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Costi non deducibili se l’evasore totale non dimostra la certezza o la determinabilità in modo obiettivo

(A cura del Dott. Marco Cardillo)

La Suprema Corte di Cassazione con Sentenza n. 230, depositata in data 8 gennaio 2020, ha chiarito che i dati comunicati dai clienti di un contribuente negli elenchi “Clienti-Fornitori” – ossia i dati comunicati ai sensi dell’art. 21, D.L. 78/2010 (poi modificato dall’art. 2, comma 6, D.L. 16/2012), il quale ha introdotto l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle Entrate le operazioni rilevanti ai fini Iva – non costituiscono mere annotazioni.

La Suprema Corte, nelle motivazioni della Sentenza, spiega infatti che “corrispondevano a fatture regolarmente registrate in corrispondenza di prestazioni di servizi ricevute o di beni acquistati dal soggetto emittente le corrispondenti fatture sulle quali il cliente, in quanto titolare di partita IVA, è legittimato a detrarre la relativa imposta ed aventi perciò valore probatorio in ordine all’acquisto di beni.

Gli Ermellini riconoscono quindi corretto utilizzare i dati suindicati per la ricostruzione del volume di affari – corrispondente ai ricavi – del contribuente che ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi.

La Cassazione ha evidenziato che la riconducibilità delle fatture emesse dal contribuente “ricostruite sulla base di quelle ricevute dai clienti e regolarmente registrate, al volume di affari della società dal medesimo amministrata non costituisce alcuna presunzione, ma soltanto il frutto di un accertamento fiscale effettuato dalla Polizia tributaria che, avendo ricostruito sulla base di quanto figurante dall’elenco fornitori le cessioni di beni da costui effettuate, si sono limitati al calcolo matematico degli importi riportati sui singoli documenti per quantificarne il volume di affari dell’anno di imposta in contestazione”.

La stessa Corte ha voluto porre l’accento sul fatto che per la ricostruzione del reddito dell’impresa nell’esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, ma questi devono essere certi o comunque determinabili in modo obiettivo come previsto dall’art. 109, comma 1, TUIR, non potendo essere puramente e semplicemente presunti.

I giudici hanno evidenziato che è onere del contribuente, evasore totale, provare l’esistenza dei costi correlati ai ricavi ricostruiti o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta, non essendo legittimo presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza.


Rivista scientifica digitale mensile (e-magazine) pubblicata in Legnano dal 2013 – Direttore: Claudio Melillo – Direttore Responsabile: Serena Giglio – Coordinatore: Pierpaolo Grignani
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Black list

(di Marco Cardillo)

La Corte di Cassazione con l’ordinanza 2613/2019 del 30/01/2019, ribadisce l’inutilizzabilità della documentazione non esibita all’Amministrazione Finanziaria che ne aveva fatto esplicita richiesta, come espresso dall’art. 32, comma 4 del D.P.R. 600 del 29 settembre 1973. È prevista una deroga a quanto appena suindicato quando il contribuente, all’atto di produrre la documentazione unitamente al ricorso, dichiari di non avere potuto adempiere alla richiesta dell’Ufficio per cause a lui non imputabili, infatti solo ricorrendo tale condizione è possibile derogare al principio della inutilizzabilità della documentazione specificamente richiesta e non esibita dal contribuente in sede amministrativa.
In questa recentissima ordinanza della Suprema Corte viene evidenziato che l’eccezione di inutilizzabilità processuale della documentazione non deve necessariamente essere formulata dalla Agenzia delle Entrate in giudizio, infatti si tratta di preclusione processuale rilevabile d’ufficio, conseguentemente anche da parte del giudice.

In senso conforme si era già espressa la Cassazione con sentenza n. 13511 del 26/05/2008, nella quale veniva confermato che i documenti prodotti dal contribuente nel giudizio tributario dei quali abbia in precedenza rifiutato l’esibizione all’Amministrazione Finanziaria, non possono essere presi in considerazione, anche in assenza di una eccezione in tal senso dell’amministrazione resistente.

Ulteriore principio espresso dalla Cassazione nell’ordinanza 2613/2019 del 30/01/2019 è che il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 110, comma 11, prevedeva la deducibilità dei costi “black list” (periodo di imposta ante 2015) qualora l’impresa residente italiana fornisca la prova che il fornitore/prestatore estero, con cui ha effettuato le operazioni, svolge una attività prevalentemente commerciale effettiva, ovvero che vi sia un effettivo interesse economico dell’impresa italiana non alla effettuazione della operazione commerciale in sè, ma all’effettuazione dell’operazione proprio con la società avente residenza nel paese “black list“, ed in entrambi i casi alla condizione che sia dimostrata la concreta avvenuta esecuzione delle operazione commerciale.
Dalla lettura dell’ordinanza sembra evidente che un contribuente non possa dedurre le spese “black list”, se le stesse si riferiscano a costi per operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti. In particolare per le operazioni soggettivamente inesistenti la dimostrazione della presenza dell’esimente, prevista dall’abrogato comma 11 dell’art. 110 del TUIR, non sarebbe sufficiente per la deduzione del costo stesso.
Questa recente ordinanza sembra fornire un orientamento differente rispetto a quello espresso dalla Commissione Tributaria Provinciale di Venezia, con la sentenza n. 1 Sez. XIII, del 9 gennaio 2012, nella quale la Commissione riteneva che per la verifica dell’effettività delle operazioni sottostanti alle fatture per costi “black list”, non è necessaria una coincidenza tra il soggetto che ha emesso la fattura (soggetto estero black list) ed il soggetto che ha erogato la prestazione, nel caso in cui il soggetto che abbia emesso fattura sia l’emanazione dell’operatore economico effettivo (gruppi societari).

Le considerazioni esposte nell’articolo sono personali dell’autore e non impegnano l’Amministrazione di appartenenza dello stesso.

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a cura di Francesco D’Alonzo (1)

ABUSO DEL DIRITTO

Abuso del diritto – Finalità – Differenza con l’obbligo di “qualificazione” dell’atto registrato – Fattispecie.

