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Le assunzioni presso le PA: tra limiti di spesa, esternalizzazioni ed internalizzazioni di servizi

Premessa: la povertà da lavoro.

In data 12 luglio 2021 il Presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha presentato la “Relazione annuale 2021 ”, in cui si dà conto dell’attività assicurata dall’Istituto nell’anno 2020. La relazione espone il quadro delle esigenze previdenziali ed assistenziali a cui è stata data risposta e della misura delle stesse,  con riferimento ad un esercizio che è stato caratterizzato dagli effetti della pandemia da covid-19, indicando gli strumenti di sostegno al reddito che il Paese, attraverso l’Inps, è riuscito a mettere in campo per mitigare gli effetti negativi derivanti dalla chiusura dei settori produttivi non essenziali e dalle misure di restringimento alla circolazione delle persone.

Rinviando alla lettura integrale del documento per le interessanti informazioni che vengono riportate, qui si vuole soffermarsi sulla segnalazione dell’aumento della presenza di “poveri da lavoro”, identificati come coloro che hanno un lavoro che nell’anno ha consentito di guadagnare meno del 60% del reddito mediano, passando dal 26% del 1990 al 32,4% nel 2017. Questo è infatti quanto emerge dai dati riportati nell’allegato al Rapporto, che contiene una sintesi delle ricerche effettuate all’interno del programma Visitinps, come spiega lo stesso Presidente. Viene evidenziato anche l’aumento del lavoro atipico e del lavoro precario e sottopagato (che comporta, tra l’altro, l’incremento della spesa assistenziale), nell’ambito di un mercato del lavoro caratterizzato da maggiore flessibilità, per effetto delle riforme degli ultimi decenni, anche se, come ammette il Presidente, non si hanno informazioni quantitative precise e sistematiche sulla consistenza del fenomeno.  A ciò si deve aggiungere la persistenza del lavoro nero, che viene quantificato in oltre tre milioni di lavoratori, le cui retribuzioni vengono sottratte alla contribuzione previdenziale e fiscale, e una cifra ancor più alta di inattivi. Trattandosi di problematiche che interessano maggiormente il Sud del paese, viene evidenziata la necessita di ivi concentrare maggiormente investimenti e politiche pubbliche, tra cui la ripresa delle assunzioni nel pubblico impiego.

 

Lo Stato come Datore di lavoro

Lo Stato, inteso in senso lato come amministrazioni centrali e locali, fino a circa 30 anni fa, assicurava ogni settore della propria attività attraverso personale assunto dall’ente stesso, ma poi anch’esso si è adeguato alle  logiche di mercato ricercando soluzioni di minore costo del lavoro e di maggiore efficienza. Si è così iniziato ad esternalizzare una parte sempre più consistente delle attività, in un primo momento quelle collaterali, conformandosi all’indicazione generale delle teorie della crescita aziendale circa la necessita di concentrarsi sulle attività principali, il c.d.  core business, ma poi l’esternalizzazione ha cominciato a riguardare anche i servizi pubblici oggetto della mission aziendale.

A ciò devono aggiungersi le politiche di riduzione della spesa pubblica, che hanno visto nel numero dei dipendenti pubblici una delle prime cause della crescita della stessa.

 

Le leggi di limitazione della spesa per personale dipendente

Le restrizioni alle assunzioni si può affermare trovino la propria genesi nella  legge 24 dicembre 1993, n. 537, che all’art. 3, comma 5, fece obbligo a tutte le pubbliche amministrazioni  di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (che poi sarebbe stato assorbito nell’attuale decreto legislativo sul pubblico impiego 30 marzo 2001, n.165), di procedere alla rideterminazione delle dotazioni organiche, in base alla verifica dei carichi di lavoro, stabilendo  provvisoriamente la loro consistenza nel personale assunto al 31.08.1993 e a quello per cui erano state avviate le procedure concorsuali; la norma inoltre limitava, sino al 31.12.1996,  la sostituzione del personale cessato  con nuove assunzioni nella misura del 10% .

