La tutela dell’identità culturale nel diritto internazionale: analisi normativa
La “definizione” di cultura nel diritto internazionale.
«La cultura è una delle due o tre parole più complicate delle lingua inglese», così si espresse nella sua opera Keywords: A Vocabulary of Culture and Society del 1976 il sociologo inglese Raymond Williams. Effettivamente nel contesto del diritto internazionale pare complesso ricavare una definizione univoca di “cultura”, dovendo piuttosto preferire, secondo la dottrina, un’enunciazione aperta e suscettibile di integrazione nel caso concreto.
Rilevante per l’oggetto d’indagine sono i numerosi strumenti di diritto internazionale adottati in sede UNESCO. Durante la prima conferenza internazionale sui diritti culturali della United Nation Educational, Scientific and Cultural Organization (UNESCO), la cultura viene presentata come modus vivendi e strumento di dialogo degli uomini: «la totalità dei modi in cui gli uomini creano progetti per vivere […] tutto ciò che consente all’uomo di essere operativo e attivo nel suo mondo ed in grado di usare sempre più liberamente tutte le differenti forme di espressione per comunicare con altri individui.»
Secondo autorevole dottrina questa dialettica consentirebbe alle persone di mantenere e perpetuare la vita: la cultura comprenderebbe tutto ciò che viene ereditato o trasmesso attraverso la società nella diversità dei suoi singoli elementi. Essa include: credenze, conoscenze, sentimenti, letteratura, lingua e ogni altro sistema simbolico atto ad essere veicolo di conoscenze pregresse.
È stato sottolineato che l’UNESCO, attraverso questa Conferenza, abbia iniziato a promuovere un concetto multi-comprensivo di cultura, intesa come il modo di vivere che esprime l’identità di un individuo o di un popolo; la cultura avrebbe inoltre un carattere “umano” e il ruolo che essa svolge rende possibile lo sviluppo dell’identità degli individui e dei gruppi sociali (concetto riscontrabile nella Dichiarazione UNESCO del 1970).
Quanto evidenziato è conforme poi, a quanto prescritto nella Raccomandazione sulla partecipazione delle persone alla vita culturale e il loro contributo ad essa (1976), nella Dichiarazione di Città del Messico sulle politiche culturali (1982), nella la Dichiarazione universale sulla diversità culturale (2001) e nella Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (2003).
La cultura dunque, si presenta come un vasto insieme di riferimenti, materiali e spirituali, che rappresentano e distinguono un gruppo di individui da un altro; come previsto a norma della Dichiarazione universale dell’UNESCO sulla diversità culturale del 2001: «La cultura deve essere considerata come l’insieme dei tratti distintivi spirituali e materiali, intellettuali e affettivi che caratterizzano una società o un gruppo sociale e include, oltre alle arti e alle lettere, modi di vita e di convivenza, sistemi di valori, tradizioni e credenze». In particolare, in questo strumento viene ribadito come il concetto di cultura assume un significato squisitamente antropologico che pone al centro l’individuo.
L’aspetto antropologico della cultura nel diritto internazionale, in particolare il General Comment n.21 del CESCR.
Il carattere antropologico è evidenziato non solo da numerosi documenti internazionali in materia, ma anche dal lavoro di prestigiose academic scholarships (come il gruppo di Friburgo) e dall’attività dagli human rights treaty bodies. A proposito di questi ultimi, ci si riferisce in particolare al General Comment n.21 del 2009 sul diritto all’identità culturale con riferimento al «right to take part in a cultural life» del Committee on Economic, Social and Cultural Rights (CESCR).