Va escluso che l’art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 sia predisposto al recupero di imposte “eluse”, poiché l’istituto dell’”abuso del diritto” – disciplinato oggi dall’art. 10-bis della l. n. 212/2000, introdotto dal d.l.vo n. 128/2015 – presuppone una mancanza di “causa economica” che non è viceversa prevista per l’applicazione del citato art. 20, il quale semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di “qualificare” l’atto o il collegamento di più atti in ragione della loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale (Cass. civ., sez. trib., ord. 28.3.2018 n. 7637).

ACCERTAMENTO

Accertamento – Invalidità – Fattispecie – Emissione prima dei 60 giorni dalla notifica del p.v.c. – Presupposti.

L’art. 12 della l. n. 212/2000 (c.d. statuto del contribuente) – che al comma 7 sancisce l’invalidità dell’avviso di accertamento emesso prima del decorso di 60 giorni dalla notifica del p.v.c. – trova applicazione, come da espressa previsione legislativa, soltanto nell’ipotesi in cui l’amministrazione finanziaria proceda ad accessi, ispezioni, verifiche fiscali “nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali” (Cass. civ., sez. trib., sent. 21.3.2018 n. 7033).

APPELLO TRIBUTARIO

Appello tributario – Atti – Spedizione a mezzo posta in busta chiusa – Irregolarità – Conseguenze.

Nel processo tributario la spedizione del ricorso o dell’atto d’appello a mezzo posta in busta chiusa, pur se priva di qualsiasi indicazione relativa all’atto in esso racchiuso, anziché in plico senza busta come previsto dall’art. 20 del d.l.vo n. 546/1992, costituisce una mera irregolarità se il contenuto della busta e la riferibilità alla parte non siano contestati, essendo, altrimenti, onere del ricorrente o dell’appellante dare la prova dell’infondatezza della contestazione formulata; inoltre, la decadenza è esclusa se il ricorso sia stato spedito nei termini di legge, anche se ricevuto dal destinatario oltre tale termine (Cass. civ., sez. trib., ord. 21.3.2018 n. 7011).

AUTOTUTELA

Autotutela – Giurisdizione tributaria – Limiti.

In sede di autotutela tributaria il contribuente non può limitarsi ad eccepire eventuali vizi dell’atto impositivo, la cui deduzione deve ritenersi definitivamente preclusa a seguito della sua intervenuta definitività, ma deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’amministrazione finanziaria alla rimozione di siffatto atto: ciò in quanto non è dato al giudice tributario di invadere la sfera discrezionale riconosciuta alla P.A. in punto di esercizio del potere di annullamento dell’atto amministrativo in autotutela, pena il superamento dei limiti esterni della giurisdizione medesima (Cass. civ., sez. V, ord. 23.8.2018 n. 7616).

CASSAZIONE

Giudizio di legittimità – Ricorso – Proposizione in via autonoma da parte del destinatario di un ricorso avverso la medesima sentenza – Natura – Ricorso incidentale – Configurabilità – Ammissibilità – Condizioni.

Nell’ambito del giudizio di legittimità, l’impugnazione proposta in via autonoma dalla parte a cui sia stato già notificato un ricorso avverso la medesima sentenza ha natura di “ricorso incidentale” ed è ammissibile solo se notificato e depositato nei termini per quest’ultimo previsti (Cass. civ., sez. V, sent. 28.3.2018 n. 7640).

Giudizio di legittimità – Decisione di secondo grado – Nullità – Vizio di omessa pronuncia – Presupposti.

Nel giudizio di cassazione l’omessa pronuncia, quale vizio (di nullità) della sentenza di appello ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., può essere utilmente prospettata esclusivamente in riferimento alla mancanza di qualsiasi decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che gli è stata ritualmente proposta, sì da dar luogo all’inesistenza di una decisione sul punto per la mancanza di un provvedimento indispensabile alla soluzione del caso concreto (Cass. civ., sez. trib., sent. 21.3.2018 n. 7033).

GIUDICATO PENALE

Giudicato penale – Sentenza irrevocabile di assoluzione dal reato tributario – Efficacia nel procedimento tributario – Limiti.

Sebbene nel processo tributario la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spieghi automaticamente efficacia di giudicato, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, essa può tuttavia essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare (Cass. civ., sez. trib., sent. 21.3.2018 n. 7033).

GIURISDIZIONE TRIBUTARIA

Giurisdizione – Giudice tributario – Oggetto.

Agli effetti degli artt. 2 e 19 del d.l.vo n. 546/1992 la giurisdizione attribuita al giudice tributario è soltanto quella relativa ai crediti tributari e, in generale, all’intera materia fiscale; essa concerne esclusivamente le controversie aventi ad oggetto imposte e tributi di ogni genere e specie, nonché il contenzioso catastale (Cass. civ., sez. Un., ord. 3.11.2017 n. 26149).

GRATUITO PATROCINIO

Patrocinio a spese dello Stato – Parte ricorrente ammessa al gratuito patrocinio – Obbligo di versare l’importo previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002 – Non ricorre.

L’ammissione della parte ricorrente al gratuito patrocinio determina l’insussistenza dei presupposti per il versamento dell’importo previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della 1. n. 228/2012, stante la prenotazione a debito in ragione dell’ammissione al predetto beneficio (Cass. civ., sez. VI-1, ord. 14.6.2018 n. 15595).

Patrocinio a spese dello Stato – Istanza di ammissione – Contenuta nel ricorso per cassazione – Competenza a decidere – Del giudice che ha emesso il provvedimento gravato – Sussistenza – Della Corte di cassazione – Esclusione.

Ove la domanda di ammissione al patrocinio pubblico sia contenuta nel ricorso per cassazione, competendo la decisione finale ammissiva al giudice del merito ed essendo essa efficace per tutte le fasi o i gradi del giudizio (come si desume dagli artt. 75, comma 1, 93, comma 1, 124 e 126 del T.U. n. 115/2002), la relativa deliberazione non spetta alla Corte di cassazione, ma al giudice che ha adottato il provvedimento impugnato (Cass. civ., sez. VI-1, ord. 18.6.2018 n. 16079).

IMPOSTA DI REGISTRO

Imposta di registro – Atti registrati – Forma – Attività interpretativa – Canoni.