Questa legge Finanziaria riflette il momento di particolare turbolenza economico-politica del nostro paese: a partire da febbraio del 1992 erano state avviate le inchieste giudiziarie che avrebbero interessato i vertici dei maggiori partiti, dal P.s.i. alla D.c. e altre forze politiche, l’attentato del 23 maggio dello stesso anno che portò alla morte del Giudice Falcone, di sua moglie e della scorta, seguito il 19 luglio da quello che costò la vita al Giudice Borsellino e alla sua scorta. La situazione economico-finanziaria del Paese era disastrosa, tanto che nella seconda metà del ‘ 92 ci fu la svalutazione della lira e a seguire l’uscita dallo SME (Serpente Monetario Europeo).

Il livello del debito pubblico, in continua crescita dall’inizio degli anni ’80, nel ’90 si attestava sul 95,2%, nel ‘92 era salito al 105,5% e nel ‘93 avrebbe raggiunto quota 115,7%. L’allarme sul livello di debito pubblico incominciò a salire in vista dell’incontro di Maastricht nel ’92, in quanto c’era il rischio di venire esclusi dal processo di unificazione monetaria in corso.

In questa situazione di debito elevato la legge finanziaria del ’93 fu un’altra via, ulteriore all’ampio ricorso alle privatizzazioni di banche ed enti pubblici e successiva vendita, attraverso la quale si doveva tagliare la spesa pubblica.

Le misure di rigore furono ulteriormente inasprite con la legge 23 dicembre 1996, n. 662, che, con l’art. 1, c.45 e ss.  dispose il divieto di procedere a qualsiasi tipo di assunzione con la sola esclusione delle categorie protette, sino al 31.12.1997.  Il divieto doveva riguardare tutte le pubbliche amministrazioni ma nei commi successivi si ritrovano tutta una serie di esclusioni, dagli enti del SSN, Università, Regioni, Province autonome, a certe condizioni gli Enti Locali, le Forze Armate, ecc. Per gli enti interessati dal divieto, veniva altresì stabilito che per gli anni 1998 e 1999 avrebbero potuto procedere a nuove assunzioni nel limite del 10% dei posti disponibili. Si ribadiva l’onere di provvedere alla rideterminazione delle dotazioni organiche, secondo le indicazioni contenute nella legge 24 dicembre 1993 n. 537, art. 3 comma 5 e, in assenza, si stabiliva che esse dovevano considerarsi provvisoriamente corrispondenti ai posti coperti al 31.08.1996 e a quelli per i quali erano state avviate le procedure concorsuali alla stessa data.

Con la legge 27 dicembre 1997, n. 449, all’art.  art 39,  c.2,  si parla esplicitamente di obiettivo di riduzione complessiva del personale in servizio, stabilendosi che, per le  amministrazioni  dello  Stato,  anche  ad  ordinamento autonomo, fatto salvo  quanto previsto per il  personale della scuola dall’articolo 40, per il 1998 tale obiettivo doveva essere   in misura non  inferiore all’1%  rispetto al 31 dicembre 1997, mentre per l’anno 1999  doveva prodursi una ulteriore riduzione non inferiore allo  0,5% rispetto al  numero delle  unità in  servizio al  31.12.1998. I commi 19 e 20 estendevano i principi sulla riduzione delle spese di personale alle Regioni, province autonome di Trento e di Bolzano, enti locali, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, enti Servizio sanitario nazionale, Università, ed enti di ricerca, enti pubblici non economici, mentre per il personale della scuola l’art. 40 disponeva entro la fine del 1999 una riduzione del 3% rispetto a quello rilevato alla fine dell’anno 1997

Da allora in poi, tutte le successive leggi finanziarie conterranno disposizioni volte a produrre ulteriori riduzioni del personale.

La legge  28/12/2001,  n° 448, si caratterizza per il fatto che ,  all’art. 19,   dispone   per l’anno 2002 un divieto generalizzato di effettuare assunzioni a tempo indeterminato, valevole per tutte le pubbliche amministrazioni, salvi gli enti locali se rispettosi del piano di stabilita interno per l’anno 2001, con esclusione del comparto scuola, del personale della carriera diplomatica, del personale della magistratura e di quello dell’avvocatura dello Stato; venivano consentite limitate eccezioni per situazioni particolari ivi specificate. La norma disponeva poi, che per ciascuno   degli   anni   2003 e 2004, le amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo, le agenzie e gli enti pubblici non economici con organico superiore a 200 unità dovevano realizzare una riduzione di personale non inferiore all’1 per cento rispetto a quello in servizio al 31 dicembre 2002, con indicazioni particolari per le Forze armate e i Corpi di polizia nonché per il Corpo nazionale dei vigili del fuoco.