L’indagine CESCR sul diritto di prendere parte alla vita culturale si basa su due concetti fondamentali: il patrimonio culturale e la diversità culturale. Il Comment viene considerato dalla dottrina prevalente come “una pietra miliare” nella interpretazione, spesso statica, dei diritti culturali proponendo essa invece una nozione umanistica e identitaria della cultura. La nozione di cultura è definita nel paragrafo 13, secondo il quale la stessa comprende, tra l’altro: modi di vita, la lingua, la letteratura orale e scritta, la musica e il canto, forme di comunicazione anche non verbale , sistemi di religione o credo, riti e cerimonie, sport e giochi, metodi di produzione o di espressione tecnologica, ambienti naturali e artificiali, cibo, i costumi e le tradizioni attraverso cui gli individui, gruppi di individui e comunità esprimono la loro umanità e il senso che danno alla loro esistenza, nonché regole sul come costruire una visione del mondo che rappresenta l’incontro con le forze esterne che influenzano la vita dei singoli. La “definizione” di cultura fornita dal General Comment n.21, risulta caratterizzata da tre aspetti significativi. In primo luogo, si tratta di una definizione dinamica ed evolutiva: come chiaramente sottolineato dal Comitato, la cultura deve essere concepita come «un processo vivente» che grazie al contributo creativo della comunità internazionale, è passibile di una costante evoluzione e sviluppo. In secondo luogo, si tratta di una definizione ampia e onnicomprensiva: la cultura non si riduce ai suoi aspetti materialistici o esterni, ma comprende «tutte le manifestazioni dell’esistenza umana». In terzo luogo, il più importante, quella proposta è una nozione identitaria che sottolinea il ruolo fondamentale svolto dalla cultura per rendere possibile lo sviluppo dell’identità personale e viceversa: è un processo continuo e ambi direzionale.
Il Comitato in seguito, nel lavoro identifica una serie di diritti che discendono dalla definizione di cultura e dalla sua implicazione con l’identità: a) il diritto di scegliere liberamente la propria identità culturale, di appartenere o non appartenere a una comunità, e il diritto vedere rispettata questa scelta; b) il diritto di tutte le persone ad esprimere la propria identità culturale liberamente e di esercitare le proprie pratiche culturali e scegliendo il proprio stile di vita; c) il diritto di godere della libertà di opinione e la libertà di espressione nella lingua o nelle lingue che vengono scelte; d) il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee; e) il diritto di godere della libertà di creare, individualmente o in associazione con altri e divulgare all’interno del gruppo; f) il diritto di accedere al patrimonio culturale e linguistico e di altri gruppi; g) il diritto ad essere istruito in merito alla propria cultura d’origine; h) il diritto dei popoli indigeni, per la loro particolare condizione, di vedere protetta la propria cultura e patrimonio e mantenere il rapporto spirituale con le loro terre ancestrali e altre risorse naturali tradizionalmente possedute; i) il diritto di prendere parte liberamente in modo attivo e consapevole, e senza discriminazioni, in ogni importante processo decisionale che potrebbe avere un impatto sul modo di vivere del singolo.
L’apporto delle academic scholarships: la Dichiarazione di Friburgo.
La Dichiarazione di Friburgo sui diritti culturali viene redatta nel 2007 dal cosiddetto ‘Gruppo di Friburgo’, un gruppo di esperti affiliati all’Istituto interdisciplinare di etica e dei diritti dell’uomo (IIEDH) dell’omonima università svizzera. Questo documento definisce all’art.2b, l’identità culturale come: «[…] l’insieme dei riferimenti culturali con il quale una persona, da sola o in comune con gli altri, si definisce, si costituisce, comunica e intende essere riconosciuta nella sua dignità.»
I diritti culturali a norma di quanto indicato dalla Dichiarazione, devono essere definiti come diritti che consentono alle persone di accedere ai riferimenti culturali necessari per costruire ed esprimere la propria identità culturale. Viene cioè ribadita la nozione antropologica degli stessi.
Strutturalmente la Dichiarazione di Friburgo è composta da un preambolo di otto articoli “considerando” (tra giustificazioni, principi e definizioni, diritti culturali), seguito da quattro articoli riguardanti la realizzazione, per un totale complessivo di dodici articoli: dopo i primi due articoli, che definiscono i principi generali dello strumento, ci sono sei disposizioni che elencano i diritti culturali (articoli 3-8) e quattro disposizioni relative alla loro attuazione (articoli 9 -12). Sembra importante riflettere sull’articolo 3 relativo al diritto all’identità e al patrimonio culturale: «Ogni persona, sola o in comune, ha diritto: a. di scegliere e di vedere rispettata la propria identità culturale nella diversità dei suoi modi di espressione; questo diritto si esercita in particolare in relazione con la libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di opinione e di espressione; b. di conoscere e di vedere rispettata la propria cultura nonché le culture che, nelle loro diversità costituiscono il patrimonio comune dell’umanità; ciò implica in particolare il diritto alla conoscenza dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, valori essenziali di questo patrimonio; c. di accedere, in particolare attraverso l’esercizio dei diritti all’educazione e all’informazione, ai patrimoni culturali che costituiscono le espressioni delle diverse culture e delle risorse per le generazioni future».