In ambito tributario, la prevalenza della “natura intrinseca” degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul titolo e sulla loro forma apparente vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (Cass. civ., sez. trib., ord. 28.3.2018 n. 7637).

IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO

Imposta sul valore aggiunto – Oggetto – Convenzione di lottizzazione – Esecuzione di opere di urbanizzazione primaria in luogo del pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei contributi comunali – Imponibilità ai fini i.v.a. e delle imposte sul reddito – Esclusione.

In tema di i.v.a., l’esecuzione di opere di urbanizzazione primaria, in attuazione di impegni assunti tramite una convenzione di lottizzazione, è una modalità alternativa all’assolvimento dell’obbligo di pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei contributi comunali ed ha, al pari di questi ultimi, natura di prestazione patrimoniale imposta, talché è esclusa sia dal campo di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, sia dalle imposte sul reddito (Cass. civ., sez. V, sent. 28.3.2018  n. 7641).

PROCESSO TELEMATICO

Processo telematico – Giudizio tributario – Ricorso per cassazione – Notifica – A mezzo di p.e.c. – Relata – Sottoscrizione mediante firma digitale – Mancanza – Conseguenze – Inesistenza dell’atto – Esclusione.

In tema di notifica a mezzo di p.e.c. del ricorso per cassazione avverso la sentenza resa dal giudice tributario, la mancanza, nella relata, della firma digitale dell’avvocato notificante non è causa di “inesistenza” dell’atto, potendo la stessa essere riscontrata attraverso altri elementi di individuazione dell’esecutore della notifica, come la riconducibilità della persona del difensore menzionato nella relata alla persona munita di procura speciale per la proposizione del ricorso, essendosi comunque raggiunti la conoscenza dell’atto e, dunque, lo scopo legale della notifica (Cass. civ., sez. trib., ord. 16.2.2018 n. 3805).

Processo telematico – Notifiche telematiche – Ricevuta di accettazione e consegna della p.e.c. – Effetti – Presunzione di conoscenza della comunicazione – Ricorre.

In tema di notifiche telematiche, nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della p.e.c. e di consegna della stessa nella casella del destinatario si determina una presunzione di conoscenza della comunicazione da parte del destinatario analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 cod. civ.; spetta quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all’utilizzo dello strumento telematico (Cass. civ., sez. III, sent. 31.10.2017 n. 25819).

Processo telematico – In genere – Notifica – A mezzo di p.e.c. – Perfezionamento – Fattispecie.

In tema di processo telematico, la posta elettronica certificata è il sistema che, per espressa previsione di legge (d.P.R. 11.2.2005 n. 68) consente di inviare e-mail con valore legale equiparato ad una raccomandata con ricevuta di ritorno, presentando, rispetto alla posta elettronica ordinaria, caratteristiche aggiuntive tali da fornire agli utenti la certezza dell’invio e della consegna (o della mancata consegna) delle e-mail al destinatario; tale sistema è stato creato proprio al fine di garantire, in caso di contenzioso, l’opponibilità a terzi del messaggio; i gestori certificano, quindi, con le proprie “ricevute” che il messaggio: a) è stato spedito; b) è stato consegnato; c) non è stato alterato; in ogni avviso inviato dai gestori è apposto anche un riferimento temporale che certifica data ed ora di ognuna delle operazioni descritte; i gestori inviano avvisi anche in caso di errore in una qualsiasi delle fasi del processo (accettazione, invio, consegna) in modo che non possano esserci dubbi sullo stato della spedizione di un messaggio; di conseguenza, la semplice verifica dell’avvenuta accettazione dal sistema e della successiva consegna, ad una determinata data ed ora, del messaggio di posta elettronica certificato contenente l’allegato notificato è sufficiente a far ritenere perfezionata e pienamente valida la notifica (Cass. civ., sez. III, sent. 31.10.2017 n. 25819).

Processo telematico – Giudizio di cassazione – Notifiche a mezzo di p.e.c. – Nullità – Principio di cui all’art. 156 c.p.c. – Applicabilità – Sussiste.

In tema di giudizio telematico per cassazione, anche alle notifiche a mezzo di p.e.c. va applicato il principio, sancito in via generale dall’art. 156 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato; principio, questo, che vale anche per le notificazioni, per le quali la nullità non può essere dichiarata tutte le volte che l’atto, malgrado l’irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario, statuendo altresì, riguardo alla modalità con la quale l’eccezione di nullità viene sollevata, l’inammissibilità dell’eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisione finale della Corte (Cass. civ., sez. trib., ord. 16.2.2018 n. 3805).

Processo telematico – Giudizio di cassazione – Parte ricorrente – Indicazione indirizzo di p.e.c. – Omessa elezione di domicilio in Roma – Effetti.

Nel giudizio per cassazione, a seguito delle modifiche dell’art. 366 c.p.c. introdotte dall’art. 25 della l. 12 novembre 2011 n. 183, qualora il ricorrente non abbia eletto domicilio in Roma ed abbia indicato l’indirizzo di p.e.c. ai soli fini delle comunicazioni di cancelleria, è valida la notificazione del controricorso presso la cancelleria della Corte di cassazione, perché, mentre l’indicazione della p.e.c. senza ulteriori specificazioni è idonea a far scattare l’obbligo del notificante di utilizzare la notificazione telematica, non altrettanto può affermarsi nell’ipotesi in cui l’indirizzo di posta elettronica sia stato indicato in ricorso per le sole comunicazioni di cancelleria (Cass. civ., sez. VI-3, ord. 5.10.2017 n. 23289).

Processo telematico – Giudizio tributario – Sentenza di appello – Notifica – A mezzo di p.e.c. – Effettuata prima del 1° dicembre 2015 – Conseguenze – Fattispecie.