 

La precarizzazione del personale

Questi divieti finiscono per incentivare il ricorso a forme di lavoro flessibili, in particolare Co.co.co e  contratti di lavoro a tempo determinato, che generano un ampio fenomeno di precariato  e, inevitabilmente, a seguire, forti pressioni sul sistema politico per interventi di stabilizzazione, per le aspettative createsi soprattutto a causa del susseguirsi di proroghe e rinnovi di questi contratti,  in uno  con l’esigenza di poter godere di sanatorie che evitino di fare tutta la trafila del pubblico concorso. D’altra parte, è a dire che in molte situazioni anche le Pubbliche amministrazioni avevano interesse a mantenere questi collaboratori ormai inseriti nell’organizzazione da anni e che magari avevano anche dato buona prova di sé, incentivati dal fatto di essere precari, con ciò confermando l’osservazione che la sicurezza del posto è uno dei mali maggiori di una sana gestione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni.

E’ da notare altresì, che il sopracitato art. 19 della legge 448/2001, al comma 7   introduceva una sanzione di nullità stabilendo che le  assunzioni effettuate in violazione delle disposizioni dell’articolo 19  erano nulle di diritto,  e il comma 8 faceva  carico, a  decorrere  dall’anno 2002, agli organi di revisione contabile degli  enti  locali di accertare la rispondenza dei documenti di programmazione del fabbisogno di personale  al rispetto del principio di riduzione  complessiva della spesa  e che eventuali deroghe a tale principio fossero  analiticamente motivate.

Queste disposizioni rendono evidente che le riduzioni programmate negli anni precedenti non erano state rispettate, quantomeno non in modo generalizzato, come si vedrà più avanti, o non nella misura fissata.

Con la legge 27 dicembre 2006, n. 296, vi è una limitata riapertura alle assunzioni a tempo indeterminato collegate alle cessazioni verificatisi nell’anno precedente (comma 523), mentre nel contempo si avvia (comma 526) in grande stile la politica delle stabilizzazioni, conseguenza di  tutti  gli anni di divieto di assunzione di personale a tempo indeterminato, che avevano prodotto una quota considerevole di lavoratori precari, stabilendosi che in aggiunta  le  amministrazioni  potevano procedere, per certe quote di spesa riferita alle cessazioni dell’anno precedente, alla stabilizzazione del  rapporto  di lavoro del personale, in possesso dei requisiti  ivi specificati  (comma  519). Inoltre, si consentiva (comma 528) di attuare la conversione in   rapporti di lavoro a tempo indeterminato dei contratti di formazione e lavoro, rinviata ancora per effetto della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e da allora prorogati di anno in anno, ovvero in essere alla data del 30 settembre 2006, nel limite dei posti disponibili in organico. Anche per le collaborazioni coordinate e continuative si avviano processi di conversione, stabilendosi (comma 529) la riserva di una quota delle assunzioni a tempo determinato, a favore dei soggetti con i quali sono stati stipulati uno o più dei suddetti contratti, per la durata complessiva di almeno un anno raggiunta alla data del 29 settembre 2006.

Anche alle autonomie regionali e locali è riconosciuta (comma 558) la possibilità di procedere, nei limiti dei posti disponibili in organico, alla stabilizzazione del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni.

Analoga politica di stabilizzazione viene avviata per gli enti del Servizio sanitario nazionale (comma 565), riconoscendo la possibilità di trasformare le posizioni di lavoro già ricoperte da personale precario in posizioni di lavoro dipendente a   tempo indeterminato.  

 

Effetti delle politiche di restrizioni alle assunzioni

Il perdurare sino ad oggi di vincoli alle assunzioni, ha comportato non solo la contrazione degli organici, ma i corollari ben più negativi dell’innalzamento dell’età media dei pubblici dipendenti e la parziale inadeguatezza a far fronte alle sfide derivanti dall’innovazione tecnologica e della globalizzazione.