Il diritto di scegliere e di far rispettare la propria identità culturale è indicato a norma dell’art. 3, lettera a) ed è la chiave di lettura dei diritti culturali stessi: formalizza il principio su cui si fonda l’intera Dichiarazione: il “diritto di scegliere i propri riferimenti culturali”. Le disposizioni successive assicurano: il diritto di identificarsi o meno con una o più comunità culturali (articolo 4), il diritto di accesso e di partecipare liberamente alla vita culturale (articolo 5), il diritto all’istruzione e alla formazione (articolo 6), il diritto alla comunicazione e informazione (articolo 7), e il diritto di partecipare allo sviluppo culturale della propria comunità e la cooperazione culturale (articolo 8). In conclusione, la definizione di cultura fornita dalla Dichiarazione di Friburgo, così come il General Comment n.21 del CESCR permette di superare il dualismo che caratterizza la nozione di diritti culturali abbracciato dai due Patti internazionali del 1966, laddove la dottrina prevalente in passato intravedeva nel Patto sui diritti civili e politici, diritti di natura “antropologica”; mentre nel Patto sui diritti economici, sociali e cultural, diritti di matrice “materialistica”.
La dimensione “materiale” e “umana” della cultura.
Pare opportuno evidenziare che storicamente il diritto internazionale ha orientato la tutela della cultura, alla dimensione materiale della stessa: ovvero attraverso la predisposizione di Convenzioni che “proteggessero” le opere monumentali, patrimonio artistico e beni culturali. Ci si riferisce innanzitutto alla Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato.
La stessa, guidata dai principi delle precedenti Convenzioni in materia (Convenzione dell’Aja del 1899 e il Patto di Washington dell’Aprile 1935) per la prima volta nel suo preambolo e dalla lettura combinata con l’art.1 (e le 3 categorie ivi evidenziate alle lettere a, b, c, del medesimo), esprimerebbe una precisa intenzione di voler considerare i beni culturali come un quid di appannaggio dell’intera umanità e non soltanto delle parti in conflitto. Su questa scia si inaugura, secondo rilevante dottrina, una dimensione umana della cultura e del patrimonio culturale nel diritto internazionale. Questo sarebbe testimoniato dai successivi Protocolli della Convenzione del 1954 e Regolamento attuativo, nonché dalla Convenzione UNESCO del 1972 sulla protezione del patrimonio culturale, naturale e mondiale.
La centralità dell’UNESCO nella promozione dei diritti culturali.
La Nascita dell’UNESCO affonda le sue radici nella communis voluntatem di alcuni ministri europei su spinta della Gran Bretagna, riunitisi per la prima volta a Londra nel 1942, in pieno secondo conflitto mondiale. L’esigenza era quella della creazione di un organismo che potesse promuovere e diffondere la cultura della pace e dell’uguaglianza fra gli uomini che prescindesse dall’appartenenza ad un gruppo sociale e culturale elitario. Ben presto questa necessità acquisì una dimensione globale e nell’ambito delle Conferenze del CAME (Conferenza dei Ministri dell’Educazione dei Paesi alleati contro il Nazismo) negli anni tra il 1942 e il 1945 venne redatto l’Atto Costitutivo dell’Unesco, firmato il 16 novembre 1945 ed entrato in vigore il 4 novembre del 1946 con la ratifica da parte di 20 Stati. Il preambolo della Costituzione del ’45 (e successive modifiche della Conferenza Generale) disvela immediatamente una serie di linee direttrici e punti cardine che verranno poi puntualmente declinati all’interno degli articoli della Convenzione stessa: «I Governi degli Stati membri della presente Convenzione, in nome del loro popoli, dichiarano: [omissis] che il grande e terribile conflitto testé terminato è stato generato dalla negazione dell’ideale democratico di dignità, d’eguaglianza e di rispetto della personalità umana e dalla volontà di sostituirgli, sfruttando l’ignoranza e i pregiudizi, il dogma delle diversità razziali ed umane».
La negazione dell’ideale democratico e di eguaglianza e lo sfruttamento del pregiudizio sono dunque, a norma della Convenzione, il motivo che ha dato vita agli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale: quando la diversità dell’“osservato” viene percepita dall’ “osservatore” come minaccia e non come valore particolare avente “pari diritto di esistenza” si innesca un meccanismo pericoloso che porta alle estreme conseguenze, come nella storia ha condotto alla strage di intere comunità.