In tema di contenzioso tributario telematico, la notifica della sentenza di appello effettuata tramite p.e.c. dal difensore del contribuente, munito di autorizzazione del Consiglio dell’Ordine di appartenenza ex lege n. 53/1994, all’amministrazione finanziaria in data 5 dicembre 2014 non è idonea a far decorrere il termine breve per la proposizione del ricorso per cassazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 51, comma 1°, del d.l.vo n. 546/1992 in relazione all’art. 38, che a sua volta richiama l’art. 16 del decreto medesimo, norma che non contemplava la previsione della notifica del ricorso a mezzo p.e.c., viceversa prevista dal nuovo art. 16-bis, la cui applicabilità decorre dal 1° dicembre 2015 per le sole notifiche tramite p.e.c. degli atti nel processo tributario telematico sperimentale dinanzi alle commissioni tributarie della Toscana e dell’Umbria; posto che l’art. 1 della l. n. 53/1994, secondo periodo, nel testo da ultimo risultante a seguito della modifica apportata dall’art. 46, comma 1°, lett. a), n. 2) del d.l. n. 90/2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 114/2014, dispone che, quando ricorrono i requisiti di cui al periodo precedente della stessa norma, fatta eccezione per l’autorizzazione del Consiglio dell’Ordine, “la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata”, si ricava a contrario dalla citata disposizione, avuto riguardo alla specialità delle disposizioni che regolano il processo tributario dinanzi alle commissioni tributarie provinciali e regionali, che detta forma di notifica, come di seguito disciplinata dall’art. 3-bis della citata legge n. 53, come inserito dall’art. 16-quater del d.l. n. 179/2012, convertito, con modificazioni nella l. 7 n. 221/2012, che ha abrogato il comma 3-bis dell’art. 3 della legge n. 53 cit., non è ammessa per la notificazione degli atti in materia tributaria, se non espressamente disciplinata dalle specifiche relative disposizioni (Cass. civ., sez. VI-T, ord. 12.9.2016 n. 17941).

PROCESSO TRIBUTARIO

Processo tributario – Procura difensiva – Conferimento – Modalità.

Nel processo tributario, le modalità di conferimento dell’incarico ai difensori sono disciplinate, nel giudizio di primo grado, dall’art. 12, comma 3, del d.l.vo n. 546/1992, il quale consente che il conferimento abbia luogo, oltre che con atto pubblico o scrittura privata autenticata, ovvero in calce od a margine di un atto del processo, anche oralmente con dichiarazione verbalizzata in udienza, sicché la mancanza di autenticazione, da parte del difensore, della firma apposta dal contribuente per procura in calce od a margine del ricorso introduttivo non ne determina l’inammissibilità, salvo che la controparte non contesti espressamente l’autografia della sottoscrizione non autenticata  (Cass. civ., sez. V trib., ord. 7.3.2018 n. 5426).

Processo tributario – Giudizio di cassazione – Error in procedendo – Configurabilità – Presupposti – Differenza tra censure ex art. 360 n. 4 e n. 5 c.p.c.

Nel procedimento tributario di cassazione, il rapporto tra le istanze delle parti e la censurata pronuncia del giudice può dare luogo a due diversi tipi di vizi: se il giudice omette del tutto di pronunciarsi su una domanda od un’eccezione, ricorrerà un vizio di nullità della sentenza per “error in procedendo”, impugnabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4 c.p.c.; se, invece, il giudice si pronuncia sulla domanda o sull’eccezione, ma senza prendere in esame una o più delle questioni giuridiche sottoposte al suo esame nell’ambito di quella domanda o di quell’eccezione, ricorrerà un vizio di motivazione, censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. civ., sez. trib., sent. 21.3.2018 n. 7033).

SOCIETÀ DI PERSONE

Società di persone – Impugnazione dell’avviso di rettifica dei redditi – Litisconsorzio necessario tra società e soci – Sussiste – Trasformazione in corso di causa della società di persone in società di capitali – Irrilevanza.

Nel processo tributario c’è litisconsorzio necessario tra la società di persone ed i soci, compresi gli accomandanti, in virtù della “unitarietà” dell’accertamento dei relativi redditi ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 917/1986, senza che possa assumere rilevanza la trasformazione, in corso di causa, della società di persone in società di capitali (Cass. civ., sez. trib., ord. 21.3.2018 n. 7026).

TA.R.S.U.

Tributi locali – Tassa raccolta dei rifiuti solidi urbani – Commisurazione – Parametri – Capacità di produrre rifiuti – Garage – Imposta – Applicabilità – Fattispecie.

In tema di ta.r.s.u., l’art. 65, comma 1, del d.l.vo n. 507/1993, come sostituito dall’art. 3, comma 68, della l. n. 549/1995, nello stabilire che la tassa “può” essere commisurata a determinati parametri – quantità e qualità dei rifiuti prodotti, costi di smaltimento -, teorici oppure effettivi a seconda della popolazione comunale, consente di conformare la tariffa anche ad altri parametri, reperibili entro i limiti della logica e dell’equità contributiva, ossia della legittimità dell’atto amministrativo; perciò, non è priva di logica giuridica l’affermazione secondo cui anche i garage sono soggetti alla ta.r.s.u. perché producono rifiuti apprezzabili (Cass. civ., sez. trib., sent. 2.3.2018 n. 4961).

(1) Avvocato cassazionista – Camera Avvocati Tributaristi di Caserta ss=”

(di Matteo Montanari)

In tema di residenza fiscale delle persone fisiche, la Suprema Corte con la recente Ordinanza 25 giugno 2018 n. 16634 ribadisce la fondamentale rilevanza dell’art. 2, comma 2, D.P.R. n. 917/1986 (Tuir), il quale dispone che “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.”

