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Conviene ancora la delocalizzazione? Il fenomeno del back re-shoring

Per back re-shoring si intende un fenomeno di rientro delle imprese che in precedenza hanno deciso di localizzarsi all’estero.

La letteratura in materia, definisce tale processo come una forma di internazionalizzazione avanzata.

Solitamente nel percorso iniziale di espansione l’impresa decide di esternalizzare alcune sue funzioni, ad esempio, la produzione, e si approccia ad un mercato estero con l’apertura di uno stabilimento. Per le aziende più strutturate lo sviluppo viene effettuato con investimenti diretti esteri in ottica greenfield per poi rivolgersi ad una prospettiva di acquisizione di aziende concorrenti che completa il quadro di internazionalizzazione. Fattori esterni come cambiamenti governativi e di politica economica all’interno di un Paese estero, potrebbero portare a investimenti considerati non più convenienti. Si pensi all’aumento del costo di manodopera o a situazioni geopolitiche.

Di fronte a tali difficoltà, molte imprese tendono a rientrare nel Paese d’origine adoperando una forma di back re-shoring, e in alcuni casi di near re-shoring, continuando a delocalizzare, ma in un Paese confinante.

Dagli studi condotti da Uni CLUB MoRe, unione universitaria di più atenei che tiene conto di tale fenomeno, sulla base empirica di oltre 400 aziende i fattori di maggior rilievo, che portano ad una scelta manageriale di questo tipo sono:

Tab.1: Ripartizione per motivazione – Top 10

Fonte: Uni-CLUB MoRe Back-reshoring Research Group

Dalla tabella, emerge che i costi di logistica, quindi il trasporto dal Paese di distribuzione al Paese di vendita risultano essere elevati per circa il 25% dei rispondenti. Il fattore che però sorprende più di tutti è il “Made in effect”, ovvero il luogo di produzione, a conferma del fatto che “il mercato è disposto a riconoscere il prodotto se realizzato in un dato contesto geografico”.

Per l’Italia, è dunque, un elemento di successo se si pensa al ruolo che qualitativamente si ha con il “fabbricato in Italia”.

Gli altri fattori sempre dal carattere rilevante sono gli alti costi di manodopera e la qualità delle materie prime presenti nel mercato estero, che inficiano sul prodotto finale.

Nel mondo l’applicazione di politiche strategiche di ritorno, vedono gli USA come protagonisti, con il 46,6% e l’Italia, con il 40% del totale dei rientri europei.

La politica industriale statunitense ha influenzato molto sul back re-shoring, complice lo shale gas, ovvero la riduzione dei costi dell’energia che ha raggiunto i minimi storici. Su questo gli USA, nel periodo Obama, hanno attuato il Blue print for an American built to last, provvedimento governativo che predispone interventi di agevolazione fiscale per le aziende che ritornano nel proprio luogo di origine.

Se gli americani hanno fatto leva sulla politica industriale, stessa cosa non può essere detta per l’Italia che non ha attuato nessun provvedimento in grado di accogliere le imprese rientranti. Una peculiarità del tutto italiana, che si sostanzia nel fatto che “si tratta dell’iniziativa spontanea di singoli imprenditori che intraprendono questa scelta, senza incentivi al rientro, spinti maggiormente dalla volontà di incrementare la qualità dei prodotti”.

I settori coinvolti sono dei più vari. Si va dalla nautica con il Gruppo Azimut-Benetti, leader del segmento yacht di lusso, che dalla Turchia sposta in Italia tutti i suoi comparti produttivi, con l’obbiettivo di “rafforzare le proprie radici” (Made in effect), fino al settore finanziario con Unicredit, che ha effettuato il backshore della divisione East Europe da Vienna a Milano. Tale trasferimento comporta il controllo (dall’Italia) di tutte le filiali Unicredit nell’Est Europa. Il piano prevede un incremento del 30% nel prossimo triennio sia di ricavi che di utili.

Date queste testimonianze, ciò che prevale è il nome Italia, a cui si affianca il concetto di qualità. Le aziende che sostengono tale posizione sono molte, ma ancora non è stato fatto nulla dal punto di vista legislativo. Le imprese chiedono un riconoscimento normativo che certifichi l’origine delle produzioni, e che porti ad una maggiore tutela del marchio “Made in Italy”.

Inoltre, è da suggerire anche una politica attiva per incentivare il rientro delle imprese italiane, che in merito favorirebbero non solo un incremento manifatturiero, ma anche lavorativo in termini di occupazione, pur mantenendo un orientamento rivolto all’internazionalizzazione. Del resto un’impresa che si rivolge ai mercati esteri, aumenta il suo fatturato e i posti di lavoro.

(A cura di Davide Raso)

Bibliografia

  1. https://www.ilgiornale.it/news/rientro-delle-imprese-italia-volte-ritornano-1155705.html
  2. KPMG (2015, maggio). The Italian way. L’industria italiana tra re-shoring e nuovi modelli di sviluppo
  3. Manelli M, (2017), L’Internazionalizzazione d’impresa, Collana di Economia e Management, Franco angeli, Milano
  4. https://reshoring.eurofound.europa.eu/reshoring-cases/unicredit
  5. ilsole24ore.com, “Indagine esplorativa sulle strategie di (ri)localizzazione delle attività produttive nel settore calzaturiero italiano”

Rivista scientifica digitale mensile (e-magazine) pubblicata in Legnano dal 2013 – Direttore: Claudio Melillo – Direttore Responsabile: Serena Giglio – Coordinatore: Pierpaolo Grignani – Responsabile di Redazione: Marco Schiariti
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