L’uguaglianza formale e sostanziale (postulando l’eliminazione delle diversità razziali ed umane, e dunque più ampiamente di matrice culturale) e la centralità della personalità umana costituiscono nella Carta Unesco l’antecedente logico per la “politicizzazione” dei dogmi contenuti nella stessa.
È questo inoltre lo scopo principale delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale: ripudiare lo strumento della guerra, della forza e della violenza, che senza eccessive generalizzazioni deriva dal percepire sè stessi più “forti e meritevoli” da un punto di vista politico, economico, sociale e culturale.
L’analisi dettagliata dell’art. 1 della Convenzione indicante scopo e funzioni. Nel punto secondo disvela una serie di obblighi positivi in capo agli Stati contraenti con particolare enfasi nella lettera c del medesimo dove la frase «aiuto alla conservazione del sapere», seppur riferita ad opere materiali, è stata considerata da autorevole dottrina un primo cenno alla dimensione umana e plurale, della cultura che culminerà nella Dichiarazione Universale dell’Unesco sulla diversità culturale del 2001.
In occasione del ventesimo anniversario della propria istituzione l’UNESCO il 4 novembre 1966 adotta una Dichiarazione dei principi della cooperazione culturale internazionale, in seno alla Conferenza generale dell’UNESCO il 4 novembre 1966. All’art. 1 viene riconosciuto che ogni cultura ha una dignità e un valore che devono essere preservati e si sostiene il rispetto della dignità e del valore di ogni cultura e del diritto di ogni popolo di sviluppare la propria cultura, affermando che tutte le culture senza distinzione sono parte del patrimonio comune dell’umanità.
Agli artt. 5 e 6 viene sancito il dovere di ogni popolo e nazione di adoperarsi nell’orizzonte di una cooperazione culturale che promuova l’arricchimento delle varie culture, mantenendo il rispetto per il carattere distintivo di ognuna di esse. L’art. 7 esprime la necessità che la cooperazione interculturale favorisca la formazione di un clima di amicizia, con conseguente statuizione all’art. 10 dell’importanza rivestita dall’educazione delle nuove generazioni, che a tal proposito è ribadito debba avvenire in uno spirito di amicizia, comprensione internazionale e pace. Da ultimo come articolo di chiusura, l’art.11 sancisce che i principi della dichiarazione sono applicati tenendo conto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Due anni dopo, nel dicembre 1962, viene adottato nella medesima sede UNESCO un Protocollo istitutivo, entrato poi in vigore nel 1968, della Commissione di conciliazione avente il compito di raggiungere una soluzione relativa a qualsiasi controversia che possa insorgere tra Stati parti alla Convenzione.
Nel 1998 si tenne a Stoccolma la Conferenza intergovernativa sulle politiche culturali per lo sviluppo, con lo scopo principale di tradurre in pratica le idee e i principi contenute nell’elaborato rapporto della Commissione dello stesso anno. Vi parteciparono circa 2500 persone fra esponenti governativi, leader culturali, artisti, intellettuali, studiosi e professionisti dei mass-media.
La Conferenza ha adottato il 2 aprile 1998 il Piano d’Azione sulle politiche culturali per lo sviluppo.
I progetti dell’UNESCO nel campo del dialogo interculturale sono riconducibili a due filoni rispettivamente intitolati: ‘Strade del dialogo interculturale’, ‘Convergenza spirituale e ‘dialogo interculturale’. Ognuno di questi progetti è definito da una serie di attività e di prodotti (seminari, incontri, spedizioni scientifiche, esposizioni artistiche, pubblicazioni divulgative, documentari) che hanno lo scopo di sensibilizzare sugli argomenti affrontati e di stimolare la condivisione delle esperienze vissute.
Di seguito sono illustrati alcuni fra i principali progetti:
- “Vie della seta” (1988). Progetto interculturale avviato con l’obiettivo di far conoscere come nel passato le rotte utilizzate per scopi commerciali tra l’Europa e l’Asia costituirono anche mezzo per la diffusione di idee, valori, cultura e conoscenza. Gli arricchimenti e i progressi tecnologici che ne derivarono favorirono lo sviluppo delle civiltà. Il progetto ha l’obbiettivo di analizzare storicamente il vissuto di quelle zone, riscontrando gli elementi comuni che contraddistinguono le identità dei popoli protagonisti di questi eventi.