                                                                         ∗∗∗∗
I criteri enunciati dall’art. 2 Tuir, in particolar modo quello dell’iscrizione all’anagrafe italiana, sono stati nuovamente oggetto di vaglio applicativo da parte della Corte di Cassazione con la recente Ordinanza 25.6.2018 n. 16634 che consolida l’orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui, in presenza di attività fiscalmente rilevanti svolte all’estero e/o nel Belpaese, è da ritenersi fondamentale un’eventuale cancellazione dall’anagrafe italiana per evitare di essere ritenuti soggetti fiscalmente residenti in Italia.
In particolare, gli ermellini hanno confermato il pacifico orientamento della stessa Corte che ritiene legittimo l’accertamento per l’omessa dichiarazione dei redditi in Italia nei confronti di un soggetto produttore di reddito all’estero (nel caso di specie, anche in Italia) nell’ipotesi in cui non vi sia stata la cancellazione dell’iscrizione all’anagrafe tributaria italiana.
Ricostruendo la vicenda dal punto di vista fattuale, in primo grado il contribuente ha visto accogliersi il ricorso tempestivamente proposto avverso avvisi di accertamento sintetico ed in secondo grado i giudici hanno confermato quanto già disposto dalla CTP.
Nello specifico, la CTR, al fine della verifica dell’integrazione della fattispecie di omessa dichiarazione in presenza di attività fiscalmente rilevante compiuta dal contribuente sul territorio italiano, ha ritenuto non influenti gli elementi della sussistenza della residenza fiscale in Italia del contribuente e la sua tardiva iscrizione all’AIRE, considerando invece prevalente a tale fine la dimostrazione (di carattere sostanziale) della residenza nel Regno Unito per gli anni oggetto di accertamento.
Al contrario, la Corte di Cassazione con la sentenza in commento, alla luce dei principi generali in materia di residenza fiscale delle persone fisiche enunciati dal TUIR, in particolare dagli artt. 2 e 3, e coerentemente con il recente orientamento della medesima Corte, ha disposto che “le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dall’art. 2 DPR 917/1986, in ogni caso residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’Estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano.”
Rilevante al fine della risoluzione del caso di specie è stato, quindi, il contenuto dell’art. 2 TUIR e i requisiti da esso previsti, da ritenersi alternativi, in presenza dei quali un soggetto risulta fiscalmente residente in Italia con tutte le conseguenze che ciò comporta (nel caso di specie, obbligatorietà di compilazione e trasmissione della dichiarazione dei redditi).
L’iscrizione all’AIRE, in quanto successiva al periodo accertato, non è stata ritenuta determinante ai fini dell’individuazione della residenza fiscale del contribuente.
Per tali motivazioni, con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso principale dell’Ufficio, cassando con rinvio la sentenza impugnata.

(di Francesco D’Alonzo (1))

ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

Accertamento tributario – Omessa esibizione dei documenti in sede amministrativa – Inutilizzabilità in giudizio – Presupposti – Onere della prova.

In tema di accertamento tributario, la mancata esibizione da parte del contribuente dei documenti in sede amministrativa determina l’inutilizzabilità della successiva produzione in sede contenziosa a condizione che l’amministrazione finanziaria provi sia che vi era stata una puntuale richiesta degli stessi, accompagnata dall’avvertimento circa le conseguenze della mancata ottemperanza, e sia che il contribuente ne aveva rifiutato l’esibizione, dichiarando di non possederli, o comunque sottraendoli al controllo, attraverso un comportamento doloso volto ad eludere la verifica; non integrano i presupposti applicativi di detta preclusione le dichiarazioni (il cui contenuto corrisponda al vero) dell’indisponibilità del documento, non solo se l’indisponibilità sia ascrivibile a forza maggiore od a caso fortuito (ad esempio, documentazione rubata, smarrita o temporaneamente dispersa per calamità naturali e poi rinvenuta, sequestrata e poi rimessa nella disponibilità del contribuente), ma anche se imputabile a colpa, quale, ad esempio, la negligenza e l’imperizia nella custodia e conservazione (Cass. civ., sez. trib., ord. 21.3.2018 n. 7011).

(a cura dell’avv. Francesco D’Alonzo)

ABUSO DEL DIRITTO

Abuso del diritto – Principio generale antielusivo – Conseguenze.

In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo e comporta che sono vietate ed inopponibili all’erario le operazioni che, pur non contrastando con alcuna specifica disposizione, siano idonee a procurare un vantaggio fiscale e non possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un “risparmio di imposta”, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili giustificatrici, la cui ricorrenza rientra nell’onere probatorio del contribuente; tale regola giuridica, già prima di trovare espresso e generale riconoscimento, definizione e disciplina di natura procedimentale nell’art. 10-bis della l. n. 211/2000 (statuto del contribuente), introdotto con d.l.vo n. 128/2015, è stata desunta dai superiori principi, posti dall’art. 53 Cost., di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (Cass., sez. trib., sent. 14.2.2018 n. 3533).

ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

Pretesa tributaria – Procedimento di formazione – Notificazione degli atti – Funzione – Omessa notifica dell’atto presupposto – Impugnativa giudiziale “limitata” al solo atto consequenziale notificato – Scelta del contribuente – Ammissibilità – Conseguenze.

In materia di riscossione delle imposte, nell’ipotesi di omessa notificazione di un atto presupposto, il contribuente ha la scelta, consentita dall’art. 19, comma 3, del d.l.vo n. 546/1992, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli, facendo valere il vizio derivante dalla citata omissione, ovvero di impugnare cumulativamente anche quello presupposto non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria (Cass., sez. trib., ord. 18.1.2018 n. 1144).

APPELLO TRIBUTARIO

Appello tributario – Nuove eccezioni – Divieto – Contenuto.

Nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, di cui all’art. 57 del d.l.vo n. 546/1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle c.d. eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cass., sez. trib., sent. 7.4.2017 n. 9080).

TAX LAB 2015

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      • Prof. Avv. Claudio Sacchetto (Professore emerito di Diritto Tributario dell’Università di Torino).
    • Direttore Scientifico e Coordinatore del Corso:
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(di Federico Tosone)

Nonostante la recente entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 28 del 16 marzo 2015 – con cui il legislatore ha introdotto all’interno della parte generale del Codice Penale la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto – la Corte di Cassazione ha già avuto occasione di pronunciarsi sull’applicabilità retroattiva di siffatta causa di esclusione della punibilità in quanto norma sostanziale favorevole al reo.

Invero, con sentenza n. 5449 dello scorso 15 aprile, la terza sezione penale della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato dal liquidatore di una società di persone condannato per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte ex art. 11 D. Lvo 74/2000, pur confermando la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Milano, ha posto dei primi tasselli giurisprudenziali sull’applicabilità dell’istituto della particolare tenuità del fatto così come disciplinato all’art. 133-bis C.p..