Anche la Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo, nella relazione sul costo del lavoro pubblico 2020, pubblicata nel luglio 2020, evidenzia che, nel 2018, si è registrata una flessione nel numero di unità impiegate, rispetto al 2010, pari a 2,7 punti percentuali (circa 91.000 unità in meno). Quanto al profilo anagrafico, si è registrato un incremento progressivo dell’età media, posto che nel 2018 l’età media risultava superiore ai 50 anni, mentre nel 2001 corrispondeva a 43,5. Anche la qualità dei rapporti di lavoro è peggiorata, come dimostra il dato del lavoro flessibile che, a fine 2018, contava circa 118.000 unità annue. Sotto il profilo finanziario, il costo del lavoro dipendente nel 2018 si è attestato su un valore complessivo pari a 165,9 miliardi (comprendenti anche il personale con lavoro flessibile per 4,2 miliardi). L’aggregato di spesa, riporta la Corte dei conti, continua a mantenersi su un livello inferiore a quello del 2010 (-4,7 miliardi), con una contrazione del 2.8 per cento.

Degna di nota l’osservazione che la  contrazione  non si è verificata in modo uniforme nell’ambito della Pubblica amministrazione, in quanto nelle amministrazioni locali  il numero di dipendenti impiegati è diminuito costantemente sino al 2019, mentre presso le Amministrazioni centrali è aumentato: nel 2010 i dipendenti pubblici corrispondevano a circa 3.400.0,000, di cui 1.900.000 presso le Amministrazioni centrali e 1.500.000 presso quelle locali, nel 2018 il totale corrispondeva a circa 3.200.000 dipendenti, di cui 1.900.000 presso le amministrazioni centrali e  1.300.000 presso quelle locali.

Sempre dalla relazione della Corte dei conti si rileva che anche il confronto con gli occupati nel settore privato evidenzia un calo dei lavoratori del settore pubblico, sceso tra il 2010 e il 2017 dell’1,2% (nel 2010 il pubblico assorbiva il 15,6% dei lavoratori dipendenti, nel 2017 questo valore risulta sceso al 14,4%).

A livello europeo, evidenzia la Corte, la spesa per i dipendenti pubblici si è contratta di 9 punti percentuali (di cui 7 in zona euro) e l’Italia ha mantenuto un andamento flettente in linea con questo dato (-9%). A livello di spesa pro-capite, emerge che nella media europea vi è stato un aumento, rilevabile nella maggior parte dei paesi, mentre in Italia, Grecia e Portogallo,  detta spesa si è ridotta.

Anche nel Piano di ripresa e resilienza (PNRR), in  tema di riforma della Pubblica Amministrazione, si evidenzia che il blocco del turnover dell’ultimo decennio ha generato una  significativa riduzione del numero dei dipendenti pubblici in Italia, inferiore alla media OCSE ((13,4 per cento dell’occupazione totale, contro il 17,7 per cento della media OCSE, secondo i dati del 2017), che ha comportato un lento e parziale ricambio generazionale, ad eccezione del comparto scuola, per cui Il 16,3 per cento del totale dei dipendenti pubblici ha più di 60 anni, mentre soltanto il 4,2 per cento ne ha meno di 30. L’invecchiamento dei dipendenti pubblici avrebbe contribuito a determinare un crescente disallineamento rispetto alle competenze richieste dal nuovo modello economico e produttivo disegnato per le nuove generazioni (digitale, ecologico, inclusivo).

 

Le esternalizzazioni di servizi

Le logiche di riduzione della spesa, oltre ad altre considerazioni legate alla rigidità della gestione delle risorse umane, ingessata tra il constante confronto con le organizzazioni sindacali  e   una giungla di diritti e prerogative spesso abusati più che goduti, hanno favorito politiche di esternalizzazione dei servizi, inizialmente quelli  più lontani dal core business delle singole Pubbliche Amministrazioni, con la promessa, non sempre realizzata,  di erogazioni di servizi pubblici più efficaci, efficienti nonché economici.

Già la legge 7 agosto 1990, n.241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”, si apriva stabilendo, all’art. 1, comma 1, che “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza…”.

Incentivi all’attuazione delle esternalizzazioni si ritrovano nella legge finanziaria 2002, legge 28.12.2001, n. 448 (finanziaria 2002) agli artt. 24, 29, 32.

Con l’art. 24, comma 8, si fa carico alle Province, comuni, comunità montane, consorzi di enti locali, di promuovere le  esternalizzazioni dei servizi “… al fine di realizzare economie di spesa e migliorare l’efficienza gestionale.”