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“Vie del ferro in Africa” (1995). Progetto che intende sottolineare l’importanza dell’area geopolitica africana prestando particolare attenzione al dato economico, sociale e culturale del ferro nelle società africane dall’epoca precoloniale ai giorni nostri. L’indagine viene condotta in maniera analitica partendo dall’esame della tradizione, della modernità e del recente sviluppo del continente africano seppur con le diversificazioni fra l’area meridionale e settentrionale. Il progetto si inserisce nel Decennio Mondiale per lo sviluppo culturale proclamato dalle Nazioni Unite.
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“Dialogo interculturale Oriente-Occidente nell’Asia Centrale” (1997). Un progetto interculturale adottato dalla Conferenza Generale dell’UNESCO attuato ad opera dalla Divisione del dialogo interculturale con l’obiettivo di fare chiarezza sui concetti di patrimonio comune e identità culturale plurale che sono emersi durante a fase implementativa del progetto “Vie della seta”’. In questo progetto l’UNESCO fornisce assistenza operativa a istituti per gli studi interculturali in Uzbekistan, Mongolia e Cina sui temi della civilizzazione nomade e dei caravanserragli. Tale progetto si ricollega all’idea del turismo interculturale che l’UNESCO intende valorizzare per rafforzare il dialogo tra culture e civiltà diverse nell’ottica della promozione della multiculturalità e interculturalità.
L’UNESCO ha inoltre creato nella sua ottica di promozione della diversità culturale e nella preservazione del valore stesso che la cultura riveste nella nostra società, una serie di cattedre universitarie ad honorem in centri universitari con radicata esperienza in materia e con ricercatori specializzati nella storia delle religioni e impegnati nel dialogo tra le fedi. Questa rete culturale ha l’obbiettivo di favorire la mobilità studentesca per promuovere un’educazione di stampo interculturale.
Dal 1999 sono state create otto cattedre in Università d’eccellenza, cui fanno riferimento altrettante materie tutte differenziate fra loro; il primo forum mondiale delle cattedre Unesco si è svolto a Parigi dal 13 al 15 novembre 2002.
La Convenzione UNESCO sulla protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali del 2005.
Trattando del ruolo chiave rivestito dall’UNESCO nell’ambito della promozione e protezione della culturale e diritti culturali annessi, particolare rilievo assumono la Dichiarazione universale sulla diversità culturale e la Convenzione sulla protezione e la promozione delle espressioni culturali. L’ultima in particolare, riecheggiando quanto già sancito dall’UNESCO nel suo Trattato istitutivo, dedica un lungo preambolo alla diversità culturale che, in quanto colonna portante e valore comune dell’intera umanità, assume un ruolo fondamentale laddove la sua salvaguardia e tutela è necessaria per il benefico di tutti. È la stessa diversità culturale che crea «un mondo prospero ed eterogeno in grado di moltiplicare le scelte possibili» La Convenzione oggi, anticipata temporalmente dalla Dichiarazione Universale sulla diversità culturale, rappresenta lo strumento internazionale più completo sia da un punto di vista sistematico sia da un punto di vista contenutistico per quanto riguarda il grande tema della multiculturalità e tutela della cultura.
La Dichiarazione del 2001 al contempo contribuisce alla chiarificazione del legame indissolubile tra i concetti di cultura, diritti culturali, identità culturale, diversità e pluralismo culturale; concetti la cui implementazione costituisce nell’epoca contemporanea una delle migliori premesse per la costruzione della pace e della sicurezza internazionale.
Concentrata in pochi articoli, con particolare rilievo al 3 e al 4, si sancisce la difesa della diversità culturale come imperativo etico inscindibile dal rispetto della dignità della persona umana. Essa implica l’impegno a rispettare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, in particolare i diritti delle minoranze e dei popoli autoctoni. Nessuno può invocare la diversità culturale per minacciare i diritti dell’uomo garantiti dal diritto internazionale e né per limitarne la portata.
Gli artt. 6 e 7 della Dichiarazione si concentrano sulla libertà di circolazione delle idee attraverso forme di aggregazione di ogni tipo che siano a tutti accessibili nell’ottica di un mutuo riconoscimento e di una pari opportunità nell’ottica bilatere del conoscere e farsi conoscere. In questa direzione si coglie uno sviluppo progressivo laddove si evidenzia che seppur ogni creazione ed ogni espressione della nostra diversità culturale affonda le proprie radici nella tradizione, essa si sviluppa a contatto con altre culture, in ottica di trasmissione alle generazioni future del patrimonio di ieri e di oggi: in questa ottica la multiculturalità prevede anche un’accezione di contaminazione.