Il caso oggetto del vaglio dei giudici di legittimità consisteva nell’asserita illegittimità della sentenza della Corte d’Appello che riconosceva il medesimo liquidatore responsabile del reato di cui all’art. 11 D. Lvo 74/2000 in quanto quest’ultimo, al fine di evadere le imposte dirette e sul valore aggiunto, aveva costituito un trust con il fine di rendere inefficace in tutto in parte la procedura di riscossione coattiva.

Secondo la prospettazione del ricorrente, la costituzione del trust – e la conseguente segregazione dei beni – doveva invece ritenersi legittima in quanto finalizzata alla soddisfazione dei creditori tra cui si annoverava anche l’Agenzia delle Entrate.

Tralasciando in tale sede le ragioni poste alla base dei motivi di ricorso presentato dai difensori del liquidatore, giova soffermarsi, invece, sulla richiesta avanzata da quest’ultimi in sede di udienza di cassazione, secondo cui, dovendosi ravvisare gli estremi della particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis C.p., così come introdotto dal D. Lvo 28/2015, la Corte avrebbe dovuto riconoscere la sussistenza del medesimo istituto e, dando applicazione della suddetta norma al caso di specie – quale ius superveniens – disporre l’annullamento della sentenza impugnata.

La Corte di Cassazione ha anzitutto ribadito l’orientamento costante in giurisprudenza sull’art 11 D. Lvo 74/2000 – che punisce chiunque, al fine di evadere le imposte, aliena simulatamente o compie atti fraudolenti sui propri o su altrui beni in modo idoneo a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva -.

Infatti, ai fini della configurabilità del reato in questione, l’indirizzo costante in giurisprudenza volge nel senso di ritenere sufficiente la mera idoneità dell’atto simulato, o degli altri atti fraudolenti, ad impedire il soddisfacimento totale o parziale della del credito tributario, non essendo necessaria la sussistenza di una procedura di riscossione in atto.

Si tratta, dunque, di un reato di pericolo in cui la condotta tipica consiste in qualunque atto – anche formalmente lecito – fraudolentemente finalizzato a ridurre la capacità patrimoniale del contribuente e che, a fronte di un giudizio ex ante, risulti idoneo a rendere più complessa o inefficace una potenziale azione esecutiva da parte dell’Erario.

Ebbene, la Corte di cassazione rileva come la legittimità del trust liquidatorio non fosse mai stata messa in discussione dai giudici di merito i quali, invece, hanno ritenuto fraudolento lo scopo della sua costituzione e la finalità unica di sottrarre il patrimonio del contribuente alla procedura coattiva – stante l’inesistenza di qualsivoglia elemento atto a dimostrare la effettiva e concreta utilizzazione del trust per soddisfare i creditori della società ed, in particolare, l’effettuazione dei pagamenti tributari -.

Svolta tale doverosa premessa, si rende opportuno porre l’attenzione sulle motivazioni addotte dai giudici di legittimità sull’ultimo motivo di ricorso in seno alla ritenuta applicabilità al caso di specie della causa di esclusione della non punibilità della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis C.p..

A tal riguardo, la Corte rileva come all’interno del D. Lvo 28/2015 non venga prevista una disciplina transitoria in ordine all’applicabilità alle cause pendenti della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto – demandandosi così all’interprete l’analisi dell’ammissibilità di un’applicazione retroattiva del suddetto istituto.

Ciò premesso, la Corte afferma correttamente che la natura dell’istituto di nuova introduzione ha natura sostanziale da ciò derivando, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, C.p., l’astratta applicabilità anche ai procedimenti pendenti – quale legge più favorevole al reo -.

Viene precisato, inoltre, come la questione circa la particolare tenuità del fatto sia proponibile anche in sede di giudizio di legittimità tenuto conto di quanto disposto dall’art. 609, secondo comma, C.p.p. che consente alla Corte di Cassazione di decidere le questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.

Pertanto, nel giudizio di legittimità i giudici dovranno preventivamente verificare, in astratto, la sussistenza delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto procedendo, in caso positivo, all’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito.

Sicché, la sentenza in commento offre interessanti spunti interpretativi volti ad incoraggiare una lettura uniforme dell’art. 133-bis C.p. ivi evidenziandosi come la nuova norma contempli – oltre ai limiti oggettivi di applicabilità determinati sulla base della pena edittale astrattamente prevista (reati che prevedono una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni) – ulteriori requisiti rimessi alla discrezionalità giudiziale: la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità della condotta.

Onde determinare il primo requisito – specificano i giudici – è necessario esaminare la modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo da valutarsi secondo i criteri indicati all’art. 133 C.p. (ossia, natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa, intensità del dolo o grado della colpa).

Pertanto, solo ove sussistano congiuntamente i requisiti della particolare tenuità dell’offesa – determinata secondo i suddetti canoni esegetici ex art. 133 C.p. – e la non abitualità della condotta, i giudici potranno ritenere il fatto di particolare tenuità escludendo – per l’effetto – la punibilità della condotta incriminata.

Alla luce di quanto sopra esposto, i giudici di legittimità, dopo aver affermato l’astratta applicabilità dell’art. 133-bis C.p. in virtù del principio del favor rei, ne escludono contestualmente l’applicazione in concreto per l’assenza, nel caso di specie, dei requisiti imposti dalla suddetta norma giacché – sulla base della lettura del provvedimento impugnato – emergono molteplici dati inequivocabilmente indicativi di un apprezzamento già espresso dai giudici di merito in ordine alla gravità dei fatti addebitati al liquidatore della società tali da ritenere non configurabili i presupposti per la richiesta applicazione dell’art. 133-bis C.p..

In conclusione, si rileva come la sentenza in commento – al di là dell’affermata natura sostanziale della novella legislativa e la conseguente applicazione ai procedimenti pendenti in virtù del principio del favor rei – non appare particolarmente rilevante in relazione alla miriade di questioni interpretative ed applicative derivanti dall’istituto della particolare tenuità del fatto.

In tale circostanza – invero – i giudici di legittimità sembrano aver perso una notevole occasione per offrire un primordiale indirizzo esegetico in ordine alla compatibilità dell’istituto in commento con le soglie oggettive di non punibilità – onnipresenti nell’ambito dei reati tributari -.