La spinta alla ricerca prioritaria della economicità è chiaramente esplicitata dall’art. 29, con il quale si autorizzano, in via generale,  tutte le pubbliche amministrazioni e gli enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del bilancio dello Stato, ad acquistare sul mercato servizi già prodotti al proprio interno, se più conveniente, e a costituire, sempre allo stesso scopo, soggetti di  diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di propri servizi o ad affidarli comunque a privati, attraverso gara pubblica o con convenzione Consip.

Il concetto viene cristallizzato anche nel testo unico in materia di ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, di cui al decreto legislativo 165/2001, quando con la legge 18.6.2009, n. 69, art. 22, viene inserito l’art.  6-bis, che autorizza le suddette pubbliche amministrazioni ad acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere economie di gestione, e rivedendo di conseguenza, pur se temporaneamente, la dotazione di personale dipendente e le dotazioni dei fondi della contrattazione collettiva.

Il Dipartimento Funzione pubblica ha elaborato un documento   “Guida all’esternalizzazione di servizi e attività strumentali nella pubblica amministrazione”, in cui, tra l’altro, si indicano i  “benefici attesi”,  individuati nella riduzione dei costi e in maggiore qualità dei servizi, derivante dalla specializzazione del fornitore, la possibilità di disporre di professionalità specifiche, l’attenuazione delle logiche burocratiche,  la maggiore adattabilità all’innovazione tecnologica, l’occasione di disporre di informazioni articolate ed in tempo reale inerenti il servizio.

 

Effetti delle esternalizzazioni in particolare sul mercato del lavoro

Per quanto concerne l’erogazione dei servizi generali, come pulizie, manutenzione, call center, spesso il minor costo si è accompagnato ad un servizio meno accurato da un punto di vista qualitativo; questo effetto negativo non si riscontra invece necessariamente nei servizi core business,  nei quali comunque devono essere rispettati degli standard qualitativi  imprescindibili, anche ad evitare ricadute di responsabilità per il fornitore, pensiamo ad esempio all’erogazione di servizi di assistenza infermieristica o di prestazioni di specialistica sanitaria.

Di maggior rilievo l’impatto sul fronte del lavoro, perché la ricerca dell’economicità, in una con la logica del profitto, hanno creato schiere di lavoratori ingabbiati in forme contrattuali di estrema flessibilità, all’interno di categorie di contratti collettivi meno protettivi, come quelli per il personale delle cooperative; ne è conseguito non solo la diminuzione del numero di coloro che vengono impiegati, ma anche il costo, in proporzione, è diminuito, sia per i limiti retributivi che per il venir meno di istituti di protezione dei lavoratori, che sempre accompagnano le forme di lavoro flessibili, al di là di quanto possa apparire dai contenuti contrattuali.

Occorre poi considerare il cronico ritardo dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, a sua volta causa di mancato puntuale pagamento delle retribuzioni ai dipendenti dei fornitori di servizi.

Ancora, la flessibilità dei rapporti di lavoro è accompagnata dalla instabilità del posto di lavoro, in quanto ad ogni scadenza di appalto, se lo stesso viene aggiudicato ad altra impresa, i lavoratori già impiegati, o almeno una parte di essi, perdono il posto di lavoro, anche se, per le pubbliche amministrazioni, è previsto che i bandi di gara devono contenere specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato. D’altronde, si tratta di una promozione e non di un obbligo, in quanto, se da una parte mette a disposizione lavoratori già esperti nello specifico settore nonché per la specifica amministrazione, dall’altro stride con la libertà di organizzazione dell’appalto che dev’essere riconosciuta all’imprenditore, in uno con la possibilità di scegliersi i lavoratori. In questo senso,  la  sentenza della Terza Sezione del Consiglio di Stato n. 1255 del 2016, con cui è stato precisato che  la “clausola sociale” deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, in modo da non risultare lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando la platea dei partecipanti, nonché risultare compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante; ne consegue che la clausola non comporta alcun obbligo per la nuova impresa aggiudicataria di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa.

Altre volte, è proprio il continuo taglio al ribasso dell’importo di spesa a base d’asta, che non consente l’integrale assunzione dei dipendenti già occupati, laddove il minor costo che porta all’aggiudicazione comporta il taglio delle ore di lavoro, solitamente accompagnato ad un maggior carico di lavoro per i lavoratori.