A norma dell’art.9 il ruolo delle politiche culturali dovrebbe essere quello di catalizzatore e amplificatore di quanto sopra espresso, poiché spetterebbe a ciascuno Stato nel rispetto degli obblighi internazionali definire una propria politica culturale che miri al progresso della creatività.
Per quanto attiene alla Convenzione del 2005, emerge dai lunghi “considerando” del preambolo che la Convenzione sulla protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali del 2005 va a dettare una serie di norme di principio, che possono essere sviluppate in un tavolo di lavoro comune quale quello della collaborazione a livello internazionale in una comune presa di coscienza da parte delle degli Stati contraenti.
Il documento, dopo aver all’art.1 sancito gli scopi principali in chiave di promozione e protezione dei diritti culturali nascenti dalle enunciazioni contenute, e dopo aver delineato all’art. 2 ben otto principi ispiratori, dedica l’art.4, sezione 3 della Convenzione alle ‘definizioni’. Immediatamente si coglie l’importanza assunta dalle stesse che per la prima volta vengono descritte dettagliatamente come declinazioni del concetto di cultura; concetto questo che potrebbe in virtù della sua ampiezza definitoria, costituire un vulnus in sede di trasposizione degli obblighi assunti in sede pattizia o in ambito giurisdizionale internazionale. Vengono definite dunque in ordine: la diversità culturale, il contenuto culturale, le espressioni culturali, le attività beni e servizi culturali, le industrie culturali, le politiche e le misure culturali, la protezione e l’interculturalità. In particolare, per diversità culturale ed espressioni culturali si intende: «Diversità culturale rimanda alla moltitudine di forme mediante cui le culture dei gruppi e delle società si esprimono. Queste espressioni culturali vengono tramandate all’interno dei gruppi e delle società e diffuse tra di loro. La diversità culturale non è riflessa unicamente nelle varie forme mediante cui il patrimonio culturale dell’umanità viene espresso, arricchito e trasmesso grazie alla varietà delle espressioni culturali, ma anche attraverso modi distinti di creazione artistica, di produzione, di diffusione, di distribuzione e di apprezzamento delle espressioni culturali, indipendentemente dalle tecnologie e dagli strumenti impiegati.» «Per espressioni culturali s’intendono le espressioni a contenuto culturale che derivano dalla creatività degli individui, dei gruppi e delle società»
Alla sezione 4 sono dedicati i diritti e gli obblighi dei Contraenti; in particolare all’art. 6, sono individuate misure a carattere generico da rispettarsi in capo agli Stati. Il paragrafo 2 (lettere a-g) individua misure volte alla promozione e tutela della diversità culturale, declinata in diversi ambiti della vita sociale, sia inerenti all’alfabetizzazione stessa della diversità, sia alla predisposizione di aiuti finanziari pubblici e l’incoraggiamento all’istituzione di organismi senza scopo di lucro per la promozione e il libero scambio delle idee. In ultima istanza alla lettera h viene rilevato il ruolo dei media come mezzo di diffusione e come strumento di promozione della diversità.
Specifica attenzione è dedicata poi alle comunità e culture più deboli o emarginate. Secondo quanto emerge dall’invito rivolto agli Stati affinché adottino in concreto misure di promozione e protezione delle espressioni culturali che prendano in considerazione le particolari necessità ed esigenze delle donne e dei diversi gruppi sociali, incluse le persone appartenenti a minoranze e ai popoli indigeni (art. 7).
Successivamente viene richiesta la collaborazione in ottica solidale dei Paesi più ricchi verso le espressioni culturali di comunità situate in Stati ancora in via di sviluppo, art. 14 e 16. Proprio l’art.14 introduce per la prima volta in uno strumento internazionale vincolante l’idea di sviluppo sostenibile (la cui nozione è ancora oggi dibattuta in dottrina) ancorato al concetto di cultura ed ai Paesi in via di sviluppo. A norma del citato articolo le Parti contraenti cooperando in un orizzonte solidale comune debbono consolidare proprio in quei Paesi le industrie culturali creando e rafforzando le capacità di distribuzione e promozione culturale, agevolando l’accesso al mercato mondiale, richiedendo ai Paesi sviluppati di adottare misure adeguate a tale scopo. Questa associazione si ritiene particolarmente rilevante poiché vi è la presa di coscienza che la diversità culturale, intesa più volte negli strumenti analizzati e in particolare in seno all’UNESCO come patrimonio globale, e la situazione in cui versano determinate aree del mondo, siano necessariamente collegate: la necessità di tutela del diritto all’identità culturale si manifesta laddove vi sono scarsi strumenti di promozione, ma ancor prima di conservazione e sostentamento.