Resta infatti ancora irrisolto il dubbio sollevato dai primi commentatori della novella se, in virtù del principio di non contraddittorietà dell’ordinamento giuridico, il superamento di siffatte soglie – espressione di un presunzione legale ex ante della gravità di un fatto – impedisca al giudice di considerare il medesimo fatto come particolarmente tenue ai sensi dell’art. 133-bis C.p..

Diversamente, potrebbe prospettarsi l’ammissibilità in via generale di una pronuncia di non punibilità della condotta per l’accertata particolare tenuità del fatto in quanto l’istituto in questione – disciplinato oggi all’art. 133-bis C.p., ossia nella parte generale del Codice Penale – dovrebbe ritenersi come principio sostanziale – con applicazione rimessa alla discrezionalità dell’organo giudicante a prescindere della previsione legale di soglie di punibilità del fatto tipico -.

(di Serena Giglio e Chiara Lo Re)

Il presente contributo dottrinale si propone la finalità di analizzare le disposizioni dell’art. 35 del D.P.R. 602/1973 alla luce dei nuovi orientamenti di dottrina e giurisprudenza, in tema di responsabilità solidale nell’ambito del rapporto di sostituzione d’imposta.

L’art. 35 del D.P.R. 602/1973 stabilisce che «Quando il sostituto viene iscritto a ruolo per imposte, sopratasse e interessi relativi a redditi sui quali non ha effettuato né la ritenuta a titolo di imposta né i relativi versamenti, il sostituito è coobligato in solido». L’interpretazione della norma è sempre stata dubbia sotto il profilo della responsabilità solidale del lavoratore dipendente/sostituito nell’ipotesi di ritenute d’acconto operate ma non versate dal sostituto d’imposta.

Da un’analisi sistematica del dato normativo emerge inequivocabilmente come la solidarietà prevista dall’art. 35 del D.P.R. 602/1973 sia limitata alle sole ritenute a titolo d’imposta che non siano state né effettuate né versate da parte del sostituto d’imposta; per le ritenute a titolo di acconto, invece, nessuna solidarietà del sostituito è espressamente prevista dalla legge.

La ratio della suddetta esclusione è da rinvenirsi nella circostanza che la ritenuta a titolo d’acconto costituisce solo un’anticipazione del tributo, che non estingue l’obbligazione tributaria del sostituito, il quale deve comunque indicare i relativi redditi nella propria dichiarazione, calcolare l’imposta globalmente dovuta e, quindi, scomputare da questa l’ammontare delle ritenute subite.

Ai fini delle scomputo delle ritenute d’acconto subite è irrilevante che le stesse siano state versate o meno da parte del sostituto, proprio perché la responsabilità solidale del sostituito è prevista solo nel caso di ritenute a titolo d’imposta. In ogni caso, il Fisco recupererà la ritenuta d’acconto operata ma non versata dal sostituto d’imposta direttamente nel momento in cui il contribuente verserà la propria IRPEF.

Nonostante l’inequivocabilità del dato normativo, la Corte di Cassazione conferma il proprio orientamento restrittivo sulla responsabilità solidale del sostituito d’imposta per le ritenute d’acconto operate ma non versate dal sostituto d’imposta. I giudici di Piazza Cavour, in una recente ordinanza (Corte di Cassazione, sez. VI, ordinanza 14/05/2015, n. 9933) hanno affermato che «in tema di solidarietà passiva nelle obbligazioni tributarie, la circostanza che la legge definisca il sostituto d’imposta come colui che “in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri […], ed anche a titolo di acconto” non toglie che, in ogni caso, anche il sostituito debba ritenersi già originariamente (e non solo in fase di riscossione) obbligato solidale al pagamento dell’imposta: soggetto perciò egli stesso all’accertamento e a tutti i conseguenti oneri».

Tale posizione della giurisprudenza non può essere condivisa soprattutto perché si mostra più rigorosa di quella fatta propria dall’Amministrazione finanziaria, che è giunta, seppur limitatamente ai redditi di lavoro autonomo e d’impresa, a riconoscere efficacia liberatoria per il sostituito all’effettuazione della ritenuta, indipendentemente dall’effettivo versamento della stessa da parte del sostituto. Difatti, l’Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione n. 68/E del 19 marzo 2009, seppur limitatamente ai redditi di lavoro autonomo e d’impresa, ha riconosciuto al contribuente, che non sia in grado di esibire la certificazione rilasciata dal sostituto d’imposta, il diritto di scomputare legittimamente la ritenuta subita indipendentemente dall’effettivo versamento della stessa da parte del sostituto: a tal fine, l’effettuazione della ritenuta determina un’efficacia liberatoria per il sostituito che, però, deve essere in grado di dimostrare l’effettivo assoggettamento dei compensi a ritenuta presentando apposita documentazione.

Ciò premesso, è indubbio che tale efficacia liberatoria debba riconoscersi anche nei confronti del contribuente/lavoratore dipendente che si sia adoperato per dimostrare la propria assoluta buona fede e sottoposizione alla ritenuta operata dal datore di lavoro, mediante la produzione della copia delle proprie buste paga nonché del CUD, non potendogli essere eccepito alcunché e rimanendo, quindi, circoscritta al solo sostituto d’imposta la responsabilità per l’eventuale omesso versamento delle ritenute nei confronti dell’Erario. Di contro, per effetto della ritenuta d’acconto, il sostituito rimarrebbe inciso dal prelievo subito sulla propria retribuzione e sarebbe costretto a pagare per ben due volte la propria imposta. Un’interpretazione estensiva dell’art. 35 D.P.R. 602/1973, non solo comporterebbe il rischio di una doppia imposizione, ma sarebbe anche incostituzionale: un pieno ed incondizionato rispetto del principio della capacità contributiva ex art. 53 Costituzione, impone di non poter incorrere in tale rischio qualora il contribuente abbia correttamente dimostrato e provato di aver subito/pagato la ritenuta. Il contribuente non può essere obbligato al pagamento di una somma da altri trattenuta e di cui non ha mai avuto il possesso e, pertanto, deve essere considerato “estraneo” al rapporto tributario.

