di lavoro subordinati;
  • il rispetto dei “limiti di durata massima dell’orario di lavoro” che devono essere sempre tenuti in stretta considerazione seppur il lavoro sia svolto a distanza.

L’ultimo punto (4) apre una questione molto delicata nel settore del lavoro in generale ed ancor di più nel caso di “smart working”, ossia, il confine tra tempo di lavoro e tempo di riposo in cui un lavoratore ha completo diritto di “staccare” e divenire irreperibile.

Tale diritto, ravvisato già in passato nelle esperienze europee ed internazionali, è subentrato indirettamente nel nostro ordinamento sotto il nome di “diritto alla disconnessione”.

 

Il “diritto alla disconnessione” nello” smart working”

L’art. 19, comma 1 della L. 22 maggio 2017, n. 81 innanzi citata afferma che “[…] l’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro […]”.

La disposizione si riferisce all’accordo che deve intercorrere per lo sfruttamento del “lavoro agile”. Tale accordo deve prevedere i tempi di riposo e le “modalità di disconnessione” del lavoratore dagli strumenti tecnologici utilizzati per svolgere la prestazione da remoto.

In questo frangente si configura il concetto di “disconnessione” nell’ordinamento italiano seppur, analizzando la norma letteralmente, non venga esso configurato, a differenza dell’esperienza francese, come un vero e proprio diritto. Gli orientamenti a tale riguardo sono discordanti, tra chi la considera una norma imperativa efficace a 360 gradi e chi, invece, considera necessario e propedeutico l’intervento della contrattazione collettiva.

La ratio della norma risiede nell’irrigidire il confine tra vita lavorativa e personale, sempre più sfumato a causa delle tecnologie progressivamente implementate nel mondo professionale ed estremamente utili nelle loro funzioni.

Gli strumenti digitali lavorativi, da una parte, permettono di risparmiare tempo e di gestire più efficacemente gli incarichi ma, dall’altra, causano il fenomeno della c.d. “time porosity”, ossia, la sfumatura eccessiva del menzionato confine tra lavoro e free time. Il lavoratore, così, sia a causa di una eccessiva “doverizzazione”, sia per il timore delle conseguenze derivanti da una mancata risposta, rischia di divenire perennemente reperibile, accumulando una dose eccessiva di stress e ledendo la sua salute psico-fisica.

Ed invero, occorre anche riconoscere che queste distorsioni delle relazioni lavorative non sono una novità assoluta degli ultimi tempi. Esse, infatti, si ravvedono da anni in altri contesti, tradizionalmente legati ad elementi immateriali come, per esempio, quello delle professioni intellettuali.

Il “diritto alla disconnessione”, difatti, non essendo ancora stato definito dal Legislatore specificatamente, trova il suo fondamento in norme Costituzionali dal carattere generale.

In particolare, si tratta dei diritti alla salute ed alla vita privata, in aggiunta all’apparato di norme costituzionali riguardanti la tutela del lavoro.

Le lesioni di questi diritti avvengono spesso silenziosamente e senza la possibilità effettiva, per il lavoratore, di tutelarsi integralmente da ciò che, a lungo termine, può causare gravi danni.

Per tutte queste ragioni, assolutamente non trascurabili, è auspicabile, pertanto, un intervento rapido e incisivo del Legislatore in tale ambito, ormai ampiamente diffuso e destinato ad essere sempre più applicato nelle relazioni lavorative future.

In altri termini, l’istituto della “disconnessione” nell’ordinamento italiano realizza interessi costituzionali, gerarchicamente sovraordinati a qualsivoglia norma ed interesse emergente nell’ambito lavorativo e professionale.

 

Conclusioni

In questo momento di intenso “smart working” non bisogna perdere di vista i principi che regolano le relazioni lavorative, a prescindere dalle modalità con cui esse vengano impostate.

L’approccio, in primis, del Legislatore e, in secundis, degli stessi datori di lavoro/committenti deve essere quello della prevenzione da problematiche che potranno verificarsi in un futuro sempre più orientato a modelli 4.0..

Il concetto di flessibilità, giustamente associato al “lavoro agile”, non deve essere confuso con la possibilità di reperire i propri lavoratori in qualsiasi momento, in deroga ai principi che invece vengono rispettati nel lavoro “ordinario”.

Le norme ed i principi fondamentali fungono da minimo comune denominatore tra “lavoro agile” ed “ordinario”, con l’unica differenza, approvata esplicitamente dalle parti, riguardante le modalità e le caratteristiche della prestazione lavorativa svolta.

Tornando allo scenario odierno, dunque, è auspicabile che l’attuale periodo turbolento, che influenza tutte le nostre vite, serva a rafforzare anche questi aspetti, purtroppo ancora poco affrontati dal Legislatore ma fonte di problematiche per una buona parte della popolazione lavoratrice.

(A cura di Rocco Pietro Di Vizio)


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a cura del Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D. Via Padova, 5 – 20025 Legnano (MI) – C.F. 92044830153 – ISSN 2282-3964 Testata registrata presso il Tribunale di Milano al n. 92 del 26 marzo 2013
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