L’identità culturale del singolo quanto della collettività facente parte della minoranza è minacciata e necessita di un puntuale sostegno che nella Convenzione, nella sua intenzione letterale, vuole imprimere, auspicando che i Firmatari attuino le prescrizioni comportanti gli obblighi positivi ivi contenuti. La Convenzione infatti, non si limita a individuare principi, definizioni, norme programmatiche e obblighi di facere ma prevede: l’istituzione di organi ad hoc, la creazione di un fondo specializzato e una serie di meccanismi per la risoluzione delle controversie seppure in ambito di procedure di carattere non giurisdizionale o vincolante.
In procedendo viene istituto un Fondo per la diversità culturale a norma dell’art.18 2’comma, composto dai capitali depositati conformemente al Regolamento finanziario UNESCO.
Il Fondo internazionale per la diversità culturale (IFCD) è un fondo multi-donatore il cui scopo è promuovere lo sviluppo sostenibile e la riduzione della povertà nei paesi in via di sviluppo che sono parti della Convenzione del 2005. Questo viene fatto in prima istanza tramite il sostegno a progetti che mirano a favorire la nascita di settori culturali dinamici, privilegiando attività che facilitano l’introduzione e / o l’elaborazione di politiche e strategie che proteggono e promuovono la diversità delle espressioni culturali, con il conseguente rafforzamento delle infrastrutture istituzionali.
L’IFCD è utilizzato in particolare per promuovere la cooperazione sud-sud e nord-sud, contribuendo al raggiungimento di risultati concreti e sostenibili nonché di impatti strutturali nel campo culturale. Dal 2010 ad oggi, l’IFCD ha fornito finanziamenti per oltre 7 milioni di dollari per quasi 100 progetti in oltre 50 paesi in via di sviluppo andando a valorizzare le politiche culturali statutali e la capacità di imprenditori e industrie locali per la creazione di nuovi modelli di business per l’industria culturale.
L’art 22 istituisce invece la Conferenza delle Parti contraenti quale organo plenario e supremo della Convenzione, con obbligo di riunione cadenzata ogni due anni nel quadro della Conferenza generale dell’UNESCO, potendosi inoltre riunire in seduta straordinaria se deciso o domandato dal nuovo istituito Comitato intergovernativo (per la promozione della diversità delle espressioni culturali) di cui per l’art.23, potrà riunirsi se richiesto da un terzo delle Parti contraenti.
Le funzioni della Conferenza delle Parti contraenti di cui al comma 3 dell’art.22 consistono: nell’elezione dei membri del Comitato intergovernativo e nella ricezione ed esame dei rapporti delle Parti contraenti della presente Convenzione trasmessi dal Comitato intergovernativo; nell’approvare le direttive operazionali elaborate su sua richiesta dal Comitato intergovernativo; nel prendere qualsiasi altra misura che ritiene necessaria per promuovere gli obbiettivi della presente Convenzione.
L’art. 23 istituisce quindi il Comitato intergovernativo. Esso è composto da rappresentanti dei Paesi che hanno aderito alla Convenzione ed è eletto per quattro anni dalla Conferenza delle Parti contraenti nel momento di entrata in vigore Convenzione conformemente all’art.29 (oggi chiaramente in vigore). Il Comitato intergovernativo, che si riunisce una volta all’anno, funziona sotto l’autorità della Conferenza delle Parti contraenti, conformemente alle sue direttive, e gli rende conto del suo operato.
Le funzioni del Comitato intergovernativo sono: la promozione degli obiettivi della presente Convenzione; preparare e sottoporre all’approvazione della Conferenza delle Parti contraenti, su sua richiesta, direttive operazionali riguardanti l’attuazione e l’applicazione delle disposizioni della Convenzione; trasmettere alla Conferenza delle Parti contraenti i rapporti delle Parti, corredati dalle sue osservazioni e da un riassunto del loro contenuto e fare raccomandazioni appropriate riguardo alle situazioni denunciate dai membri contraenti (comma 6, lettere a-f).