 

Le reinternalizzazioni dei servizi

In questo panorama, non ha sortito particolare effetto la previsione dell’art. 11, c.3,  del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 35, convertito in legge 25 giugno 2019, n.  60, che autorizza le Regioni ad incrementare la spesa per il personale, per la reinternalizzazione dei servizi a suo tempo esternalizzati, purché l’importo di spesa per il personale non superi quella già sostenuta per i servizi esternalizzati. Questa norma, che sembrerebbe volta a favorire l’inversione di tendenza, in realtà, forse, ha come scopo specifico quello di evitare che da tale inversione di processo, derivino oneri maggiori in termini di spesa di personale per le pubbliche finanze. Il legislatore, infatti, ben sapendo che il personale che verrà assunto godrà di condizioni contrattuali economiche e giuridiche più favorevoli  rispetto a quelle in godimento ai lavoratori  impiegati dall’impresa privata, fa obbligo di limitare la spesa al costo già sostenuto con l’appalto, con ciò comportando  la riduzione del numero di operatori/ore di lavoro da assumere oppure  la necessità di ridurre la spesa per il lavoro in altri settori aziendali.

Questo perché la reinternalizzazione dei servizi è stata avviata, da parte di molte pubbliche amministrazioni, da molti anni: dopo l’euforia delle esternalizzazioni, si è preso atto che certi servizi cruciali, come già detto sopra, quelli che costituiscono il core business della singola amministrazione, e rispetto ai quali vengono valutati, anche da un punto di vista politico, i risultati utili per la popolazione, sono già stati oggetto di rientro in molte realtà, primo fra tutti nel settore sanitario.

Quindi, più che un incentivo all’inversione di tendenza, la norma sopracitata sembra un faro puntato sulla spesa che ne consegue.

 

Conclusioni

Il settore pubblico ha sempre rappresentato il simbolo di lavoro sicuro ancorché non sempre ben retribuito, e questa doppia caratterizzazione, purtroppo, riassume tutta la fragilità della gestione delle risorse umane nel pubblico impiego, perché troppo spesso chi si avvicina ad esso ha come obiettivo primario la stabilità, o lo diventa nel corso degli anni quando si vedono sfumare o limitare le possibilità di avanzamento.  La stessa dirigenza, quand’anche altamente professionalizzata, nella gestione quotidiana dei servizi può ritrovarsi sotto scacco dei propri collaboratori, i quali, attraverso la vasta gamma di diritti e prerogative, possono arrivare a condizionare la quantità e qualità dei servizi erogati. Di che armi dispone il dirigente? Oltre alle scarne ipotesi di licenziamento che, salvo casi eclatanti e in flagrante, non si riesce a documentare adeguatamente, resta l’avvio di un procedimento disciplinare, che nella maggior parte dei casi il dirigente deve gestirsi da sé, non sempre avendo le competenze e conoscenze necessarie, ma soprattutto con l’applicazione di sanzioni non incisive, anche ai fini della progressione economica e di avanzamento di carriera. Per non parlare poi dello spettro della Corte dei Conti, che sempre alleggia sull’azione dei dirigenti pubblici chiamati a prendere decisioni che possono esporre l’ente a richieste di risarcimenti di danni.   E cosa è cambiato con la modifica del sistema retributivo, per cui una parte della retribuzione è stata legata ai risultati della produttività? Sono stati messi in piedi complicati meccanismi di valutazione, il più delle volte per la distribuzione di poche centinaia di euro di retribuzione, a fronte dei conflitti che si possono innescare con il dirigente valutatore e con la necessità per questi di giustificare le proprie decisioni, laddove nel privato, il “padrone” e il suo incaricato, possono limitarsi a dare applicazione alle regole stabilite pur con il concorso delle organizzazioni sindacali.

In questo momento il mercato del lavoro privato  vede il lavoratore in posizione di estrema fragilità, non tanto per l’assenza di regole a suo favore, quando per la presenza di innumerevoli deroghe e limitazioni, in nome di una flessibilità che avrebbe dovuto garantire maggiore occupazione, messa nel nulla da una globalizzazione senza limiti, che consente al datore di lavoro di spostare le proprie produzioni laddove il costo della manodopera è più basso o di distaccare lavoratori da paesi con una legislazione del lavoro meno tutelante, per andare a operare in altri paesi, distruggendovi il mercato del lavoro più costoso.

