E io dico no. Ogni notte ha un’alba.
(di Ilaria Reveruzzi)
Parole che fanno cultura.
Al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, ormai dal 3 dicembre e ancora per una settimana, entrano in scena la qualità e la sapienza, che separano l’impegno dall’indifferenza ed il coraggio della semina dalla narcosi.
“E io dico no. Ogni notte ha un’alba”, spettacolo scritto da Nando Dalla Chiesa e Marco Rampoldi e nato dallo studio di un gruppo di ricercatori del corso di Sociologia della Criminalità Organizzata tenuto dallo stesso Nando Dalla Chiesa alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, racconta con ritmo serrato la fitta rete capillare di un sistema mafioso radicatosi fin sotto l’epidermide italiana.
Ai cinque attori è affidata la tragicità di un viaggio in parole nelle viscere del belpaese, per indagare nella memoria, nelle notizie sottratte all’oblio, nelle pagine più buie della nostra storia recente.
Il fenomeno mafioso è descritto con minuziosa precisone in ogni suo sviluppo, dall’affiliazione con i suoi rituali, al voto di scambio, agli appalti, alle infiltrazioni nella politica, nella sanità, ai sequestri di persona, agli omicidi.
Dall’arresto di Luciano Liggio negli anni ’70 fino ai recenti sviluppi della cosiddetta “operazione infinito”, in un moto a luogo che si muove dalla Calabria alla Lombardia ci si sofferma nello stato in luogo di un’Italia in prognosi riservata, infettata da una illegalità strisciante che rischia di incancrenirla.
“Quando camminate nel sole di mezzogiorno portate l’oscurità con voi, è attaccata alle vostre scarpe, è compagna di ogni vostro passo. E vinceremo sempre noi. Perché noi siamo ovunque, come l’oscurità: siamo nei mercati più opulenti, nei traffici più impensabili, senza distinzione di frontiera e di nazionalità. Potete assolvere voi stessi, ma non potrete mai eliminarci finché non eliminerete la mafia che è in voi. Noi siamo l’oscurità, siamo dappertutto e viviamo in simbiosi con il lato oscuro di ciascuno di voi”.
Un’operazione che utilizza lo strumento del teatro per raccontare storie che raccontano storia italiana, nel cui bagaglio identitario ci sono domande alle quali nessuno ha ancora risposto e risposte da rendere ancora interrogative.
Una rappresentazione cruda, emozionale, indelebile, in cui si intercetta la volontà di una grandissima officina culturale di sovvertire l’indulgente torpore dell’acquiescenza con la memoria attenta del cronista e lo sguardo utopico del prosatore.
Con un gioco di prospettive che stimola le intelligenze, lo spettacolo dà luce alle debolezze della “notte mafiosa”, mostrando quanto siano illusorie le lusinghe di potere proposte dalla criminalità organizzata, quanto sia illusorio il concetto di “onore” degli uomini delle cosche e quanto concreto invece sia l’onore di tutti gli uomini che non si omologano al ribasso.
È attorno alla metafora dell’alba che si condensa, infatti, una rinnovata consapevolezza di poter combattere la criminalità organizzata lavorando sulla diffusione della cultura della legalità, una parola, quest’ultima, che rischia di diventare orfana di senso se non sussiste la volontà di condividerla, di renderla viva, di raccontarla con la forza del sapere che libera il paese dalle sue forme peggiori e spinge a guardare oltre.
Quell’oltre è nell’interiorità di ciascuno di noi.
Sbocciano così, nel monologo finale, parole di coraggio. Del coraggio di una parte.
Perché la grandezza di un paese non si misura solo dalla magniloquenza del suo passato, ma dall’eccellenza delle sue menti che quotidianamente scelgono di combattere, di farsi sentire, di non cedere alla cultura ineluttabile, quasi fisiologica, dell’assuefazione.
Un segnale importante, dunque, per chi crede e investe nel teatro della conoscenza, della dimensione culturale delle emergenze, per chi crede che la consapevolezza individuale non basti ma ci sia bisogno di un’unica prospettiva: la condivisione.
Un’occasione preziosa, immensità per ricchi di spirito.
Chapeau.