Le conclusioni a cui è giunta la Cassazione appaiono ancor più irragionevoli soprattutto alla luce dell’orientamento dottrinale che sembra essere unanime nell’escludere la responsabilità solidale del sostituito che ha subito la ritenuta d’acconto successivamente non versata all’Erario da parte del sostituto d’imposta. Difatti, Autorevole dottrina (Cfr. R. Lupi, “Sullo scomputo delle ritenute dubbi giurisprudenziali e chiarezze amministrative”, Dialoghi Tributari, 3/2009, p. 317) ha qualificato la solidarietà ex art. 35 del D.P.R. 602/1973 «a dir poco demenziale» poiché il sostituito è privo di un potere di intromissione nella sfera giuridica del sostituto, ed in nessun modo potrebbe provocare un’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di versare la ritenuta e di rilasciare un certificato attestante quest’evento; pertanto, prevedere un obbligo solidale di «auto versarsi» le ritenute in caso di omissione del sostituto, è un vero e proprio «non senso fiscale», di cui ovviamente nella legge non c’è traccia.

Occorre, inoltre, evidenziare come sarebbe illogica ed inconferente una diversa interpretazione della responsabilità solidale ex art. 35 del D.P.R. 602/1973: se il datore di lavoro ha operato la ritenuta d’acconto sul reddito erogato al lavoratore dipendente, ma successivamente ne omette il versamento, l’obbligo del sostituito di corrispondere all’Erario imposte già a lui trattenute dal suo sostituto d’imposta comporterebbe una duplicazione di imposizione che troverebbe la sua causa solamente nell’inadempimento del sostituto stesso. Di contro, il contribuente/lavoratore subirebbe gli effetti dell’omesso versamento del sostituto, essendo assoggettato al rischio del suo inadempimento, e sarebbe garantito solo tramite un’azione di rivalsa che, per varie ragioni, potrebbe risultare infruttuosa, specie nel caso di fallimento del sostituto d’imposta.

Pertanto, non può essere condivisa una soluzione interpretativa che ipotizzi un’azione di recupero nei confronti del contribuente che ha già subito il prelievo d’imposta, per effetto della ritenuta subita, pur se tramite il soggetto al quale la legge attribuisce il compito di trattenere il tributo e di versarlo: seguendo quest’impostazione, è inevitabile, infatti, che il sostituito assuma la posizione di parte debole nei rapporti con il sostituto e con il Fisco, poiché il contribuente che ha subito la ritenuta non è neanche in grado di verificare se la stessa è stata versata dal sostituto (Cfr.: Damiani, “Da rimediare la solidarietà tributaria tra sostituto d’imposta e sostituito”, Corr. Trib., n. 43/2014, p. 3357; Carinci, “La non condivisibile responsabilità del sostituito per le ritenute d’acconto operate ma non versate dal sostituito”, Corr. Trib. n. 45/2013, p. 3546; Beghin, “Detraibili le ritenute d’acconto effettuate ma non certificate”, Corr. Trib. N. 19/2008, p. 1527).

In tal senso si è più volte espressa in maniera inequivocabile anche la giurisprudenza di merito.

La CTP di Reggio Emilia, con la sentenza n. 420/07 del 13.12.2008, ha avuto modo di evidenziare che quando “la parte ha fornito copia sia delle buste paghe dalle quali risulta l’avvenuta trattenuta sia copia dei Modelli CUD che per la ricorrente certificano l’avvenuto versamento (…) non può essere richiesta al sostituito una responsabilità in solido con il sostituto e resta in capo all’Erario recuperare le somme non versate”. Ad analoghe conclusioni circa l’assenza di responsabilità del sostituito rispetto agli “inadempimenti” fiscali commessi dal sostituto è pervenuta anche la CTP di Milano con la sentenza n. 99 del 2 maggio 2007 che si è espressa con riferimento ad una fattispecie ove le ritenute non erano state riversate, né certificate, in ragione del sopravvenuto fallimento del sostituto d’imposta. In particolare, secondo la Commissione lombarda, il legislatore ha posto a carico del datore di lavoro l’obbligo di trattenere dal salario del lavoratore dipendente l’acconto d’imposta da riversare all’Erario; di conseguenza «l’unico vero obbligato, cioè il dipendente, paga l’imposta nel momento stesso in cui subisce la ritenuta, non avendo, peraltro, facoltà alcuna di praticare un diverso sistema di pagamento», sì che, «l’obbligazione si estingue per adempimento in capo all’originario titolare del debito fiscale e si costituisce ex novo in capo al sostituto d’imposta, che ha applicato la ritenuta”.

Inoltre, come precisato da Autorevole dottrina, nella sostituzione d’acconto non sussiste quell’identità di prestazione richiesta dall’art. 1292 c.c. che è indispensabile perché sussista una coobbligazione tra due o più soggetti: la prestazione del sostituito, dunque, consiste unicamente nel dichiarare il provento percepito e nel versare in base alla dichiarazione dei redditi “una somma priva di qualsiasi relazione con quella dovuta dal sostituto” del cui mancato versamento, dunque, non può e non deve ritenersi responsabile (cfr., in questo senso, Cipolla, voce “Ritenuta alla fonte”, in Dig. disc. priv., sez. comm., XIII, Torino, 1996, 4 ss.; cfr., altresì, Giovannini, “Soggettività tributaria e fattispecie impositiva”, Padova, 1996, 291 ss., Lupi, “Diritto tributario – Parte generale”, Milano, 2005, 256 ss.; Falsitta, “Manuale di diritto tributario – Parte generale”, Padova, 2005, 245 ss.).

In conclusione, quindi, è del tutto ragionevole ritenere che nel momento in cui la ritenuta d’acconto è stata operata ne consegua ex lege, la liberazione del sostituito, indipendentemente dal fatto che il sostituto provveda o meno ad adempiere al versamento della somma corrispondente.

D’altronde, una politica fiscale finalizzata a dirimere il fenomeno dell’evasione fiscale dovrebbe agevolare il controllo sul versamento delle ritenute piuttosto che accanirsi nei confronti di una vastissima categoria di contribuenti, ovvero i lavoratori dipendenti che, non avendo alcun margine di manovra, sono soggetti ad un prelievo coattivo dal quale non possono sfuggire.

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