Questa fragilità però non può essere fronteggiata con un ampliamento della capacità assunzionale delle pubbliche amministrazioni, neanche nelle zone del paese più disagiate, tanto  varrebbe aumentare le risorse per il welfare.

Ciò su cui bisogna intervenire è la tutela concreta della posizione del lavoratore nel settore privato, a fronte della creazione di un sistema che consenta un riallineamento dei costi quando le condizioni in cui operano i diversi imprenditori consentirebbero di sbaragliare la concorrenza per il minor costo del lavoro. E’ necessario rivedere il concetto di concorrenza, che dovrebbe far riferimento a uguali condizioni di partenza, per differenziare il risultato in base alla minore o maggiore capacità di combinare i fattori produttivi o di intercettare le varie esigenze della clientela e i gradi di soddisfazione dei bisogni,  riequilibrando attraverso il sistema di tassazione o l’imposizione di dazi all’entrata, il livello  dei prezzi altrimenti falsati da condizioni di minor tutela dei lavoratori, così da rendere preferenziale il maggiore investimento  sulle condizioni di lavoro dei propri collaboratori.

(A cura di Valeria Gobin)

 

Riferimenti bibliografici

. Relazione Annuale del Presidente, XX rapporto Annuale, luglio 2021, in  https://www.inps.it/dati-ricerche-e-bilanci/rapporti-annuali/xx-rapporto-annuale

. Valutare con i dati amministrativi, progetti Visitinps scholars, Allegato al XX rapporto annuale, Luglio 2021, in  https://www.inps.it/dati-ricerche-e-bilanci/rapporti-annuali/xx-rapporto-annuale

. L’innovazione dell’Inps per il rilancio del paese, XX rapporto annuale, luglio 2021, in https://www.inps.it/dati-ricerche-e-bilanci/rapporti-annuali/xx-rapporto-annuale

. Corte dei Conti, sezioni riunite in sede di controllo, Relazione sul costo del lavoro pubblico 2020, Roma, Luglio 2020, in https://www.corteconti.it/Download?id=fc101a7e-cc6c-4cd4-8561-a7cbcf05a1af

. Piano Nazionale di ripresa e resilienza, in https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR_0.pdf

. Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 25/2/2016,  n. 1255, in https://www.giustizia-amministrativa.it

. Assunzioni del personale pubblico, in

https://web.camera.it/cartellecomuni/leg15/RapportoAttivitaCommissioni/testi/11/11_cap10.htm

. Le culture politiche italiane e il Trattato di Maastricht (1992-1994), di Massimo Piermattei, luglio 2011, in  https://www.officinadellastoria.eu/it/2011/07/20/le-culture-politiche-italiane-e-il-trattato-di-maastricht-1992-1994/

. Storia del debito pubblico italiano dal 1970, Fondazione Luigi Einaudi, 6 giugno 2018,in

https://www.fondazioneluigieinaudi.it/storia-del-debito-pubblico-italiano-dal-1970/

. Aumentata la spesa per la sanità dopo l’esternalizzazione di molti servizi, di Franco Brugnola, in https://saluteugualepertuttis.org/2020/05/17/aumentata-la-spesa-della-sanita-dopo-lesternalizzazione-di-molti-servizi/

. Guida all’esternalizzazione di servizi e attività strumentali  nella pubblica amministrazione, Come, Quando e Perché esternalizzare, Dipartimento della Funzione Pubblica, in

http://www.itala.org/municipio/Uffici/AreaAmministrativa/Guida_Esternalizzazioni_FINALE.pdf

. Le esternalizzazioni: l’altro volto dell’austerità, di Arianna Tassinari, / novembre 2018, in https://jacobinitalia.it/5882-2/

. Cerismas, Centro di ricerca e studi per il management, “L’acquisto dei servizi no core nelle aziende private e pubbliche del settore sanitario italiano”, documento a cura di Americo Cicchetti e Alessandra Fiore, in  https://www.sanita24.ilsole24ore.com/pdf2010/Sanita2/_Oggetti_Correlati/Documenti/Regioni-e-Aziende/CERISMAS_RICERCA.pdf?uuid=Abja4gsI


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