Infine l’allegato alla Convenzione prevede una procedura di conciliazione: la Commissione di conciliazione viene istituita dietro richiesta di una delle Parti contraenti e salvo che le Parti contraenti non decidano diversamente, la Commissione si compone di cinque membri, due nominati da ciascuna Parte interessata e un presidente selezionato di comune accordo da tali membri. La Commissione di conciliazione adotta le sue decisioni alla maggioranza dei voti espressi dai suoi membri. Essa determina la sua procedura, a meno che le Parti alla controversia non decidano diversamente di comune accordo. Essa formula una proposta per la risoluzione della controversia che le Parti contraenti esamineranno in buona fede; nel caso di disaccordi riguardanti la competenza della Commissione di conciliazione, spetta alla Commissione stessa decidere in merito.
L’art. 27 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite come “norma incubatrice” del diritto all’identità culturale.
Il riconoscimento del diritto all’identità culturale come primo tra i diritti culturali, secondo autorevole dottrina, è da riscontrarsi inoltre nell’ 27 del Patto Internazionale sui diritti Civili e Politici del 1966. Viene dato qui un impulso significativo all’individuazione di un diritto all’identità culturale delle componenti di formazioni sociali minoritarie costituendo la prima disposizione a livello mondiale dotata di forza cogente per la tutela delle minoranze.
L’articolo in questione riconosce alle persone facenti parte di minoranze, un vero e proprio diritto di godere di una serie di prerogative “proprie” del gruppo di riferimento quali la cultura la lingua e la religione.
Dalla lettura della norma si evince, secondo alcuni autori, una duplice dimensione del diritto in questione sia individuale del singolo associato, sia del gruppo in quanto tale coerentemente con la teoria generale dei diritti umani, per cui gli stessi possono essere goduti sia in forma singola che collettiva, quali ad esempio tra gli altri: il diritto alle libertà di pensiero, di culto, di informazione e di espressione. L’art. 27 nella sua formulazione esprime un modus operandi che gli Stati debbono tenere di tipo omissivo (un contegno e un obbligo generico di non ingerenza), pur lasciando certamente intravedere un moderno diritto all’identità culturale, linguistica e religiosa.
Essendo di fronte ad uno strumento pattizio che può essere considerato come universalmente sottoscritto, è opportuno soffermarsi per comprendere la portata della norma, sulla peculiarità degli obblighi stabiliti dai trattati sui diritti umani: in primis tali trattati non si prefiggono la protezione di diritti ed interessi statali, ma diritti e libertà spettanti agli individui o a gruppi di essi, a prescindere dalla loro appartenenza o meno ad un determinato Stato essendo riconosciuti nel loro nucleo anche a soggetti apolidi. Trattati sui diritti umani hanno poi un carattere oggettivo in disaccordo al tipico rapporto sinallagmatico fra trattati multilaterali: la violazione di una norma del trattato non fa nascere in nessun altro Stato contraente il diritto di invocare la sospensione o l’estinzione dello stesso a norma della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969. In terzo luogo, di riflesso a quanto sopra esposto, le regole pattizie sui diritti umani prevedono non di rado obblighi erga omnes partes: gli obblighi assunti da uno Stato contraente sono assunti nei confronti di tutti gli altri i quali, salvo eccezioni, non possono reagire alla violazione delle regole pattizie.
La norma in questione ha assunto ed assume valore di rilievo all’interno del contesto internazionale e internazionale in ordine alla copiosa attività del Comitato sul rispetto del Patto sui diritti Civili e Politici e al riferimento fatto alla stessa da parte di Corti nazionali e internazionali di integrazione regionale, chiamate a valutare l’esistenza di particolari diritti in capo alle minoranze o alle popolazioni indigene. A tal riguardo possono citarsi in ambito “giurisdizionale” del Comitato, che si ricorda non essere uno strumento vincolante per la risoluzione delle controversie individuo-Stato, i leading cases Sandra Lovelace v. Canada, Hopu and Bessert v. France e Länsman et al. v. Finland.
Per quanto riguarda l’ambito Nazionale invece, le cui sentenze sono state emesse in virtù degli ampi riferimenti all’art.27 del Patto sui diritti civili e politici, possono citarsi i casi McIvor v. Canada, Calder et al. v. British Columbia, Ecuador v. Arco Oriente e Santa Clara Pueblo v. Martinez.
Da ultimo, in ambito di sistemi di risoluzione vincolante delle controversie in ambito di integrazione regionale, ruolo preminente è da attribuirsi al sistema interamericano: esempi ne sono il caso Awas Tigni Community v. Nicaragua e il caso Maya Indigenous community of Toledo District v. Belize.
(A cura di Matteo Bassetti)
Bibliografia
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